Un’arte nobile può accedere ai confini della coscienza collettiva per una serie di ragioni qualche volta distinte: l’idea che tutto nasca da una serie di appropriate circostanze, essendo lo specifico prodotto di un momento storico, una fase culturale, un’incontro di popoli ed usanze distinte. Oppure la sua intrinseca effettiva qualità direttamente percepita, sulla base del valore estetico dovuto alla perizia che contraddistingue i suoi creatori. Fattori che convergono, in maniera rara ed altrettanto affascinante, nell’opera ormai celebre di Jeremy Frey, depositario alla settima generazione di un’antica metodologia profondamente caratterizzante, impiegata già dai suoi antenati per contenere e valorizzare gli oggetti d’uso comune. Una prassi tipicamente diffusa nell’intera nazione dei Wabanaki, confederazione di tribù fondata nell’odierno Maine statunitense a partire dal XVII secolo, ma preziosa in modo particolare per la sua famiglia a Passamaquoddy, che ne aveva fatto in passato un importante mezzo di sostentamento riuscendo nel contempo a trasportarla verso vette precedentemente inesplorate. Mentre con il progredire della modernità, le correnti artistiche locali vedevano l’introduzione dei cosiddetti fancy baskets, cesti (o altri contenitori) realizzati non più col mero intento utilitaristico, bensì creati per stupire, affascinare, coinvolgere lo spettatore. Essendo caratterizzati dalle immagini, essenzialmente “ricamate” di animali o paesaggi, oppure caratterizzati da forme riconoscibili di frutta o altri tipici oggetti della foresta. Quello stesso luogo, ragionevolmente incontaminato, dove oggi l’artista si reca in spedizione più volte l’anno, alla ricerca dei migliori tronchi da abbattere e tagliare trasversalmente, della pianta Fraxinus nigra (let. frassino nero) nota per le sue fibre resistenti e flessibili, fondamentali per la pratica di questa singolare branca della creatività umana. Episodi cui fa seguito l’allestimento in laboratorio di una strategia allo stesso tempo logica e ben collaudata, consistente nell’ulteriore affettatura dei listelli, fino all’ottenimento di piccole fettucce lignee da inserire nella trama nell’ordito dell’odierna idea. Ed è a fronte di tale preparazione ed attimo meditativo di partenza, che inizia puntualmente a materializzarsi il puro oggetto della sua fantasia…
cultura
Le ruote del destino nel colossale veicolo trasformato in tempio del Sole a Konark
Dietro una solida barriera cresciuta sulla costa di querce tamarina ed allori tamanu, perfettamente visibile dal punto panoramico lungo un’arteria di collegamento stradale, si erge nella regione storica di Odisha un edificio dell’altezza di 30 metri sopra una solida piattaforma, con un tetto piramidale a gradoni successivamente sovrapposti. Ma sarà soltanto avvicinandosi a distanza più ridotta, che l’osservatore potrà scorgere l’eccezionale quantità di gruppi statuari e sculture in bassorilievo che si affollano su queste mura, raffiguranti in egual misura scene mitiche, momenti della vita quotidiana e posizioni tantriche direttamente estratte dal sacro repertorio del Kamasutra. Laddove nella parte più vicina al suolo, gli oltre 1.200 scultori coinvolti all’epoca della sua costruzione vennero incaricati di prevedere la forma immediatamente riconoscibile di 24 ruote finemente ornate, non tanto come raffigurazione del ciclo dell’esistenza e la natura ciclica dell’Universo. Bensì necessari componenti al fine di far muovere, in maniera metaforica se non pratica, l’intero torreggiante ammasso di muratura e pietra. Alimentando l’idea per cui tutto diventava possibile, nel distante e misterioso Oriente…
Con le loro armi energetiche, i veicoli spaziali, la capacità di cambiare aspetto e identità terrena, molti degli aspetti attribuiti alle divinità dell’Induismo avvicinano queste figure trascendenti alla moderna e molto più prosaica concezione di un popolo cosmico entrato in contatto in con gli umani, in un’epoca remota, finendo per essere venerato mediante crismi rituali e costruzioni tangibili capaci di restare intatte attraverso lo scorrere d’infinite generazioni. Così come l’idea del tutto mitologica, ma inerentemente influenzata da corrette percezioni di natura astronomica, che l’astro diurno fosse trasportato quotidianamente attorno al nostro mondo grazie all’utilizzo di un carro volante, le cui proporzioni si sarebbero probabilmente avvicinate a quelle del palazzo semovente di un sovrano. Un’idea riconducibile a quella del dio greco Elio, sostituito in questi luoghi da Sūrya (“Luce Suprema”) entità precedente addirittura all’elaborazione della Trimurti e che nei poemi epici del Ramayana e Mahabharata appare rispettivamente come il padre spirituale di Rama e di Karna. Il che rende alquanto atipica e di certo singolare, l’assenza generalizzata di templi dedicati a tale ancestrale divinità sebbene i pochi dislocati nell’intero estendersi del subcontinente figurino senz’altro tra i più massicci e notevoli di questo eterogeneo paese. Con uno, in modo particolare, utilizzato come termine di paragone nonché principale esempio sopravvissuto dell’originale scuola architettonica dello stile Nagara, tradizionalmente contrapposto a quello dravidico dell’India meridionale. Trattasi di niente meno, come avrete certamente già desunto dall’intestazione, che dell’iconico Sūrya Deul di Konark, situato in corrispondenza di un importante porto commerciale di scambio e laguna di approvvigionamento ittico del potente impero dei Ganga Orientali, capace di regnare nell’intera regione di Kalinga sulla costa Est dell’India senza sostanziali interruzioni dal V alla metà del XX secolo. Questo grazie all’opera continuativa dei depositari di una potente tradizione militare, ma anche l’abilità strategica e diplomatica di sovrani come Narasingha Deva I (r. 1238-1264) dimostratisi capaci di costituire una barriera invalicabile contro l’espandersi della sfera d’influenza politica, ed al tempo stesso quella religiosa, dei potenti Mamelucchi islamici di Delhi…
Il destino delle arcane foglie nella biblioteca della pura conoscenza balinese
La disponibilità o diffusione di particolari tecnologie plasma la cultura di un popolo, e questo è vero per importanti avanzamenti generazionali come la stampa, la bussola o Internet, così come dei concetti basilari quali il semplice principio necessario per tradurre le parole, in scrittura. Così che l’impiego di un determinato tipo di caratteri, siano questi fonetici, sillabici o dei veri e propri ideogrammi, può scaturire dal bisogno di riuscire a riprodurli con determinati metodi o materiali. È questo il caso di molte scritture brahmi dell’Asia meridionale, dal Devanagari al Telugu, dal Javanese al Tamil, le cui lettere tondeggianti, piuttosto che essere formate dalle linee dritte che caratterizzano l’alfabeto latino, avevano uno scopo ben preciso: prevenire che il principale materiale utilizzato per la scrittura, per sua natura solido, ma non indistruttibile, finisse per spezzarsi letteralmente in più di un pezzo rendendo totalmente inutile il lavoro dello scriba. Questo perché il tipico sostegno dell’inchiostro in quei paesi, dal V secolo a.C. fino al XIX ormai successivo alle contaminazioni provenienti da Occidente, non era bianca carta né pergamena, né papiro o altra sofisticata fibra dalla provenienza vegetale. Bensì un pezzo di vegetazione stessa, ovvero le foglie piatte e larghe che formavano la caratterizzante corona dell’albero di palma. Un qualsiasi albero facente parte del genere Palmyra dunque, o certe zone dell’India la specie Corypha umbraculifera, adeguatamente prelevate, messe ad essiccare e successivamente appiattite mediante l’uso di varie tipologie di presse dal grado di tolleranza progressivamente minore, verso l’ottimale attrezzo definito pemlagbag. Fino all’ottenimento di una serie di ritagli dalla configurazione rettangolare, perfettamente idonei all’intaglio di annotazioni delle tipologie ed argomenti più diversi, da testi di medicina a salmodie religiose, passando per codici legali ed opere letterarie finemente illustrate. Il tutto mediante l’utilizzo di un piccolo e maneggevole coltello da intaglio, capace di tracciare i solchi destinati ad essere, di lì a poco, colmati con inchiostro nero ricavato dalla fuliggine delle lampade, colla organica ed olio vegetale come additivo. Per poi passare, dopo il lavaggio dell’eccesso, allo stadio fondamentale della rilegatura, ottenuta mediante il ricavo di un foro centrale con il trapano piglig entro cui viene fatto passare un semplice spago, così da preservare l’ordine delle foglie durante la lettura.
Un approccio all’immortalità delle nozioni non propriamente privo di difetti, vista la propensione di tali testimonianze a disgregarsi completamente in un tempo variabile in media tra i circa 60 e 600 anni, a seconda dell’umidità e conseguente presenza di parassiti del legno all’interno di un determinato territorio di riferimento. Il che avrebbe permesso, ad esempio, ad alcuni testi nepalesi di giungere intatti fino a noi dall’epoca medievale, così come in un caso particolarmente degno di nota, al manoscritto Spitzer risalente al secondo secolo di rimanere perfettamente leggibile ai moderni, grazie al clima moderato delle grotte di Kizil in Cina, celebri per le loro mille e più statue raffiguranti Buddha ed i suoi discepoli più famosi. Laddove in luoghi come l’Indonesia, ed in modo particolare l’isola di Bali, un ambiente maggiormente problematico avrebbe portato all’implementazione di precise ed altrettanto collaudate pratiche di conservazione…
Il retrofuturismo visionario del centro conferenze creato sul confine acquatico della vecchia Kyoto
All’inizio del dicembre 1997 i rappresentanti di un larga parte dei paesi industrializzati al mondo (e non solo) fecero l’ingresso nella grande sala trapezoidale sotto un gigantesco disco illuminato, alludente all’astro del mattino, in cui le letterali dozzine di aste con bandiere nazionali creavano un contrasto interessante con le opere d’arte post-moderniste ed un ambiente che sembrava sollevato a pieno titolo da un film distopico sull’Era Spaziale. Al termine della presentazione concordata, in cui scienziati, climatologi e politicanti recitarono i propri pronunciamenti sullo stato preoccupante del clima terrestre, vennero introdotte le specifiche di un nuovo accordo sul contenimento delle emissioni inquinanti di diossido di carbonio ed altri cinque gas capaci di causare l’effetto serra. Ben presto, in mezzo a boschi, cervi e sopra le acque di un lago splendente quasi a ricordare cosa si stesse cercando di proteggere, la collettività avrebbe votato ed approvato il cosiddetto accordo di Kyoto. Fu l’inizio di qualcosa di grande ma anche, sotto molteplici punti di vista, il principio della fine. Poiché i numeri attribuivano una quantità maggiore di doveri a coloro che contribuivano in più larga parte al problema. Ed in molti di questi luoghi, tra cui soprattutto gli Stati Uniti, ci si dichiarò più volte incapaci di ratificare quella firma, iniziando ben presto a negare l’esistenza prettamente matematica del problema.
Ciò che tutti i partecipanti avrebbero ad ogni modo riportato in patria, da quel saliente incontro, sarebbe stato il punto di vista di tale struttura memorabile, costruita oltre tre decadi prima con il ruolo collaterale ricordare all’uomo il proprio ruolo e posizione nel vasto e continuativo sistema dei processi naturali dell’Universo. Questo l’obiettivo dichiarato dal creatore Sachio Otani e dello stesso movimento architettonico di cui egli era membro, la scuola di pensiero del Metabolismo giapponese collegata soprattutto all’opera di Kenzo Tange. Non cercate, tuttavia, nel Kyoto International Conference Center, il distintivo impiego modulare della capsula o la forma progettuale dell’arcologia ipertrofica per ottimizzare i processi e le dinamiche della vita contemporanea. Laddove un simile complesso, detentore di diversi record nazionali, si sarebbe dimostrato avveniristico piuttosto da un diverso angolo di osservazione dei suoi dominanti elementi. La capacità di coniugare l’antico e il moderno. L’assoluta impostazione visionaria di talune soluzioni strutturali, coadiuvate da un gusto estremamente personale e profetico da molti punti di vista degni di nota. Per come ci appaiono coerentemente al giorno d’oggi, attraverso la lente di un certo tipo di design fantastico e le scenografie dei film di fantascienza, in larga parte ispirate alla corrente molto più internazionale del Brutalismo. Di béton brut (cemento grezzo e privo di ornamenti) il Kyoto ICC effettivamente ne usa parecchio. Ma è nella grazia e simmetria delle sue forme fondamentali, che trova una sua strada parallela ed intrigante verso l’estetica sublime del wabi-sabi, pilastro filosofico della nazione…