Primizie dall’artista che intrappola nel vetro l’esplosione cromatica della materia

Molti accorsero in quel fatidico 2006, per una pianta verticale apparsa all’improvviso nello spiazzo centrale dei giardini botanici del Missouri. Simile a una torre ricoperta di tentacoli spinati quasi simmetrici, ma non proprio, tali da richiamare nella mente l’immagine soltanto in parte familiare di un’aloe cresciuta nell’imprescindibile secchezza deserto nordamericano. Eppure priva di alcun tipo di apparente economia biologica, con le propaggini di un tono verde oliva, in grado di riflettere la luce come fosse l’elemento di una fiamma congelata nel tempo. Allorché chiunque avesse un interesse, anche soltanto passeggero, nell’osservazione botanica delle specie in quel periodo lo avrebbe notato: simili esemplari, ancor più variopinti e bizzarri, talvolta traslucidi al punto da sembrare evanescenti, che facevano la propria comparsa nei diversi conservatori botanici della nazione, e non solo. Querce magiche, rampicanti ultradimensionali, fiori strabilianti per la varietà delle proprie forme ed apparenze situazionale. I semi avevano attecchito, finalmente, non per cura decennale o dedizione degli addetti ai lavori. Bensì la visione olistica e l’opera coordinata dalla mente fervida di un singolo uomo. Dale Chihuly aveva cambiato, finalmente, il registro periodico della sua arte. “Mille fiori” e/o “C. in the Garden” era il titolo, di quest’universo mistico ed immaginifico recentemente scaturito dalla pratica vetraia dei laboratori, considerati a buon ragione come punta di diamante e raison d’être della formidabile rinascita di questa particolare forma d’arte a Seattle, Tacoma, Portland e altri luoghi del Pacific Northwest nel corso degli ultimi decenni. Con genesi remota dall’evento raccontato come meramente accidentale nel 1961, che aveva portato questo americano di discendenza slovacca, all’epoca laureando in Interior Design, ad interessarsi alla fusione e soffiatura del vetro. E “soltanto” una sessantina d’anni a disposizione, di carriera destinata a rivoluzionare l’intera percezione collettiva di quel materiale eternamente utile, quanto subordinato ormai da plurime generazioni alla mera applicazione utilitaristica nel quotidiano delle persone. Ovunque tranne che in un luogo: Venezia. Dove l’artista ebbe modo di soggiornare negli anni successivi, durante il suo periodo di studio a Firenze, durante cui iniziò la pratica del tutto originale di tessere degli arazzi in cui riusciva a incorporare dei pezzi di vetro intrecciato. Un punto di partenza, se vogliamo, di quello che sarebbe diventato in seguito il suo marchio di fabbrica: creazioni organiche e asimmetriche, quasi cresciute piuttosto che precisamente progettate dalla mente di un produttore umano. Presenze del tutto inflessibili, come si confà a quel tipo di opere, ma che sembrano fluire in modo indefinibile nel vento delle circostanze, se solo ci si ferma per qualche fatidico momento, come dicono gli americani, ad “annusarne i fiori”. E le molteplici declinazioni egualmente memorabili che tendono, in un’ampia varietà di circostanze attentamente studiate, a derivarne…

Sette installazioni di Chihuly trovano posto presso la storica distilleria di Maker’s Mark nel Kentucky, tra cui questo memorabile orto variopinto d’inconsuete meraviglie.

Se c’è qualcosa che può definire in breve la visione di questo fondamentale quanto eclettico artista del Novecento, particolarmente celebrato in patria nonché protagonista indiscusso di un quantità notevole di mostre e collezioni museali pressoché ovunque, è senz’altro la sua capacità d’infondere nel vetro una dimensione monumentale ed almeno in apparenza, eterna. Tramite la specializzazione, fortemente associata al suo nome, nella creazione d’installazioni spesso permanenti che incarnano lo spirito tipicamente riconoscibile dei principali artisti concettuali moderni, sebbene tramite un approccio a suo modo distinto, che sembra mirare alla prosecuzione di una serie di temi invariabili del tutto scollegati dal bisogno di promuovere se stesso ed il suo lavoro. Con la strategia delle sue celebrate “serie” a partire dai Cilindri e Cestini colorati degli anni ’70, fantasticamente vari per registro espressivo ed aspetto, passando per le Macchie del decennio successivo che potrebbero costituire il primo esempio di conglomerati dall’aspetto vagamente vegetale. Contemporanee alle Seaforms (Forme Marine) allusioni immaginifiche nei riguardi di creature non propriamente esistenti, incrostazioni di mitili, colonie di anemoni, oloturie e così via piacendo. Storico poi il momento successivo, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, in cui tornò a Venezia per una collaborazione con l’artista italiano Lino Tagliapietra, che l’avrebbe portato ad ornare la Serenissima con variopinti e stravaganti lampadari sospesi sopra i suoi vicoli, canali e calli. Destinati a generare un nuovo tipo di processo artistico che in un certo senso, prosegue tutt’ora. E ciò senza dimenticare i giapponismi delle sfere Nijima, ispirate ai galleggianti dei pescatori ed il tema ricorrente in seguito dell’ikebana, che lo avrebbe gradualmente condotto alla sua forse più celebre, ed ormai del tutto inconfondibile serie incentrata sulle piante e sui vegetali, custodita in forma stabile presso alcuni dei giardini botanici più celebrati al mondo.
Nessuna trattazione dell’artista potrebbe dunque dirsi completa, senza una parte dedicata a descrivere la sua articolata vicenda personale a partire dal modo in cui, avendo perso il padre ed il fratello maggiore prima del raggiungimento dei vent’anni, iniziò presto a lavorare per mantenersi durante gli studi assieme alla madre che lo avrebbe in seguito sostenuto nelle sue notevoli ambizioni. Fino all’incidente d’auto subìto nel 1976, in conseguenza del quale perse la vista dall’occhio sinistro, coperto con la benda destinata a diventare una parte inscindibile del suo personaggio. Ed assieme ad esso, la percezione della profondità tanto importante per la lavorazione del vetro, il che l’avrebbe portato ad “Assumere una posizione più distante” dalla quale, per usare le sue stesse parole: “Scoprì un apprezzamento per le cose (nuove) che riusciva a vedere”. Fu questo l’inizio della parte di carriera di Chihuly che potremmo definire maggiormente affine al post-modernismo, in cui egli partecipa direttamente ad ogni creazione recante il suo nome da un punto di vista primariamente concettuale. Disegnando e dirigendo l’opera di un laboratorio di giovani artigiani cresciuto progressivamente nel tempo, fino all’attuale quantità di circa cento dipendenti. Ciascuno egualmente teso a realizzare la visione del maestro, mentre nel contempo cerca, per quanto possibile, di carpire la scintilla mistica che gli ha permesso di raggiungere gli assoluti vertici percepiti, e straordinariamente remunerativi, dell’arte statunitense. Il che non può che tendere talvolta a generare dei problemi trasversali, soprattutto nei periodi in cui, a causa del suo disturbo bipolare e gli occasionali periodi di depressione, Chihuly necessita di allontanarsi temporaneamente dall’amministrazione puntuale di ogni benché minimo dettaglio…

Il museo e giardino del vetro di Chihuly all’ombra della celebre torre panoramica di Seattle potrà anche aver preso il posto di un beneamato Luna Park nel 2012, tra le sintetiche proteste dei comitati. Ma resta indubbia l’intrinseca capacità di offrire scorci straordinari a chiunque si prenda il tempo necessario a visitarlo, sia esso un abitante del posto o turista proveniente da qualsivoglia altra località del mondo.

Rimase celebre, a tal proposito, il caso della causa legale del 2006, indetta contro un suo ex-dipendente che stava impiegando in autonomia alcuni dei soggetti e titoli del marchio Chihuly per realizzare un cospicuo guadagno personale. Cui fece seguito la lamentela pubblico di quest’ultimo, teso a minimizzare la partecipazione personale dell’artista nella realizzazione per così dire pratica di alcune delle sue opere più celebrate. Il che, da un punto di vista fondamentale, non dovrebbe necessariamente avere alcun tipo di conseguenza sul discorso: forse critichiamo il regista quando non recita ed interpreta direttamente uno dei protagonisti? O l’allenatore di una squadra di calcio, perché il suo ruolo non è calciare il pallone in porta al culmine della finale di campionato? Ci sono molti modi d’interpretare la partecipazione autorale di qualcuno ai suoi più notevoli e altresì persistenti capolavori. E sta al senso d’iniziativa implicito del talvolta rigido, eccessivamente inamovibile senso comune, scoprirli.
Così come il fiore sboccia quando meno te lo aspetti, in luoghi già notevolmente ingombri di verdeggianti e fruttifere meraviglie. Degne di essere guardate da lontano e celebrate, certamente, ma anche affiancate dalla scintillante partecipazione traslucida dell’ingegno umano. Poiché non c’è museo più coinvolgente di un orto botanico. Ed istruttore con più cose da dire ai suoi studenti, che la natura stessa.

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