Perché in Portogallo danno non arreca, quando incontri un pipistrello in biblioteca

L’ultimo discendente della famiglia Tepes volse attorno il proprio sguardo, mentre ascoltava il battito insistente della Morte, che tentava di distrarre i propri vasti padiglioni auricolari dal captare l’eco notturno delle pareti. “Impossibile restare indifferenti, di fronte a quello che ci ha i lasciato.” Squittì sommessamente allora, scrutando gli occhi del dipinto ad olio colossale, incorniciato nella nicchia dorata, che raffigurava il sovrano Giovanni V soprannominato “il Magnanimo” o in tempi più recenti, più correttamente in senso storiografico, “il Re Sole Portoghese”. File sovrapposte, sopra file ed altre balconate, di pesanti testi rilegati in pelle, incunaboli preziosi, altri cartacei tesori ancor più antichi del diffondersi della macchina a vapore. Ma ovviamente, davvero inutile sottolinearlo, non più vecchi di lui. “Quattrocento anni, amico mio. Capisci quello che significa? Quattro secoli passati nella forma piccola e pelosa di un membro del popolo notturno. Colui che può, e che deve, limitarsi ai più elementari tra i piaceri dell’esistenza: mangiare, dormire a testa in giù tra gli scaffali polverosi, qualche volta fingere di aver trovato l’anima gemella. Questo il prezzo da pagare, per chi ha stretto un patto con le forze dell’Altissimo, per rinunciare eternamente al fluido ringiovanente del vermiglio sangue umano.” Le appuntite zanne che grondavano saliva, mentre il suo naso troppo sensibile si arricciava per l’odore acre del guano. “Siano dannati tutti i coleotteri-orologio!” Esclamò il pipistrello all’indirizzo del ritratto, suscitando il sobbalzare dei suoi simili e vicini, tristemente privi della sacra scintilla della sapienza. Pensando: oh, inquietante mangiatore della cellulosa! E produttore a sei zampe di quel suono ritmico e insistente, tic-tac, tic-tac, in realtà prodotto dal tuo battere del cranio chitinoso contro le opere murarie della biblioteca. Tu non sai CHI ancora, nonostante tutto, domina la notte. Tu non PUOI capire, quanto offendi la mia oscura eminenza, continuando a masticare il corpus vulnerabile della più ricca eredità dei vampiri ormai da tempo giunti a vivere nella penisola d’Iberia. Ed ora che l’odiato astro è tramontato, giunge l’ora dell’empio e più terribile banchetto dei non-morti (ed alleati). “Sollevatevi, miei prodi dei 250.000 libri sotto assedio!” È giunto il momento del terrore, della fine, e della verità.
È un mondo creato e connotato sulla base di un preciso disegno, il nostro, in cui gli umani costruiscono e producono quello che serve per riuscire a garantire un qualche tipo di continuità, per quanto possibile, mirante a collegare il quotidiano con l’Infinito. Eppure non sussiste dubbio alcuno, per i maggiormente fortunati, che in un giorno non troppo lontano solamente esseri più piccoli dei 5-10 cm, potranno dire con certezza di essere i dominatori incontrastati del pianeta Terra. Insetti come quelli che soggiornano da secoli pasciuti, tra i recessi del più singolare e celebrato tempio librario del paese più a occidente dell’intero continente eurasiatico, la splendente biblioteca dell’Università di Coimbra, nella regione Centrale del Portogallo. Un maestoso capolavoro di modanature in stile barocco, colonne in legno di teak finemente ornate, affreschi sul soffitto che alludo alla Cappella Sistina e mobilio volutamente simile a quello di manifattura cinese. Tre vaste sale, come pianeti di un vetusto sistema, ciascuna popolata dalla stessa insistente, minuta moltitudine tutt’altro che apparente. Invasori giunti dal pianeta degli insetti bibliofili, che non conoscono o non vogliono capire in alcun modo il salvifico concetto della sazietà. Di fronte ad una soluzione che potremmo definire stranamente funzionale, nella propria chiara distinzione dell’appropriatezza dei presupposti comuni…

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La storia straordinaria della spada nella roccia sulla Costa d’Oro

Sono sempre stati due, perfettamente complementari: un politico e un guerriero. Un sovrano e un religioso. Un eroe ed uno stregone. Uniti dalla visione comune di un futuro per il proprio popolo, il risultato remoto di una società congiunta, la speranza di un domani migliore. Soltanto non ci sono molti casi, al di fuori del territorio dell’antico impero degli Ashanti, in cui un paio di queste figure spesso contrapposte potessero convergere all’interno di una singola persona, tanto influente nonché infusa di un potere predestinato, tale da rendere possibile una vasta confederazione al compiersi di un singolo gesto. Il braccio sollevato verso il cielo con fare imperioso… La sciabola metallica inclinata strategicamente in modo tale da riflettere i raggi dell’astro solare. Prima di vibrarla, con possanza superiore all’umano, verso il centro esatto della radura tra gli alberi della foresta. Esattamente là dove, 327 anni dopo, si trova ancora. E non per quieta approvazione delle moltitudini, s’intende: giacché analogamente a quanto viene spesso celebrato in merito ad Excalibur dell’altro continente, ove vige una leggenda sono in molti a coltivare il sogno di riuscire un giorno a dimostrarsi ancor più forti ed influenti dell’antica profezia, susseguendosi nel tentativo di ereditare un regno. Anche se una simile estrazione, in questo luogo, avrebbe conseguenze assai più nefaste: l’immediata e irreparabile dissoluzione di tutto quello che Okomfo Anokye ebbe modo di lasciare al proprio popolo in eredità. Ovvero in altri termini, il concetto stesso della loro identità storica e sociale. Chi potrebbe mai mancare conoscere d’altra parte, nell’intero territorio dell’odierno Ghana ed anche al di là di quei confini, la figura di colui che potremmo definire come lo sciamano più influente dell’intera Africa Occidentale, al punto da aver dato il proprio significativo contributo nell’unificare i popoli spesso in guerra tra di loro della vasta etnia Akan? Fino al punto di creare una nazione che sarebbe stata in grado, per i secoli a venire, di resistere e persino sconfiggere in particolari frangenti l’enorme potere ed influenza degli eserciti coloniali europei.
Nato nel villaggio di Awukugua attorno al 1655, come per molti altri personaggi la cui vita è celebrata negli annali delle allegorie nazionali, Anokye attraversò una gioventù segnata da straordinari prodigi. A partire da quello stesso collegato alla sua venuta al mondo, in occasione della quale si narra come il figlio di Ano e Yaa Anubea giacesse con totale calma ed immobilità tra le braccia della levatrice, il pugno desto saldamente stretto e che nessuno, neanche il padre, riusciva a fargli aprire. Finché il bambino, guardandolo negli occhi, spalancò la mano all’interno della quale si trovava un talismano creato con la coda di una mucca bianca (podua) mentre pronunciava le parole “Ano…Kye”, il cui significato in lingua Guan è traducibile come “Guarda… Ano (nome del padre)”. Se non che molto appropriatamente, tale sequenza di sillabe apparentemente impossibili dalla bocca di un neonato sarebbe rimasta indissolubilmente associata alla sua persona. Che notoriamente, negli anni a venire, avrebbe avuto la capacità di scomparire all’improvviso dalla culla, causando grandi preoccupazioni nella madre, che correva per tutto il villaggio alla sua ricerca, soltanto per tornare infine ritrovandolo come se nulla fosse successo. Mentre un giorno, ormai raggiunta l’età scolare, Anokye disse ai propri amici affamati di portargli le stoviglie e i piatti dove erano soliti ricevere le proprie pietanze. E riempitoli con terra e fango, dopo aver pronunciato un incantesimo, li restituì ricolmi di prelibatezze dalla provenienza miracolosa. Punto a seguito del quale, prevedibilmente, il suo destino fu segnato, orientandolo verso la carriera di un Okomfo, o sacerdote animistico capace di fare da tramite tra Nyankopon, l’Onnipotente Padre Celeste, ed i suoi soggetti meramente umani. Tra i quali un uomo la cui missione, affidatogli dal corso stesso della Storia, avrebbe trovato il modo di rendere possibile con grande beneficio della collettività.

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La fortezza tra le montagne che seppe respingere l’implacabile ambizione di Tamerlano

La Repubblica Autonoma di Nakhchivan, exclave dell’Azerbaigian situata tra Armenia ed Iran, ha molto di cui essere orgogliosa. Fautrice di uno sviluppo industriale particolarmente significativo negli ultimi anni, particolarmente incentrato nella transizione verso metodi energetici di tipo rinnovabile, essa vede l’integrazione tra antico e moderno tipica dei paesi che hanno saputo fare la pace con il proprio passato, coltivando al tempo stesso la modernizzazione di strade ed ambienti urbani, mentre continua a preservare il tesoro di valli e foreste dall’imprescindibile rilevanza ambientale. Ma ciò che maggiormente risulta essere caratterizzante, nell’immagine internazionale di questo luogo non eccessivamente frequentato dal turismo d’Occidente, è la presenza di alcuni siti archeologici capaci di costituire un punto di riferimento nell’inquadramento storiografico di questa regione, un importante punto di snodo strategico nel percorso di conquista di chiunque intenda catturare, traendone successivo beneficio, le importanti risorse agricole e minerarie delle montagne del Caucaso, in bilico tra i due principali bacini idrici all’interno dell’Eurasia. Prendete ad esempio l’antichissima e lungamente utilizzata fortezza, descritta per la prima volta da un viaggiatore spagnolo del XV secolo come una letterale cittadella, con vigneti, frutteti, campi coltivati e pascoli, circondati da mura ed alte torri ad un’altezza di 1700 metri lungo le pendici del monte Alinja. Sebbene utilizzando all’epoca il nome armeno di Yernjak, restando del tutto inconsapevole degli oltre mille anni di storia trascorsi dall’originale costruzione di questo complesso, confermati soltanto dai ritrovamenti archeologici e gli approfonditi studi condotti in epoca moderna. Quando acquisito l’appellativo del tutto arbitrario di “Machu Picchu azera” la fortezza ribattezzata con l’appellativo precedente di Alinjagala (torre di A.) avrebbe incontrato un rinnovato interesse da parte degli estimatori delle epoche antecedenti, ovvero chiunque riuscisse a individuare l’importanza di un tale luogo nell’acquisizione di un quadro completo della situazione politica e culturale di una simile terra di confine. Qualcosa che sembra esulare, a pieno titolo, da qualsiasi definizione tecnica priva di contesto.
La fortezza nasce quindi, secondo i dati raccolti, almeno attorno al VI secolo d.C, quando vantava il compito di proteggere i domini delle casate nobili armene dalle scorribande dei popoli di matrice araba provenienti dal vicino Oriente. Appartenente molto probabilmente alla famiglia nobiliare dei Bagratuni, membri dell’omonima dinastia regnante armena, essa compare dunque in modo estensivo in alcuni frammenti riferiti alle conquiste dell’amiro Sagide Yusuf ibn Abu Saj, temibile generale che circa tre secoli dopo riuscì a conquistarla durante il regno di Smbat I (r. 890-914) catturando il sovrano ed a quanto ci è dato comprendere, mettendolo a morte proprio dinnanzi alle mura della sua “imprendibile” fortezza. Naturalmente all’epoca la particolare configurazione territoriale del paesaggio ove sorge il complesso non doveva ancora essere stata sfruttata fino al massimo del suo potenziale, se è vero che questa facile sconfitta, nei molti anni a venire, non si sarebbe più ripetuta con modalità effettivamente comparabili. Dopo un periodo di strano silenzio nella narrazione giunta fino ai nostri giorni, la cittadella ricompare quindi all’inizio del XIII secolo con il ruolo di sede del tesoro ed erario di stato degli Ildegizidi, dinastia islamica turca la cui capitale era sita in corrispondenza dell’odierna città di Armavir. Con il decadere per una crisi dinastica di tale predominio, la fortezza passò di nuovo sotto il controllo arabo, ed in particolare quello dell’emiro Khoja Dzhovhar, il cui potere si estendeva da Kapan fino a Tabriz. Furono questi gli anni probabilmente in cui le mura vennero costruite lungo le intere pendici della montagna, costruendo una serie di barriere militarizzate che nessun esercito avrebbe potuto varcare facilmente utilizzando la forza delle armi. Se non che alla morte di Dzhovhar senza rilevanti eredi, ancora una volta il baluardo sarebbe passato di mano, finendo sotto il controllo del suo vassallo Altun. Era quindi il 1387, quando il capitolo maggiormente significativo nella storia dell’alta Yernjak avrebbe avuto modo d’iniziare, dinnanzi allo sguardo impassibile della Storia.

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Tre spade inusitate per sancire l’unione millenaria della Norvegia

Una quantità sproporzionata di conflitti assolutamente determinanti per il corso della storia umana furono del tipo in grado di coinvolgere una o più navi, una baia, un golfo, un fiordo marino. Quale miglior modo è possibile immaginare, del resto, per riunire assieme grandi quantità di uomini, potenzialmente armati fino ai denti, in spazi stretti ed agguerriti, sotto l’autorità di un singolo ammiraglio, che issare una bandiera personale sulla tolda di multipli vascelli… Poco prima di orientarne le prue all’indirizzo del nemico, come fossero altrettante punte di lancia pronte a spargerne il prezioso sangue tra l’onde. Sale, fuoco, ferro ed ambizione, furono i principi in grado di guidare tali condottieri e i loro equipaggi, contro moltitudini altrettanto convinte di essere nel giusto. Ma soltanto uno dei rispettivi schieramenti, in ciascun’ora del conflitto, avrebbe avuto l’occasione di lasciare il proprio nome a lettere cubitali nelle cronache indirizzate alla posterità. Figure tanto imponenti, persino colossali, da sfidare l’immaginazione.
Ma non l’arte: vedi l’imponente spada del primo re Harald Bellachioma riconoscibile per l’elsa con l’effige incoronata, piantata saldamente nelle rocce sulla riva dello Hafrsfjord per svettare verso il cielo assieme a quella dei suoi due ultimi e più tenaci nemici, importante baia della penisola di Stavanger, punto d’approdo alla partenza ed al ritorno per innumerevoli spedizioni da parte del temuto popolo dei Vichinghi. Siamo nell’anno del Signore 872, oppure 880, o addirittura 890, in base a quale saga nordica vogliamo usare come fonte ragionevolmente affidabile in materia, quando il suddetto sovrano, figlio del grande capo regionale Halfdan il Nero nonché uno dei possibili scopritori dell’Islanda, essendo giunto a controllare l’intera parte orientale del territorio oggi appartenente alla nazione norvegese, assieme alla parte dell’attuale Svezia chiamata Värmland, potrebbe essersi trovato ad affrontare una coalizione formata da coloro che ancora resistevano al suo potere, guidata dai due capi Eiríkr di Hordaland e Súlki di Rogaland, assieme ad altre figure di primo piano tra cui i fratelli Hróaldr e Haddr di Telemark e re Kjötvi di Agder. La ragione per cui utilizzo il condizionale in merito ad eventi di una simile importanza è che per quanto ci è dato comprendere dalla loro frequente divergenza d’opinioni, non tutti gli autori delle opere letterarie coéve mantenevano un’aderenza pressoché totale alla realtà dei fatti, preferendo favorire nelle proprie narrazioni i rispettivi potenziali mecenati, protettori o semplici possibili ricercatori di soddisfazione per la possibile offesa percepita nelle loro parole. Così la principale cronaca su cui tende a basarsi ogni resoconto possibile della battaglia in questione, la Egils Saga Skallagrímssonar, possibilmente scritta dall’importante figura di Snorri Sturluson (1178-1241) parla di figure spropositate e i loro significativi atti di eroismo, che si muovono accompagnate dalle gesta di una quantità stimabile di fino 250 navi. Corrispondenti, grossomodo, a 10.000 uomini complessivi, il che sarebbe ampiamente bastato a farne uno dei conflitti armati più monumentali della storia nazionale fino a quel momento, se non dell’intero periodo dell’Alto Medioevo, da cui sarebbe emerso un paese forte e indivisibile, capace di resistere per molti secoli a venire. Aggiungete a tutto questo la maniera in cui al concludersi delle ostilità, gli sconfitti sarebbero scappati via per terra e per mare, così da giungere a colonizzare tra gli altri luoghi la più famosa isola vulcanica dell’Atlantico, per comprendere come potremmo trovarci di fronte ad uno dei più importanti punti di svolta nella storia dei paesi del Nord.
Abbastanza da giustificare, e in qualche modo motivare, la costruzione di un così pregno e affascinante monumento. Quello che parrebbe derivare, in maniera tangibile sebbene surreale, dal gesto topico di uno o più giganti, finalmente soddisfatti dei traguardi raggiunti, al punto da potersi liberare del peso significativo delle armi. La famosa metafora della “spada nello scoglio” che non sembra conoscere confini culturali né limiti d’applicazione per l’imprescindibile chiarezza del messaggio contenuto in essa…

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