Per 30-35 anni, la vecchia gallina dalle uova d’oro aveva servito il suo padrone, grazie alla lunga vita degli animali mitologici e di fantasia. Con l’avvicinarsi dell’epoca successiva, tuttavia, la sua deposizione si era fatta sempre più rara, mentre ancora magnifiche apparivano le sue splendenti piume, saporita la sua carne, utili le molte ossa, a farne ciondoli e gioielli da gettare sopra il tavolo delle sapienti profezie. Così che, pietà cattiva consigliera, cosa mai avrebbe potuto fare, costui? Se non prenderla dal suo pollaio. E con fare deciso, trasportarla fino al luogo del suo ultimo destino. Ma ehi, amico, ascolta! Lo sai bene, che uccidere il pollame conduca gli uomini un possente karma negativo. Quindi molto meglio è farlo fare a dei legittimi professionisti. Persone la cui vita, e la vita dopo questa vita, siano dedite ad un compito di simile importanza primaria: riportare ciò che il tempo ha ormai usurato, per il troppo uso ed abuso, ai suoi materiali generativi di partenza. Sostanze utili, in qualche maniera, a nutrire la solenne marcia del Progresso… Sarebbe tuttavia un errore, pensare anche soltanto per un attimo che tutti gli uccelli cantino la stessa canzone. Ed abbiano lo stesso peso, forma e dimensioni; così nelle terre dell’ultimo destino, giungono creature di ogni tipo. Alcune pesano migliaia di tonnellate. Ed hanno l’aspetto ancora riconoscibile di una nave.
Luoghi come Chittagong, a Faujdarhat lungo la strada costiera di Sitakunda. O Alang nel Gujarat indiano. Oppure Aliaga in provincia di Smirne, nell’ancor più prossima Turchia. Dove il pubblico più o meno occasionale è solito riunirsi sulle spiagge per uno spettacolo davvero grandioso e terrificante. Della forma che compare all’orizzonte, al termine di un lungo viaggio che è anche l’ultimo. Iniziando a farsi, poco a poco, più vicina, come il treno nel filmato “spaventoso” dei fratelli Lumière. Finché non diventa estremamente chiaramente inevitabile una rotta che la porti a collidere con il bordo estremo di quel continente. E nel momento culmine, mentre già l’acqua inizia a propagarsi verso riva, spinta innanzi dalla forma ponderosa, risuoni per l’ultima volta il canto penetrante di tante squillanti e tragiche sirene. Un disastro navale, in buona sostanza, ma dalle caratteristiche diverse da quanto potremmo essere stati abituati a pensare. Poiché causato intenzionalmente, da un’intera classe di timonieri specializzati, il cui punto d’orgoglio è centrare esattamente il tratto di costa di proprietà dell’uno o l’altro operatore, guidati spesso da nient’altro che un piccolo falò costiero, o ancora i gesti degli osservatori distanti. Così la petroliera, come la portacontainer o l’ormai inutile nave da crociera; affinché si possa dare inizio, tra il tripudio generale, alle solenni danze d’uccisione. Condotte con la fresa e la fiamma ossidrica, le sfere da demolizione e le lunghissime funi. Come ganasce d’instancabili formiche, intente a fare in pezzi quel che resta della povera gallina. Folle, inevitabile ed al tempo stesso inusitato gesto. Poiché non c’è modo che una simile mansione (o missione) possa essere portata a termine, senza costi significativi in termini ambientali, sociali ed individuali. Di un’intera categoria di uomini condannati per la loro nascita, e le regole non scritte di questo mondo, a pagare per le scelte d’altri. E favorire, come ingranaggi fin troppo bene oliati, l’ottimale funzionamento di quello spietato meccanismo che si chiama “Economia globale”…
Il concetto di un ponte per conciliare la guida a destra con l’altro lato del Fiume delle Perle
Perennemente intricati in una danza selvaggia, i due dragoni di Oriente ed Occidente s’inseguono a vicenda, nel tentativo di afferrare la sfuggente gemma che conduce all’illuminazione. Uno sopra e l’altro sotto, quindi uno sotto, e l’altro sopra; Ying & Yang, princìpi contrapposti dello stesso principio generativo e trascendente. Chi capisce, lo sa. Tutti gli altri riescono a comprenderlo istintivamente, trascinati nell’arcano maelstrom degli eventi. Ma se l’uomo alla guida, invece di osservare, scegliesse di essere una parte integrante del processo attivo, egli non avrebbe altra scelta che percorrere quell’arcano viadotto secondo i metodi venuti dalla conoscenza degli antenati. Fino al punto di trovarsi, a un certo punto, spiazzato… Poiché non è sempre dritto ciò che sembra tale. E qualche volta, l’unica scelta possibile è riuscire ad adeguarsi a una contrapposta visione delle circostanze!
Questa è una storia fantastica che inizia nel 2002, quando nel corso della Terza Conferenza Cina-Hong Kong per la coordinazione dei grandi progetti venne sollevata una fondamentale questione: sarebbe stato possibile per la città insulare ritornata cinque anni prima nel dominio del Regno di Mezzo (Zhōngguó – 中國) continuare a beneficiare unicamente dei limitati punti di collegamento costruiti fino a quel fatidico momento? Oppure sarebbe occorso, in tutta fretta, intraprendere la costruzione del più lungo ponte della Terra, destinato a ricevere il nome Hong Kong–Zhuhai–Macao (perché unisce, per l’appunto, i tre poli della grande megalopoli situata presso il Delta del Fiume delle Perle) 26,9 Km di campate stellate, alti pilastri decorativi ed isole artificiali di collegamento… Una realtà destinata a realizzarsi, e che avremmo commentato in diretta anche su queste pagine, nell’ormai lietamente distante 2018, quando ancora il mondo poteva costruire qualcosa di nuovo senza andare incontro al terrore incombente della pandemia. Non prima, tuttavia, che infiniti concorsi, proposte ed appalti collaterali paventassero sul corso della storia strane strade alternative, tentativi ambiziosi ed idee prive di precedenti, capaci di far sollevare più di un sopracciglio presso gli enti preposti a trovare una soluzione capace di mettere tutti d’accordo.
Progetti come quello, totalmente privo di predecessori o fisiche realizzazioni successive, dello studio olandese NL Architects, presentato ben 8 anni prima del traguardo con un’intrigante slide-show, le cui prime immagini parlano di “opportunità” ed “un’umile proposta” non ancora elaborata fino ai requisiti più profondi di una fisica realizzazione in-loco. E si può ben comprendere, in effetti, il bisogno di una simile dichiarazione, quando si considera l’avveniristica portata dei contenuti a seguire. Il Ponte a Collana del Fiume delle Perle, o come più prosaicamente chiamato su Internet all’epoca il “ponte flipper” (non tanto con riferimento al gioco da bar, quanto in osservanza del significato del verbo “to flip“) vede la suddivisione dei due sensi di marcia contrapposti trasformati in altrettanti viadotti, che annodandosi a vicenda si sollevando ed infilano l’uno sotto l’altro. Permettendo a chi guidava sulla destra di spostarsi a sinistra, e viceversa. La ragione di un simile approccio futuribile è quindi facilmente individuabile nell’esigenza di fondo, per cui l’intera città di Hong Kong e l’ex-colonia portoghese di Macao, rimaste tanto a lungo soggette a regole della strada differenti, hanno sempre guidato sul lato britannico dei propri viali di collegamento. Diversamente da quanto fatto sulla terraferma del più grande paese d’Asia dopo la Russia, dove s’impiega la stessa soluzione imposta da Napoleone al resto degli stati europei. Un bel problema, per chi veniva da (o andava verso) gli urbani universi antistanti di Shenzen & Zuhai…
Esplorando l’ancestrale foresta di pietra del Dio Fungo
Al culmine della solenne cerimonia, la guida mascherata del villaggio smise di avere alcunché di umano: la forma sfocata del suo profilo, ornato dal copricapo erboso e l’abito dalla livrea multicolore continuò a oscillare, ed oscillare fino diventare quasi trasparente. In quel fatale momento il segnale venne recepito dai presenti, che persero all’unisono ogni forma di controllo residuo sulla mente e l’arsenale delle proprie membra. La luna diventò enorme tra la forma delle rocce frastagliate che svettavano nell’aria notturna. Ora tutti danzavano, cercando qualche forma di contatto visivo con la maschera divina dello sciamano che ruotava vorticosamente, simile talvolta a un cervo, certe altre ad un’ape mostruosa della Preistoria. Le forme fungine strette tra le sue mani, raccolte nel corso dell’ultima settimana dai suoi molti aiutanti, sembrarono moltiplicarsi, coprendogli le braccia, le spalle, ogni punto rimanente del suo strano corpo. La musica sincopata dei tamburi divenne rossa, poi verde. Il colore degli alberi era dolce. Il suono della notte si fece acre ed intenso. Con un grido breve ma intenso, egli alzò la mano, indicando che era giunto il momento. Così che gli artisti, sollevassero scalpelli e i recipienti di ceramica ricolmi dei pigmenti sacri. Era giunta l’attesa ora. Era tempo di render manifesta l’immagine di spiriti e Dei…
Tassili n’Ajjer è un altopiano situato al confine tra Algeria, Niger, Libia e Mali, che si solleva con piglio maestoso al di sopra delle sabbie senza tempo del Sahara. Letteralmente sovraffollato di formazioni rocciose d’arenaria, erose dal tempo e dagli elementi fino a formare un paesaggio quasi alieno, con oltre 300 archi e strani monoliti che per un periodo non del tutto chiaro, furono considerati sacri dagli antichi ed ignoti popoli di queste terre. Così che era già largamente noto ai locali, fin dall’inizio del Ventesimo secolo, che in questo luogo fossero presenti una grande quantità di pitture ed incisioni parietali risalenti ad epoche straordinariamente remote, quando nel 1933 e 1940, in due occasioni successive, il giovane tenente della Legione Straniera Charles Brenans realizzò una serie di schizzi con alcuni dei soggetti maggiormente interessanti. Sottoposti dapprima al direttore del museo Bardo d’Algeri, tali disegni fecero rapidamente il giro del mondo, giungendo fino alla scrivania del celebre archeologo francese Henri Lhote. Nelle decadi successive, dapprima accompagnato dal militare e poi soltanto con la guida di alcuni tuareg reclutati localmente, Lhote si sarebbe quindi occupato di catalogare, suddividere e tentare una datazione di molte delle oltre 15.000 opere più antiche del concetto stesso di un popolo e una nazione. Fu il periodo, tra gli anni ’50 e ’70, in cui l’altopiano di Tassili diventò celebre in taluni ambienti accademici e non solo, come uno dei luoghi più artisticamente rilevanti della Terra. Le tecniche impiegate dal francese, non sempre eticamente irreprensibili (si ritiene, ad esempio, che alcuni dei disegni siano stati danneggiati per ricalcarli) gli permisero tuttavia di giungere ad una cronologia approssimativa, che viene tutt’ora impiegata nel tentativo di dare un senso a tutto questo. La cui origine tanto antica, databile attorno al 12.000 a.C, permetterebbe di scorgere attraverso i soggetti artistici dei nostri antenati alcuni dei più significativi mutamenti geologici, climatici ed evolutivi attraversasti dall’Africa settentrionale fino all’epoca corrente. Ma è il secondo dei periodi da lui citati e parzialmente sovrapposti, quello delle cosiddette teste tonde (8.000-6.000 a. C.) ad aver sollevato il maggior numero d’interrogativi, vista la stranezza variegata dei suoi soggetti: forme vagamente umanoidi con crani bulbosi, corpi evanescenti e simili a fantasmi. Strane divinità gigantesche, con corna o bicipiti sporgenti, venerate da un popolo in apparente stato di trance mistica danzante. Immagini di sacerdoti o divinità fluttuanti, come il famoso uomo dei funghi dalla faccia di ape o cervo, il cui ruolo rituale possiamo soltanto tentare d’immaginare in maniera estremamente vaga. Mentre possiamo affermare con comparabile sicurezza, secondo l’opinione di molti studiosi, che in quest’epoca l’uomo avesse scoperto e pienamente dimostrato l’effetto dei funghi allucinogeni, andando incontro a profonde modifiche negli stessi concetti pre-esistenti di ritualità e religione…
L’elegante castello che cementò il prestigio transnazionale del re d’Ungheria
Ci sono luoghi che, come le persone, nascono con un destino ben preciso. Ed uno di essi può essere individuato nella collina dell’antico győr o geuru (cerchio) degli alberi di dió (noci) menzionato per la prima volta nel 1200, all’interno del poema epico sulla storia antica dell’Europa centrale, Gesta Hungarorum. Secoli prima che il nome dell’insediamento fosse abbreviato con il singolo toponimo Diósgyőr e che lo st esso re Béla IV (r. 1235-1270) sopravvissuto alle cruente invasioni dei Mongoli e la sconfitta di Muhi soltanto grazie alla sua fuga nella fortezza Dalmata di Traù, ordinasse di costruire una piazza d’arme sopra “Ogni colle o montagna d’Ungheria”. E fu così che successivamente al 1241, il forte di tronchi che serviva a sorvegliare la città venne trasformato nella prima versione di una fortezza che avrebbe attraversato i secoli senza subirne in alcun modo l’effetto, ma piuttosto accrescendo la sua fama fino a diventare un vero e proprio simbolo della sua regione. L’attuale castello di Diósgyőr, più volte ampliato e ricostruito, avrebbe tuttavia assunto l’attuale configurazione in stile gotico durante il regno del monarca successivo, noto alla storia coi nomi di Luigi I, Lajos, Ludwik o Ľudovít o più semplicemente “Il Grande”. Uomo nato nel 1326 possedendo, anch’egli, un fato particolarmente significativo: quello di ereditare dal padre Carlo Roberto d’Angiò la corona d’Ungheria e dalla madre Elisabetta Lokietkówna, quella della Polonia. Per un’eventualità tutt’altro che rara in epoca medievale, quando le unioni personali potevano determinare l’accorpamento, più o meno temporaneo, di regni nettamente distinti ed il conseguente fiorire d’interscambi commerciali e culturali tra nazioni storicamente distinte. Fatto sta che il sovrano guerriero, coinvolto nei primi anni di regno a partire dal 1370 in un’acceso conflitto territoriale in Dalmazia, Bosnia e Bulgaria, avrebbe ben presto determinato la necessità d’individuare un centro del suo potere politico e militare che si trovasse tra i due regni dei suoi genitori, scegliendo a tal fine la regione strategicamente rilevante già individuata all’epoca di re Bela. Il castello di Diósgyőr quindi, attraverso un lungo periodo che si sarebbe esteso fino all’erede dinastica del sovrano, sarebbe sorto secondo i crismi architettonici e canoni francese ed italiano, con quattro alte e formidabili torri, mura sopraelevate, un fossato ed il vasto cortile interno. Le sale del piano terra sarebbero state usate come magazzini o caserme, mentre quelle sopraelevate avrebbero assunto il ruolo di residenze dei potenti e membri della sua corte, mentre in corrispondenza del lato nord avrebbe trovato posto la più grande sala dei cavalieri nell’intero ambito mitteleuropeo medievale, misurante 25 metri per 12 di larghezza. Il castello, favorito dal sovrano anche per la sua vicinanza alle riserve di caccia della grande foresta di Bükk, si sarebbe a quel punto trasformato nella sua residenza e luogo di ritorno prediletto, al termine delle numerose campagne belliche intraprese nel corso del suo dominio…