Il regno millenario creato dai tronchi caduti nel secondo maggior fiume della Louisiana

Nei resoconti della spedizione, inviata nel 1806 dal presidente Jefferson per percorrere il Red River raccogliendo dati geografici, topografici ed etnografici sul territorio della Louisiana acquistato recentemente dai francesi, venne descritta come un qualcosa di assolutamente inusitato. Un susseguirsi d’isole galleggianti, via via più dense e compatte, la cui superficie era composta di torba, fango e altri detriti. Ma le ossa sottostanti, facilmente visibili da una canoa, erano un groviglio di tronchi principalmente di cedri, pioppi e cipressi americani. Un uomo avrebbe potuto camminarvi sopra in qualsiasi direzione per molte miglia. Proseguire a bordo di un’imbarcazione, tuttavia, era del tutto fuori questione. Così l’astronomo Freeman, il medico Custis, il capitano Sparks e i 18 uomini di scorta, incluso un servitore, dovettero sbarcare e proseguire a piedi potendo affidarsi all’esperienza delle guide native del popolo Caddo, con cui avevano preso dei precisi accordi per poter passare indisturbati nei territori lungamente appartenuti ai loro antenati. I quali ben sapevano dell’esistenza ed estensione di quella che gli europei avrebbero chiamato “La Grande Zattera”: 260 Km abbondanti di un ingorgo di tronchi (logjam) versione fluviale delle condizioni di viabilità sperimentate sulle strade umane a seguito di un incidente o cantiere temporaneo attivo nell’ora di punta. Il cui fattore scatenante, lungi dal costituire un caso isolato, furono le piene ripetute del corso d’acqua in questione, tali da erodere il terreno e quindi catturare, come un pettine sul manto di un cavallo ad aprile, la folta e verdeggiante chioma della foresta soprastante. Con conseguenze tanto estensive e totalizzanti da permettere ai sedimenti di depositarsi in un particolare modo, mentre il flusso direzionale del corso d’acqua si trasformava in un susseguirsi di acquitrini e piccoli laghi. Ed è proprio studiando tale disposizione geomorfologica, incorporata attraverso i secoli nel reticolo idrico delle Grandi Pianure, che gli studiosi hanno potuto intavolare una stima realistica sulle tempistiche di formazione di un fenomeno di tale portata. Capace di proseguire, senza mai ridursi bensì vedendo incrementare a più riprese la propria grandezza, fin dal XII secolo, molti anni prima di qualsiasi insediamento umano nella regione. Come abbia potuto continuare tanto a lungo, non è difficile da comprendere. Giacché la Zattera non è una condizione fissa, virtualmente immutabile come un costrutto dell’odierna civilizzazione, bensì una condizione transitoria, sottoposta ad un continuo processo di evoluzione progressiva che avrebbe continuato ad alimentare la sua stessa esistenza. Almeno finché qualcuno, nei preliminari frangenti della storia moderna, non decise di averne avuto abbastanza…

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Il cuore velenoso della macchina creata per dare un verso alla corrente alternata

In un’epoca antecedente alla miniaturizzazione dei componenti, prima che il grado di sofisticazione raggiunto permettesse di rendere invisibili i denti degli ingranaggi che fanno girare il mondo, gli strumenti tecnologici della modernità sapevano mostrare un principio di funzionamento situato alla saliente convergenza tra praticità e panache, termine concettuale francofono traducibile come “brio” ed al tempo stesso, “eleganza”. Così come la forza di una locomotiva a vapore, lungi dall’essere il trionfo dell’efficienza, veniva connotata dalla spettacolarità del suo pennacchio, il ritmo sferragliante, il fischio acuto della sirena, l’introduzione dell’energia elettrica portò con se una distintiva serie di connotazioni estetiche al confine pratico tra la risoluzione diverse tipologie di arte, inclusa quella del maestro vetraio. La cui migliore interpretazione del concetto di un bulbo ben più grande della tipica lampadina, trasparente e sottile, iniziò a trovare posto tra gli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo negli ascensori, le motrici dei tram, i trasmettitori radio ed i macchinari all’interno degli opifici. Ovunque, insomma, dove l’utilizzo del tipo di corrente comunemente identificata come DC (diretta) fosse necessaria all’ottimizzazione di un processo fondamentale di funzionamento, soprattutto in presenza di una rotazione o forza motrice. Laddove al giorno d’oggi l’oscillazione del flusso di tensione avanti e indietro, avanti e indietro lungo il corso del circuito è quanto meno allineata ad uno standard di funzionamento per ciascun contesto nazionale ed oltre, c’è stato un tempo in cui ciò avveniva sulla base della convenienza di specifiche necessità infrastrutturali, piuttosto che l’arbitraria preferenza di ciascuna compagnia creatrice di un particolare tratto di distribuzione nei confronti di una zona densamente abitata. Il che rendeva, se possibile, il raddrizzamento dell’AC (alternata) più importante che mai, benché ciò tendesse a richiedere dei ponderosi quanto costosissimi generatori che occupavano uno spazio nei capanni o le cabine ai confini del vicinato. Molto prima che venisse scoperta l’efficacia in tal senso dei minuscoli semiconduttori, porte nel sistema fatte di ossido di rame, germanio, selenio… Fu risolutiva dunque l’illuminazione ricevuta dal tipico inventore dei primi del Novecento, l’ingegnoso quanto creativo conoscitore dei principi di funzionamento elettrico, Peter Cooper Hewitt. Figlio del sindaco di New York e nipote di un industriale di successo, il quale nel 1901 investì per introdurre sul mercato quella che potremmo definire come l’antenata dell’odierna lampada al neon. Un tubo trasparente in cui la luce veniva prodotta facendo passare una corrente elettrica, piuttosto che in un gas nobile e monoatomico come il neon, all’interno di un qualcosa di molto più sinistro e al tempo stesso condizionato da un terribile pericolo latente: l’esalazione, estremamente tossica, del metallo liquido noto come mercurio. Senza dubbio un rischio, eppure l’opportunità di una scoperta eccezionale. Quando egli si rese conto progressivamente di come la tensione tra le particelle fatta muovere all’interno del suo tubo non fosse mai capace, nel corso dei molti test effettuati, di tornare identica nel punto di partenza. Giacché poteva muoversi, in parole povere, in una sola direzione alla volta…

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L’artista dell’involucro di luce che riconfigura la diaspora dei popoli contemporanei

Guarda il mondo da un’angolazione obliqua ed ogni cosa apparirà, con il palesarsi della lente mentale appropriata, come il prodotto unico di una disparata moltitudine di monadi reciprocamente interconnesse tra loro. I grandi della spiaggia e gocce nell’oceano, atomi dell’insostanziale etere che ogni cosa permea e ne congiunge gli indistinti confini. Ma se vogliamo dare concretezza, per quanto possibile, ad una simile visione del nostro piano di esistenza c’è soltanto un’energia che possa corrispondere al suddetto fattore latente, l’intangibile ma persistente tema universale dell’esistenza. Luce abbiamo scelto di chiamarlo, e luce fu. Dal bagliore primordiale della stella madre ai fuochi da campo nelle profondità della foresta dell’Amazzonia, lo strale disegnato dai potenti fulmini dell’atmosfera nello stesso modo si riflette entro gli spazi architettonici che sono stati progettati (ed abitati) dall’uomo. Immaginiamo dunque di piegare le normali traiettorie di quel fluido, piegarli per le pure necessità di un filosofico disegno. Abbiamo appena spinto la memoria condivisa del senso comune verso l’opera premiata di un’artista coreana. Che dopo essersi cambiata il nome, ha preso in mano alcuni iconici concetti esteriori della propria eredità nazionale. Trasformandoli fino al punto da rimuoverne l’aspetto materiale. Ma non quello, assai più rilevante, della funzione sottintesa dalla loro stessa persistenza pratica e internazionale.
Era l’anno 2006 dunque quando Kimsooja (al secolo, Kim Soo-Ja) faceva il suo ingresso trionfale tra le percezioni della Spagna grazie ad un’installazione niente meno che spettacolare a Madrid. Presso il Palacio de Cristal nel parco di Buen Retiro, edificato nel 1887 come parte dell’Esposizione Coloniale delle Isole Filippine, le cui pareti in vetro e metallo sarebbero state ricoperte 119 anni dopo da una serie di pannelli prismatici trasparenti, in aggiunta a un pavimento in grado di restituire verso l’alto il trionfale alone di colori cangianti che in tal modo risultava, tra lo stupore generale dei visitatori, rimbalzare da una parte all’altra di tale ambiente. Subito chiamato dalla stampa “Stanza degli Arcobaleni” andando a sovrascrivere in maniera ineluttabile il titolo e programma filosofico impiegato dalla creatrice. Che inserendo l’opera nella sua serie “To Breathe” (Respirare) si era premurata d’impreziosire ulteriormente la location con il suono registrato del suo respiro, così da creare l’impressione di aver fatto l’ingresso in luogo racchiuso e personale, essenzialmente sospeso tra la capacità di osservazione e la cosa stessa utilizzata come spunto d’analisi esperienziale, in un processo indubbiamente necessario alla meditazione individuale. Eppure al tempo stesso, inserito in un contesto fortemente materialistico in quanto riconducibile ad un programma più che decennale, le cui tecniche impiegate hanno saputo costituire, da un lato all’altro del mondo dell’arte, un fattore primario del messaggio al centro dell’opera pregressa di Kimsooja…

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Otto ruote girano all’unisono per equilibrare l’ingegnosa supercar privata dell’Argentina

L’evoluzione in atto può riuscire ad insegnarci che quando la situazione è favorevole, determinati tratti giungono ad avere il predominio sugli altri. L’abbondanza può riuscire ad essere utile, ed anche la sovrabbondanza, se si accettano dei rischi. Difficile sarebbe, in tal senso, mettere in secondo piano la capacità deambulatoria di un miriapode, possessore dei cosiddetti millepiedi che se pure non raggiungono tale puntuale quantità, costituiscono il sistema per arrampicarsi e correre su qualsivoglia superficie senza il minimo residuo condizionamento di contesto. Eppure nell’impresa biomimetica situata dentro il pieno campo degli esseri umani, questo fluido che ogni cosa genera sotto l’ampio vessillo della progettazione, parrebbe vigere la necessità di un assoluto e persistente equilibrismo. In cui peso, potenza e costo dei singoli componenti formano idealmente gli angolari vertici geometrici di un inflessibile poligono situazionale. Dove ogni cosa è stata chiaramente definita, mancando di permettere la mutazione delle forme che deriva dalla voglia di cambiare il paradigma latente. Impresa, di sicuro, non alla portata di tutti. Ma obiettivo dominante dal punto di vista di… Alcuni.
Così l’argentino Raul Donatini all’inizio degli anni ’80 (ingegnere? Inventore?) creativo allora quarantenne la cui storia personale è poco nota al punto da non poter conoscere l’effettiva città di provenienza, cercando un repentino cambio di carriera scelse di portare nuovamente innanzi quella che era stata la sua principale passione giovanile. Che ci crediate o meno: le sospensioni. Ovvero la ricerca di un modo migliore per interfacciare le automobili e l’asfalto, cancellando il rischio delle asperità potendo in questo modo perseguire ritmi più elevati di movimento. Il che l’avrebbe indotto, collaborando inizialmente con un misterioso amico che oggi non è più tra noi, nella creazione in via teorica di un prototipo mediante metodologia che viene definita “dall’interno verso l’esterno”. Automobile autocostruita, in altri termini, il cui stesso concetto generativo sarebbe stata l’applicazione di determinate teorie funzionali. Da cui far derivare, un punto dopo l’altro, l’intero comparto estetico della sua eccezionale creatura. Con un punto di partenza che potremmo definire totalmente all’avanguardia per l’epoca ed in effetti capace di risultare ancora oggi tale: l’aggiunta continuativa di un numero di ruote senza limiti, fino all’ottenimento del risultato desiderato. Che ne avrebbe richieste otto, per l’appunto di cui quattro sterzanti nella parte anteriore ed altre quattro accoppiate a gruppi di due, per meglio trasferire il massimo della trazione al fondo stradale. Non che tale aspetto costituisse l’unico tratto distintivo dell’insolito apparato veicolare…

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