Caotico è il progresso, poiché alcuni aspetti tecnologici sembrano progredire a un ritmo accelerato. Mentre altri, dati per scontati nei minuti di un tempo trascorso, ritardano l’ingresso nel nostro quotidiano, quasi come se ogni cosa nascondesse, oltre la scorza semplice della mera sussistenza, un nucleo di effettivi ostacoli da superare, non sempre o necessariamente palese. Un chiaro esempio: l’idea che un giorno avremmo avuto l’abitudine di usare gli aeroplani per spostarci tra casa, lavoro e andare qualche volta al supermercato. Soli sessantasei anni per passare dall’aereo dei fratelli Wright allo sbarco sulla Luna, inutile specificarlo, tendono ad alzare collettivamente le aspettative. E dopo tutto l’effettivo sforzo e grado d’attenzione necessari per guidare l’automobile nel traffico non sono sempre trascurabili, anche quando confrontati con qualcosa che decolla, perseguendo l’obiettivo ultimo della Stella Polare. Era dunque il 1959 quando i coniugi John e Jennie Dyke, con residenza nell’Ohio statunitense, iniziarono a collaborare nel tentativo di dar forma al sogno di lui. Così trainando esperimenti aerodinamici di varie fogge e dimensioni dietro l’automobile di famiglia, e mettendo alla prova modellini radiocomandati giunsero gradualmente ad una propria personale concezione del perfetto aeroplano. Uno in cui le ali avrebbero vantato una particolare forma trapezoidale, capace di estendersi fino alla coda priva di stabilizzatore orizzontale. Una configurazione a doppio delta, in altri termini, non del tutto dissimile dai progetti diventati iconici del grande ingegnere aeronautico Alexander Lippisch, sebbene con finalità e dettagli funzionali radicalmente diversi. La filosofia progettuale del primo prototipo in grado di volare, messo finalmente alla prova con successo nel 1962, era in effetti quella di un velivolo straordinariamente compatto e facile da gestire in un contesto domestico. Il che voleva dire che poteva essere trainato su strada e quando necessario, addirittura immagazzinato all’interno di un normale garage. Questo perché gli appena 6,87 metri di apertura alare inclusiva di elevoni come superfici di controllo integrate, prevedevano la possibilità di ripiegare sopra la carlinga tali sporgenti elementi, lasciando in qualità di ostacolo i soli 5,79 metri di lunghezza, non molto superiori a quelli di un furgone o fuoristrada di uso comune. Una compattezza, nello specifico, raggiunta grazie alla straordinaria quantità di portanza generata dall’inusuale configurazione geometrica, in cui ogni singolo elemento dell’aeroplano contribuiva a mantenerlo in aria. Tanto che il JD-1 decollava in modo pressoché spontaneo, senza la necessità di tirare a se la leva di comando principale. L’interesse del pubblico sembrò fin da subito notevole, finché nel giugno del 1964, l’assurdo imprevisto: durante la saldatura di un componente nell’officina di John, si scatenò improvvisamente un incendio. Senza vittime (umane), per fortuna. Ma l’unica versione dell’aereo costruita fino a quel momento andò totalmente distrutta…
costruzione
Un tunnel per energizzare la centrale ticinese, grazie all’efficienza svizzera del brucomela
L’ostinato verme geometride avanza, avanza con possenza sotto l’irto zoccolo di pietra. Facendo uso di una testa dove tutto è un disco diamantato e i denti rotativi non cagionano ragioni o procurano alcun senso di riposo agli osservatori. Mentre il corpo si àncora e si accorcia, poi si allunga ed àncora di nuovo. Ormai praticamente verticale, esso è il frutto della percezione imprescindibile, secondo cui ogni anelito di Sole ed aria potrà essere alla fine adeguatamente ricompensato. Poco prima che lo scroscio delle acque riempia il frutto del suo agguerrito ed instancabile lavoro. Fin giù nel profondo, in mezzo agli ingranaggi rotativi parte della stessa civiltà famelica che lo ha creato.
Tra le più estese ed elevate catene montuose al mondo, le Alpi hanno costituito fin da tempo immemore un ostacolo davvero significativo all’interscambio di genti e culture situate a entrambi i lati del confine peninsulare. Forse proprio per questo, l’insediamento in mezzo a tali vette degli Elvezi successivamente incorporati nell’Impero Romano avrebbe aperto la strada ad un approccio utile a risolvere la questione: l’esistenza di centri abitati e infrastrutture la cui stessa esistenza era interconnessa, permettendo l’attraversamento in tempi ragionevoli di quegli stessi ardui sentieri, che prima d’allora soltanto Annibale era stato capace di oltrepassare. Trasferendo dunque la questione all’epoca moderna, luoghi come questi diventarono l’ideale punto per l’applicazione di metodi e sistemi innovativi, funzionali alla scoperta di nuovi approcci per l’accorciamento delle distanze e la riduzione dell’energia necessaria ad ottenere il massimo, mediante investimenti calibrati in base alle reali priorità dei popoli adiacenti. Allorché nel 1917, dovendo prendere atto della scarsità di carbone importato dalla Prussia per l’estendersi del primo conflitto mondiale, gli amministratori nazionali diedero il via libera ad un progetto avveniristico per tale anno di riferimento. Niente meno che l’installazione di una potente centrale idroelettrica, per poter alimentare la ferrovia strategica del San Gottardo, completata 3 decadi prima per collegare Lucerna a Chiasso, nel Canton Ticino. E sarebbe stato proprio entro i confini di quest’ultimo, presso il lago più elevato della Val Piora che prende il nome di Ritòm (letteralmente: il l. del ruscello di Tom) che una cooperativa formata dalle ferrovie e l’azienda elettrica svizzere avrebbe scelto di edificare la propria diga, intrappolando e al tempo stesso permettendo la crescita mediante accumulo del barbagliante specchio montano. Ma il tempo passa ed allo stesso modo, con il prolungarsi delle epoche giungono a mutare le aspettative. Ragion per cui a partire dal 2017, i gestori dell’impianto chiesero ed ottennero il permesso di effettuare un aggiornamento. O per meglio dire, sostituire totalmente il vecchio cavallo da guerra, mediante la creazione di un sistema parallelo di approvvigionamento energetico. Il cui elevato grado di sofisticazione, completo di efficienti soluzioni logistiche mirate all’implementazione pratica, non avrebbe mai potuto risultare maggiormente diverso…
Che fine ha fatto l’autobus a propulsione nucleare, strano sogno cinematografico degli anni ’70
Cruciale nel comprendere l’assioma tipicamente anglofono secondo cui less is more (“meno è meglio”) è ritornare con la mente al tipo d’intrattenimento proiettato sugli schermi cinematografici di due o tre generazioni prima di quella corrente. Prima della grafica creata al computer, dei personaggi totalmente fittizi, delle scene immaginifiche e delle comparse duplicate digitalmente. Quando un Buon Effetto Speciale era frutto dell’ingegno, il senso pratico, la capacità di rendere possibile il volere del regista sul suo trono trasportabile di alluminio e tela. E costruire automobili rappresentava, tanto spesso, il volto tecnologico di produzioni con un budget sufficientemente ampio, poiché il mondo dei motori continuava ad essere, nella mente e nell’immaginario collettivo, il simbolo rombante del progresso e dell’avvenire. Questo seppe dimostrarci Batman già verso la metà degli anni ’60 e per trasferire tale locuzione ad un diverso genere, la memorabile Monkeemobile del telefilm sui stravaganti musicisti ed aspiranti star del rock Dolenz, Nesmith, Tork e Jones, in realtà nient’altro che una Pontiac GTO modificata, con fari e pinne aerodinamiche notevolmente ingrandite. Dietro il successo andato avanti fino al ’68 dei Monkees figurava d’altro canto un giovane regista, la cui voce risuonava come quella del magico manichino nell’appartamento dei protagonisti, capace di elargire perle di saggezza ogni qualvolta ne tiravano lo spago di attivazione. Il suo nome era James Joseph Frawley ed otto anni dopo avrebbe finito per costituire la mente tecnica di uno dei più bizzarri, insoliti e per certi versi meglio riusciti disaster comedies nella storia di Hollywood. Prima di Airplane! (L’aereo più pazzo del mondo, 1980) e Critical Condition (Prognosi Riservata, 1987) e certamente prima di Sharknado (2013) fu per iniziativa dei cervelloni della Paramount che venne messo in produzione il concept per qualcosa di piuttosto raro dai tempi di Agatha Christie: una pellicola girata quasi totalmente, per lo meno nella finzione scenica, all’interno di un veicolo in movimento, la cui stessa esistenza era del tutto e puramente fantastica, essendo la risultanza di una fortunata comunione di menti creative. Andando nel contempo a rivisitare, in chiave ironica, le celebrate narrazioni drammatiche e terrificanti del regista cult e Master of Disastre, Irwin Allen (1916-1991). Così raccontano le poche cronistorie degli eventi tra cui quella dell’appropriatamente intitolata rivista Bus World, di come al direttore artistico dell’innovativa proposta, Joel Schiller fosse stato fornito un ampio budget di 250.000 dollari (pari ad un milione al cambio attuale) per creare un veicolo che fosse memorabile ed al tempo stesso iconico, degno di figurare come il vero e proprio protagonista dello show. Operazione destinata a compiersi senza disegni preparatori, un piano preciso e progetti ingegneristici, poiché quella era l’usanza dell’epoca, ma con l’assistenza di tecnici veterani quali Gaile Brown e Lee Vasque, addetti al dipartimento effetti speciali della compagnia. Fiduciosi che l’oggetto scarsamente identificato risultante da un simile summit di talenti, lungo più di 30 metri ed alto come un double-decker londinese, con 32 ruote di cui 8 sterzanti e costruito attorno ad un vistoso “reattore atomico” dalla potenza fuori scala, avrebbe finito per lasciare basiti persino loro stessi…
Bruchi ed onde condividono lo spirito vitale dell’artista leonardesco californiano
In un mondo in cui la specializzazione sembra ormai rappresentare il nettare che nutre il fondamento stesso della società contemporanea, esiste ancora un tipo di mestiere, o attività che dir si voglia, in cui la somma delle proprie precedenti esperienze costituisce un carburante fattivo, la spinta implicita delle proprie aspirazioni comunicative latenti. Chi se non l’artista, d’altronde, può basare il proprio senso del dovere nei confronti delle moltitudini su di un’esperienza transitoria, durata appena una ventina di secondi collocati in senso cronologico all’inizio di un’ormai trascorsa stagione della sua vita? Ovvero nel caso del qui presente costruttore onirico, Reuben Heyday Margolin, l’aver visto un bruco che strisciava sulle sabbie del deserto, in una placida giornata di parecchi anni fa. Larva di un comune lepidottero, il cui movimento reiterato giunse tuttavia a rappresentare per la sua immaginazione tutto ciò che di dinamico e vivace può persistere nel pozzo subitaneo dell’Universo, da cui una rana scruta verso l’alto e prova il sentimento che può attribuire, ad ogni singola forma di vita, significati algebrici ulteriori. Coadiuvati da quello scopo esistenziale con immense proporzioni latenti.
Così l’uomo che ha studiato all’Università, nell’ordine: matematica, geologia, antropologia, lettere ed ha poi completato la sua erudizione presso celebri accademie di disegno a Firenze e San Pietroburgo, oggi è celebre per un particolare quanto distintivo tipo di scultura cinetica fondata su principi filosofici e naturalistici, che riesce ad evocare la natura pur mostrando fieramente i meccanismi che costituiscono il sistema funzionale di un meccanismo niente meno che impressionante. Nel modo in cui una semplice fonte di movimento, in genere un motore elettrico, anima la serie d’ingranaggi interconnessi e camme, rigorosamente analogici e per questo in grado di operare con funzionale discrezione dei singoli attimi, verso l’ottenimento di una sequenza in qualche modo pregna o in grado di condurre a multiple utili interpretazioni personali. Questo perché ciò che rappresenta forse il punto di maggiore distinzione dell’autore, rispetto ai molti colleghi attivi nello stesso campo dell’arte contemporanea, è una ferrea aderenza al tema principale di una singola ricerca: quella per ridurre un’ampia gamma di fenomeni e forme di vita allo strumento interpretativo di un’analisi numerica. Un vero e proprio codice, in parole povere, che dimostra di essere risolto nel momento stesso in cui comincia a svolgere l’attività per cui è stato creato…