Passività e voracità costituiscono aggettivi che ricorrono nella diffusa percezione umanizzata, con accuratezza soggettivamente opinabile, del ragno. Colui o colei che laboriosamente costruisce la sua tela, perseguendo un obiettivo materiale quale può essere la necessità di sopravvivere, ancorché risulti parimenti esplicito l’intento (veramente necessario?) di esprimere la geometria perfetta, dare un senso a linee, punti e spazi negativi tra le mere superfici di appoggio. Ed allora chi può dire, veramente, che lo sforzo ereditario di queste creature non sia accompagnato dal profondo desiderio di dar vita a un qualche tipo di… Creazione? Implementare in questo modo un lascito, facente parte della vasta sussistenza delle circostanze in essere. Ove il transitivo sentimento dell’aracnide possa sopravvivergli, sia pur soltanto per il tempo di un respiro esistenziale del mondo. Ecco, allora, il filo della ragnatela diventare del color vermiglio della vita stessa. Con le otto zampe trasformate in due operose braccia, quelle della donna che, a partire dagli anni ’90, ha saputo rendere palese il modo in cui la gente riesce a interfacciarsi coi propri ricordi. Tramite l’approccio di una metodologia profondamente singolare frutto di una visione interpretativa dei suoi trascorsi. Ritorniamo per esempio a quella storica biennale di Venezia del 2015, quando la berlinese nata a Osaka, Shiota Chiharu ha saputo l’immaginazione di visitatori e critici mediante l’implementazione di un lavoro particolarmente memorabile: The Key in the Hand. Centinaia, se non migliaia di chiavi donate spontaneamente dalla gente, appese dal soffitto con il filo programmatico della sua arte, con due barche sottostanti situate sotto quell’accenno di pioggia impossibile. Con lo scopo simbolico di raccoglierle, nel modo in cui avrebbero potuto farlo delle mani giganti. Simbologia legata al tema della protezione delle rispettive dimore, di coloro e degli oggetti che si trovano all’interno. Ma anche un potente riferimento al tema trasversale della memoria. Alludendo a quell’oceano di metallo sospeso, sotto cui la predisposizione vivida allo spostamento, grazie a quegli stessi scafi frutto dell’ingegno nautico e tecnologico, offriva l’opportuna prospettiva d’interpretazione. Punto d’arrivo, ma anche di partenza in questa serie di opportunità non ripetibili, ciascuna risultante da una lunga pianificazione ed ancor più faticosa implementazione, senza poter fare pieno affidamento sui molti assistenti coinvolti, poiché in alcun modo essi potrebbero implementare gli specifici nodi e soluzioni tecniche richieste dal suo schema mentale di riferimento. Un tipo di disegno che trascende in parte la materia, entrando nel reame degli stati d’animo e più puri sentimenti…
Il gruppo dei topossum si arricchisce di una nuova specie, fantasma equilibrista dei paesaggi andini
La vita ad alta quota tende a presentare delle regole precise, in merito ad isolamento termico, capacità di migrazioni stagionali, furtività per evitare l’attenzione di volatili e degli altri predatori. È perciò piuttosto sorprendente che nel corso di una spedizione verificatasi esattamente sette anni fa, la ricercatrice del Cal Poly di San Louis Obispo, Silvia Pavan e i suoi colleghi siano riusciti a catturare una creatura simile ad un’altitudine di 2663 metri, dove l’aria inizia ad essere rarefatta e le risorse ecologiche a disposizione presentano una distribuzione estremamente precisa. Lassù tra le montagne del Parque Nacional del Río Abiseo, Peru dove un certo tipo di vegetazione cresce rigogliosa, con l’occorrenza globalmente rara di foreste nebulose in grado di captare l’aria proveniente dall’Oceano Pacifico, rilasciando lentamente rivoli che riforniscono il flusso idrico dei fiumi sottostanti. E sopra questi rami, adesso lo sappiamo, si aggirano dei piccoli animali onnivori che sembrano dei topi, ma non lo sono. Che appartengono all’infraclasse dei marsupiali, ma non posseggono alcun tipo di tasca per contenere i propri nuovi nati. Il che costituisce, inerentemente, un indizio in merito al grado prossimo di parentela, con una creatura decisamente più comune nell’immaginario collettivo, il bizzarro eppure familiare opossum statunitense della Virginia. Di un didelfide si tratta, effettivamente, ed in particolare di una versione sensibilmente più piccola di tale gruppo di animali, con l’olotipo della nuova specie misurante appena una lunghezza di 10,7 centimetri esclusa la coda di altri 16, ed un peso complessivo di 21 grammi. Esponente dell’ampiamente noto genere dei Marmosa, diffuso dall’America Centrale fino a Perù, Brasile e Bolivia, con numerose specie distinte dalla notevole capacità di adattamento ma più limitata inclinazione alla conquista di territori. Ancorché gli opossum, di regola, siano poco inclini all’attraversamento dell’equatore, non sarebbe poi così difficile immaginare un adattamento perfettamente riuscito di simili creature al territorio messicano o ancora più a nord. Ma per meglio definire ciò che rende unico l’oggetto dello studio pubblicato dalla Dott.sa Pavan, successivamente ad un lungo periodo di comparazione genetica e morfologica durato fino a giugno di quest’anno, sarà opportuno a questo punto presentare le caratteristiche inerenti di questa interessante genìa arboricola di terre lontane…
Le quindici piramidi che precorsero la transitorietà delle ancestrali dinastie cinesi
Che una serie di massicce piramidi possa essere “scoperte” in maniera improvvisa costituisce oggettivamente un fatto alquanto sorprendente,. soprattutto se si trovano lungo la costa di una prefettura cinese da 497.000 abitanti, e letteralmente a ridosso di una cittadina che ne conta 86.400. Eppure nell’estate dell’anno scorso numerose testate nazionali ed internazionali, soprattutto di natura digitale, hanno titolato in merito alla presunta ricomparsa dalle offuscate nebbie del tempo di una serie di presunti monumenti denominati strategicamente sulla falsariga delle aguzze tombe dei faraoni, per affinità con le strutture concettualmente non dissimili, benché sensibilmente meno imponenti, delle tombe imperiali della dinastia Xixia (1038–1227). Ecco finalmente un appropriato tipo di attrazione, paesaggistica e proto-storica, per questa località in precedenza fuori dalla preponderante maggioranza delle guide turistiche, per lo più dotata di proporzioni totalmente prive di precedenti: tra i 200 e 400 metri di elevazione rispetto alla valle sottostante, in modo tale da evocare pressoché immediatamente i soliti noti tra cui ufologi, cospirazionisti e cultori dell’origine extraterrestre di plurime civiltà ormai da lungo tempo scomparse. Il che avrebbe costretto di responsabili del marketing turistico ad aggiungere, pressoché immediatamente, il critico debunking delle circostanze, ovvero una spiegazione pratica di cosa, esattamente, il mondo si apprestasse a discutere a margine del loro piccolo, antico angolo di mondo quasi letteralmente sconosciuto fuori dai confini disegnati dai suoi stessi abitanti. Trattasi dunque di 天然金字塔 (Tiānrán jīnzìtǎ) traducibile come “piramidi naturali” costruite dall’azione carsica di epoche eccezionalmente remote, prima di assumere le proporzioni e l’attuale aspetto di vere e proprie colline. Databili, grazie all’analisi stratigrafica del carbonato presente all’interno, all’Era del Triassico (oltre 200 milioni di anni fa) quando ancora l’intera regione di Anlong sostanzialmente non esisteva, rimanendo sommersa sotto le acque salmastre dell’oceano primordiale che assediava i continenti. Le sue lande sottoposte a forze d’erosione più che millenarie, un eone dopo l’altro, così da erodere gli strati meno resistenti per lasciare impervio il nocciolo di pietra dolomitica insolubile, depositato in cumuli creati grazie all’attrazione gravitazionale della Terra. Finché al ritirarsi delle salmastre distese, sottoposte all’energia del sole, le intemperie, il vento, non vennero scolpite molto prima di qualunque mano umana avrebbe mai potuto immaginare di riuscire a farlo…
Parabola della fede: la traiettoria disegnata dal turibolo sovradimensionato della cattedrale di Compostela
Con un ritmo rapido ma sostenuto l’apertura delle porte conduceva in Paradiso i presenti. Non l’effettivo Regno dei Cieli, s’intende, luogo posto all’altro lato del sottile velo che divide l’esperienza quotidiana dalla trascendenza spirituale al termine dell’Esistenza. Bensì uno stato di venerazione intrinseco, l’accettazione di un compito supremo ed il conseguente sviluppo di un secondo stato della consapevolezza umana. Questo l’obiettivo desiderato, fin dall’alba dei tempi, nella costruzione o allestimento di un luogo dedicato alla pratica di un culto, sia esso di un tipo dedicato all’Unico o i suoi plurimi, tanto spesso contrapposti predecessori dell’Era Pagana. Lo stesso perseguito con rinomato e celebrato successo presso il luogo di sepoltura di San Giacomo Apostolo, il cui corpo fu portato in Galizia ad alcuni discepoli su una barca di pietra successivamente al martirio nel I secolo a Gerusalemme. Lì, dove tanto a lungo aveva predicato il Cristianesimo e nel nono secolo, per una verità miracolosamente rivelata, il sovrano Alfonso II diede ordine che fosse costruita una gloriosa cattedrale. Allestita ancora in seguito ai saccheggi subìti, a guisa di una delle più vaste case del Signore che il mondo avesse mai visto, per volere del suo successore del dodicesimo secolo, Alfonso IX di León. Ma così come l’arco, la colonna e la cupola venivano mutati per costoro dall’architettura del Mondo Antico, elementi più strettamente interconnessi alla ritualità condotta in altri spazi continuavano a venire implementati nella principale religione monoteista dell’Europa Medievale, incluso il ruolo fondamentale del cosiddetto θύμιᾰμα (thýmia̱ma) l’offerta odorosa o profumo sacro tanto spesso rappresentato, fin dall’inizio dei commerci con il Mondo Arabo millenni prima della nascita di Cristo, dalla resina di particolari alberi, preventivamente essiccata e trasformata in grani, polveri o pezzi pronti da bruciare assieme alla carbonella. Un’etimologia fruttuosa che potremmo ricondurre in modo pressoché diretto al thuribŭlum introdotto con alta probabilità dai sacerdoti dediti al rito Romano, un particolare tipo di pentola dallo sviluppo verticale, collegata a delle catenelle onde facilitarne l’oscillazione manualmente indotta e conseguente diffusione dei vapori odorosi. Qualcosa di effettivamente funzionale all’obiettivo di partenza ma non sempre egualmente risolutivo, nella maniera chiaramente annotata nel Codex Calixtinus del 1173 d.C, vasto repertorio di ben 5 libri sulle pratiche dogmatiche connesse al culto compostelano. Dove si trova il primo riferimento alla metodologia attentamente perfezionata del Botafumeiro, che potremmo definire estremamente conduttiva alla creazione di un ambiente conduttivo alla fondamentale percezione del Sacro. Lo spettacolare e reiterato passaggio nell’altissima navata di un oggetto volante metallico del peso di 80 Kg, alla velocità massima di 60 Km orari…