Il falò delle ambizioni elettriche ad Ivanpah, rinnovabile bastione circondato dagli specchi rotanti

Potente è la catena trofica quanto qualsiasi forza posta in essere dalla natura. Un’attrazione cui è tanto più difficile resistere, quanto maggiormente una determinata specie è situata ai vertici della piramide ecologica alimentare. Così il falco della prateria americana (F. mexicanus) spingendosi oltre i margini del secco, eppur vivido deserto del Mojave, scorse il più perfetto dei territori di caccia: un appezzamento limpido e del tutto privo di alberi utili a nascondersi, dominato unicamente da tre alte torri costruite dagli umani. Sopra la cui luce innaturale, innumerevoli passeriformi erano intenti a foraggiare nugoli d’insetti alla ricerca, come di consueto, di un punto ove beneficiare al massimo della concentrazione termica fornita dall’energia solare. Con l’unico campanello d’allarme di una crescita esponenziale della temperatura mentre completava l’avvicinamento, purtroppo incomprensibile al suo cervello di rapace, agilmente preparò la traiettoria necessaria per colpire la preda. Quando a un tratto, le sue piume s’incendiarono come nella punizione del superbo Icaro in fuga dall’arcano Labirinto. Trasformato dunque in una sfera fiammeggiante, il nobile uccello disegnò una tragica parabola, priva d’impattare rovinosamente al suolo. 173.000 specchi non del tutto immobili scattarono, al volgere di un singolo minuto, di alcuni significativi gradi a sinistra.
Ci avevano detto di non lasciarci impietosire dalle circostanze: “Per ogni volatile annientato durante il suo passaggio, la Centrale ad Energia Solare di Ivanpah contribuisce salvarne milioni.” Per la riduzione dell’inquinamento, chiaramente, il contrasto dell’effetto serra, il superamento dell’impiego delle centrali a carbone, la cui capacità di avvelenare e danneggiare il pianeta è in un certo senso prospettata by design, contrariamente al caso del nucleare, i cui effetti deleteri sono conseguenza dei più rari, ed auspicabilmente evitabili disastri. Non soltanto per i 392 Megawatt dichiarati come producibili in condizioni ideali, sufficienti ad alimentare 140.000 abitazioni statunitensi all’epoca della sua inaugurazione nel 2014, bensì come dimostrazione di una nuova strada percorribile, l’innovazione di un processo che sembrava all’epoca una potenziale svolta in grado di cambiare veramente le cose. Giacché il sito in questione, come potenzialmente desumibile dal suo singolare aspetto, non rientra ad oggi nella più diffusa categoria di centrali solari basati sul processo fotovoltaico. Quanto nella tipologia di approccio, molto diretto ed intuitivo, realizzato per la priva volta a Genova nel 1886 dall’ingegnere Alessandro Battaglia. Un impianto a concentrazione solare, in altri termini, concettualmente non dissimile dal terrificante specchio ustorio di Archimede, in base alla leggenda utilizzato per spezzare l’assedio navale di Siracusa. Con i numerosi e coordinati specchi indirizzati in questo caso, piuttosto che contro le vele di una flotta romana, in direzione di appropriati e funzionali torri sopraelevate. Capaci di trasformare tale accumulo d’energia termica, in elettricità. Con qualche fumante, inevitabile incidente pennuto sul percorso…

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Specchi nella vastità disabitata: non rallenta la sua crescita il nuovo nucleo rinnovabile dell’energia indiana

Il vantaggio che può derivare dall’appartenenza alla categoria dei paesi in via di sviluppo, rispetto ai centri storici dell’avanguardia tecnologica e scientifica nel panorama globale, è l’automatico superamento dei sistemi e metodologie pregresse, in grado di condurre a nuove vette d’eccellenza nell’applicazione della tecnologia. Nel caso unico dell’India poi, conquista coloniale in grado di acquisire lo status di potenza a partire dall’inizio dell’epoca moderna, questo potenziale sembrerebbe aver posto le basi di un processo in grado di mostrare la via da percorrere a molti di coloro che verranno dopo. Una di queste, l’installazione e sfruttamento delle rinnovabili, come reazione necessaria al fabbisogno energetico di un paese di 1,4 miliardi di persone alimentato principalmente a carbone, dove l’inquinamento urbano ha ormai raggiunto un livello critico per quanto concerne la salute delle persone. Ed è proprio per l’assenza di una sostanziale industria energetica basata sul nucleare, ad oggi corrispondente al solo 3,7 dell’elettricità complessivamente prodotto nel paese, che alcuni dei più vasti parchi di alimentazione alternativi al mondo sono stati costruiti nel Subcontinente attraverso gli ultimi anni. Fino al record assoluto del Gujarat Hybrid Renewable Energy Park, anche detto Parco Solare di Khavda, la cui vastità pari all’isola di Singapore o cinque volte la città di Parigi (72.600 ettari) da ricoprire totalmente in pannelli solari e pale eoliche parrebbe quasi concepita per riuscire a mettere alla prova l’immaginazione umana. Un progetto iniziato nel 2020, alla presenza del Primo Ministro Narendra Modi, che ne è da sempre uno dei principali propositori e sostenitori, con il raggiungimento del pieno potenziale di 30 GW previsto entro gli anni 2026-27. Un terzo più, tanto per essere chiari, della Diga delle Tre Gole in Cina, famosa per aver ridotto di 60 miliardesimi di secondi la rotazione del pianeta del Terra. Ciò grazie all’individuazione di un luogo ideale ai margini del Grande Deserto settentrionale di Thar, in una vasta pianura salina definita nei documenti esplicativi come “terra desolata” vista l’assenza di fauna endemica o qualsivoglia prospettiva coltivabile per la produzione di cibo. Semplificazione sostanziale dal punto di vista ecologico, comunque coadiuvata dalla sussistenza di ulteriori vantaggi: l’intensità e prevedibilità della luce diurna, data la vicinanza all’equatore, in aggiunta ai forti venti provenienti da Occidente per le masse d’aria fredda proveniente dal Mar Arabico…

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I guai dell’ultima centrale che riceve il combustibile da treni risalenti alla seconda guerra mondiale

Tuzla, con la sua popolazione di 111.000 abitanti, è la terza città più grande della Bosnia-Erzegovina, nonché centro amministrativo dell’omonimo cantone. Tra i principali poli economici e industriali del paese, costituisce anche un centro culturale dalla storia risalente all’epoca del Medioevo, quando era il sito di una fortezza nota in lingua latina come Salines, a causa dei ricchi giacimenti d’estrazione di questa sostanza infinitamente preziosa. Esauriti ormai da tempo i giacimenti di halite economicamente raggiungibili, agli albori della rivoluzione industriale, essa avrebbe trovato la sua fortuna in un diverso tipo di risorsa: il carbone. Soprattutto quello proveniente dalla vicina miniera di Kreka, un tipo di lignite in grado di serbare ancora oggi una riserva di 1.12 miliardi di tonnellate, una delle maggiori di tutta Europa e del mondo. Una fortuna e al tempo stesso significativa dannazione, se si osserva la situazione naturale del paesaggio dopo tali & tante decadi di sfruttamento. Perché mai un luogo simile, in effetti, avrebbe dovuto importare l’energia elettrica attraverso lunghi cavi di approvvigionamento? Questa la domanda che dovettero porsi gli uomini al comando della Jugoslavia socialista nel 1959, quando diedero il via libera alla costruzione dell’imponente centrale termoelettrica a carbone per la compagnia di stato Elektroprivreda Bosne i Hercegovine (EBiH). Con due turbine funzionanti inizialmente da 32 MW ciascuna, ben presto potenziate mediante l’installazione di un’ulteriore unità da 100 MW, altre due da 200 ciascuna ed un’ultima nel 1978 da 215 MW. Un comparto, in altri termini, capace di richiedere ingenti quantità di carbone, il che non avrebbe mai potuto costituire un problema, data l’esistenza di un sistema logistico di trasporto ed approvvigionamento tra le più notevoli eccellenze del paese. Benché nessuno, a conti fatti, si sarebbe mai sognato anche al momento dell’inaugurazione del sito di volerlo definire “all’avanguardia”.
La scena è sottilmente surreale e in grado di lasciare osservatori d’occasione totalmente basiti, benché sia del tutto scevra di alcun elemento tipico delle attrazioni dedicate ai turisti: un sottile pennacchio di fumo si alza sopra l’orizzonte dall’aspetto desolato, finché un suono ed un forma egualmente caratteristiche non permettono di definirne chiaramente la provenienza. Si tratta di una locomotiva, sebbene non del tipo che oggi siamo soliti vedere fare il proprio ingresso in stazione. E neppure un’antiquata locomotiva a diesel, stereotipicamente conforme ai processi funzionali di un classico paese dell’Est Europa. Bensì un qualcosa di direttamente proveniente dai libri di storia, essendo stata costruita con i suoi particolari deflettori o “scudi” laterali circa un’ottantina di anni a questa parte, quando lo sforzo bellico ed imperialista di un paese, la Germania, era riuscito a contagiare l’intero mondo che per esattamente 6 anni sembrò aver dimenticato di essere Civilizzato…

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Il cuore velenoso della macchina creata per dare un verso alla corrente alternata

In un’epoca antecedente alla miniaturizzazione dei componenti, prima che il grado di sofisticazione raggiunto permettesse di rendere invisibili i denti degli ingranaggi che fanno girare il mondo, gli strumenti tecnologici della modernità sapevano mostrare un principio di funzionamento situato alla saliente convergenza tra praticità e panache, termine concettuale francofono traducibile come “brio” ed al tempo stesso, “eleganza”. Così come la forza di una locomotiva a vapore, lungi dall’essere il trionfo dell’efficienza, veniva connotata dalla spettacolarità del suo pennacchio, il ritmo sferragliante, il fischio acuto della sirena, l’introduzione dell’energia elettrica portò con se una distintiva serie di connotazioni estetiche al confine pratico tra la risoluzione diverse tipologie di arte, inclusa quella del maestro vetraio. La cui migliore interpretazione del concetto di un bulbo ben più grande della tipica lampadina, trasparente e sottile, iniziò a trovare posto tra gli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo negli ascensori, le motrici dei tram, i trasmettitori radio ed i macchinari all’interno degli opifici. Ovunque, insomma, dove l’utilizzo del tipo di corrente comunemente identificata come DC (diretta) fosse necessaria all’ottimizzazione di un processo fondamentale di funzionamento, soprattutto in presenza di una rotazione o forza motrice. Laddove al giorno d’oggi l’oscillazione del flusso di tensione avanti e indietro, avanti e indietro lungo il corso del circuito è quanto meno allineata ad uno standard di funzionamento per ciascun contesto nazionale ed oltre, c’è stato un tempo in cui ciò avveniva sulla base della convenienza di specifiche necessità infrastrutturali, piuttosto che l’arbitraria preferenza di ciascuna compagnia creatrice di un particolare tratto di distribuzione nei confronti di una zona densamente abitata. Il che rendeva, se possibile, il raddrizzamento dell’AC (alternata) più importante che mai, benché ciò tendesse a richiedere dei ponderosi quanto costosissimi generatori che occupavano uno spazio nei capanni o le cabine ai confini del vicinato. Molto prima che venisse scoperta l’efficacia in tal senso dei minuscoli semiconduttori, porte nel sistema fatte di ossido di rame, germanio, selenio… Fu risolutiva dunque l’illuminazione ricevuta dal tipico inventore dei primi del Novecento, l’ingegnoso quanto creativo conoscitore dei principi di funzionamento elettrico, Peter Cooper Hewitt. Figlio del sindaco di New York e nipote di un industriale di successo, il quale nel 1901 investì per introdurre sul mercato quella che potremmo definire come l’antenata dell’odierna lampada al neon. Un tubo trasparente in cui la luce veniva prodotta facendo passare una corrente elettrica, piuttosto che in un gas nobile e monoatomico come il neon, all’interno di un qualcosa di molto più sinistro e al tempo stesso condizionato da un terribile pericolo latente: l’esalazione, estremamente tossica, del metallo liquido noto come mercurio. Senza dubbio un rischio, eppure l’opportunità di una scoperta eccezionale. Quando egli si rese conto progressivamente di come la tensione tra le particelle fatta muovere all’interno del suo tubo non fosse mai capace, nel corso dei molti test effettuati, di tornare identica nel punto di partenza. Giacché poteva muoversi, in parole povere, in una sola direzione alla volta…

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