“Sembrano 5.272 formiche variopinte” disse lui dall’alto, finendo di contare il pubblico del Royal Albert Hall

Tom Scott, il nostro amico digitale nonché Virgilio d’innumerevoli trasferte in luoghi distintivi ed impressionanti, mette un piede sulla rete di metallo instabile e dondolante. Sotto i piedi l’assoluto vuoto per l’altezza approssimativa di cinque piani, ed una quantità di vuoto largamente eccessiva che campeggia anche a portata delle proprie braccia, tese nel tentativo vano di aggrapparsi o sorreggersi a un punto fermo della struttura. Ed allora che il suo collega per questa specifica avventura, perfettamente a suo agio, scherzando sulla precarietà soltanto apparente della situazione compie un saltello, facendo oscillare in modo ansiogeno l’intero apparato, inducendo il documentarista dalla solita maglietta rossa ad una serie d’espressioni contrastanti. Difficile, in ultima analisi, decidere di biasimarlo…
La paura è il compagno che accompagna i primi giorni di una grande varietà di professioni: timore di fallire nello svolgimento dei propri compiti, di commettere dei passi falsi nelle relazioni interpersonali, di fraintendere l’effettiva portata delle proprie responsabilità, finendo per deviare l’andamento consono e normalmente automatico degli eventi. Ma il terrore che accompagna i neofiti di un particolare ambito del mondo teatrale, altamente specifico e pressoché costante, risulta ad un tal punto inscindibile da una simile qualifica da poter essere considerato un distintivo e rito di passaggio per gli incaricati. Coloro che devono allestire, modificare ed implementare le soluzioni d’illuminazione o gli apparati per l’emissione di fumo, foschia, effetti speciali a una quota variabile da terra, sopra il palcoscenico occupato dagli attori, cantanti e musicisti che si prenderanno almeno in parte il merito del proprio lavoro. Fino a una quarantina di metri, per essere più precisi, corrispondenti al punto culminante della terza cupola più grande di Londra (dopo la tensostruttura del Millennium e chiaramente, la beneamata cattedrale di St. Paul) che ricopre l’imponente teatro dedicato dalla Regina Vittoria e suo figlio al defunto consorte reale, il principe Alberto. Un vero capolavoro architettonico di tale epoca, ultimato nel 1871 dopo quattro anni di lavori sotto la supervisione del Maggiore Generale Henry Y.D. Scott, dopo la morte dell’originale progettista, il capitano degli ingegneri Francis Fowke. Entrambi figure provenienti dal mondo militare ma perfettamente in grado di soddisfare i canoni estetici del proprio secolo, sfruttando il terreno acquistato presso il quartiere di Kensington poco prima della morte del principe nel 1861, sfruttando almeno in parte i fondi guadagnati con la Grande Esposizione Universale gestita da lui stesso assieme al proprio amico ed aiutante di vecchia data, l’imprenditore Henry Cole. Uno spazio definito per l’appunto in suo onore “Adrianopolis” e per il quale si era giunti a immaginare in un futuro prossimo un nuovo spazio per spettacoli, discorsi ed eventi, che potesse costituire “La sala del villaggio dell’intera nazione”. Teatro costruito in pieno stile italianeggiante (in ing. italianate) e mediante l’utilizzo di una quantità impressionante di mattoni rossi cementati nell’impronta di un ellisse, per un diametro nel punto più largo di 83 metri e uno spessore di un metro. Sormontata da quella che potremmo definire senza timore di trovarci in errore, una delle meraviglie ingegneristiche del terzultimo secolo a questa parte…

“Il più complesso problema ingegneristico affrontato e risolto dall’ingegneria vittoriana”. Poiché di certo, all’epoca si progettavano le cose in maniera più rapida ed andando dritti verso il risultato finale. Ma così non era sempre possibile, né probabile, riuscire a prevedere il risultato finale.

Un tetto di metallo e vetro costruito nelle grandi acciaierie londinesi e quindi trasportato direttamente in situ, sollevato in posizione ed assemblato sulla sommità dell’edificio. Tanto che nessuno era del tutto certo che potesse reggere il suo stesso peso, inducendo l’architetto Scott ad assegnare tale compito unicamente ad una squadra di volontari, disposti ad affidare la propria incolumità alla buona progettazione di tale ciclopico apparato dal peso stimato di 340 tonnellate. Che puntualmente ed esattamente come previsto, alla rimozione dei supporti, si adagiò calando cinque sedicesimi di un pollice (a voi il piacere di convertire tale britannica misura) con quello che potremmo agevolmente definire un impressionante e singolare boato. Ma del tutto funzionale allo scopo e adatto a porre un letterale coperchio trasparente su quello che i critici dell’epoca definirono, nonostante ciò, una sproporzionata ed ingombrante imitazione del Colosseo di Roma. All’attesa e gremita inaugurazione dell’edificio assieme al monumento antistante dedicato al compianto Alberto, avvenuta un giorno prima dell’anniversario dell’Esposizione Universale, il 29 marzo del 1871, la regina e suo figlio Alberto Edoardo salirono quindi sul palco per un appassionato discorso, in cui lui dovette presto prendere la parola per lo stato visibilmente emozionato della madre. Le originali 8.000 persone presenti all’interno, quasi il doppio di quelle attuali in assenza dei moderni regolamenti antincendio, scoprirono però ben presto qualcosa di estremamente spiacevole ed inaspettato: ogni singola parola del principe poteva essere udita esattamente due volte, per il più terribile eco mai vantato da una sala da concerti a memoria d’uomo. Molti scherzarono su questo fatto, affermando senza mezze misure che la Royal Albert Hall era l’unico luogo al mondo in cui un direttore d’orchestra potesse portare a termine una sinfonia ed il encore allo stesso tempo, inducendo ad una rapida consultazione dei migliori ingegneri e studiosi della nascente scienza dell’acustica a disposizione della corte reale. Entro poche settimane, sotto il tetto di vetro e metallo venne sospesa un’imponente telo di stoffa, destinato a rimanere in posizione per quasi un intero secolo prima di essere sostituito da pannelli opachi di alluminio, che smorzò in maniera significativa il problema. Con l’ulteriore valore aggiunto di proteggere gli spettatori dalla luce diretta del sole (lasciandone passare comunque un’appropriata quantità). Ma la vera ed attuale soluzione sarebbe giunta solamente con il proseguire dell’epoca contemporanea e nel 1969, grazie all’installazione dei 135 “funghi” o “dischi volanti” in fibra di vetro costruiti dalla Yorkshire Fibreglass Company, capaci di distribuire e diffondere le onde sonore limitandone il rimbalzo verso i sedili sottostanti. Una vista certamente insolita da terra, ma ancor più bizzarra dalla posizione di vantaggio guadagnata da Tom Scott nel suo ultimo video, che ne può osservare gli steli sottili dalla sommità di quello che costituisce oggi l’oculus, o singola apertura verso l’originale struttura metallica della cupola soprastante. La quale, ci tiene a farcelo notare, è ancora adesso meramente appoggiata sui mattoni dell’ellisse dell’edificio, senza nessun tipo di aggancio, bullone o perno strutturale, visto il suo peso strabiliante più che sufficiente a mantenerla in posizione.

Con l’apertura centrale verso l’oscurità invisibile del sotto-cupola, la Royal Albert Hall somiglia oggi al Pantheon di Roma più che al Colosseo. Fatta eccezione per la curiosa foresta invertita che incombe sugli spettatori, s’intende…

Un luogo raramente osservabile in prima persona dai visitatori del teatro, per non parlare di coloro che si recano ad assistere semplicemente ad uno degli straordinariamente diversificati spettacoli che attraverso i secoli si sono tenuti all’interno delle sue mura: dai concerti alle opere, dalle rappresentazioni teatrali ai discorsi dei politici, passando per incontri di pugilato e almeno una partita di tennis, trasformando temporaneamente l’edificio nel più storicamente rilevante e notevole dei palazzetti dello sport. Qualcosa che senz’altro sarebbe piaciuto all’uomo cui era stato dedicato l’edificio, che originariamente aveva teorizzato assieme a Cole un tempio delle arti performative capace di sostenersi finanziariamente in modo autonomo e mediante finanziamenti ottenuti per beneficienza, senza ricevere opulente provvigioni dall’erario di stato. Ed anche perciò pienamente meritevole di essere fregiato dal pregevole bassorilievo ad anello in stile neoclassico situato nel punto più alto delle mura, rappresentativo del Trionfo delle Arti tra cui musica, pittura, scultura, architettura, astronomia… Ed infine l’energia meccanica, perseguendo la quale, simili vette e risultati tecnologici l’Inghilterra vittoriana era riuscita a conseguire.
“Salire sulle spalle dei giganti” è un modo di dire anglosassone particolarmente versatile, spesso impiegato per massimizzare la constatazione dei più strabilianti risultati ottenuti dai nostri insigni predecessori. Soltanto non si pensa, nella maggior parte dei casi, che simili titani possano essere del tutto letterali e tangibili, offrendo l’occasione di subire l’influsso di vertigini a cui era del tutto impossibile prepararsi. Dimostrando come anche gli sport estremi possano prepararci ad un curriculum culturale di tutto rispetto. Purché si scelgano le giuste vette da cui sporgerci per osservare la scena.

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