Lassù in Tibet, il fiore che si ammanta di un bianco lenzuolo invernale

Questo è, tante volte, il funzionamento di Internet: clicchi mentre stai navigando sul titolo che riporta la dicitura “Una terra [biologicamente] diversificata: come i pika della pianura sopravvivono al duro inverno tibetano” per trovarti a guardare un servizio pubblicato dalla Tv di stato cinese. Ora, il pika dovrebbe essere, come potreste già sapere, un piccolo mammifero lagomorfo simile ad un coniglio, ma privo delle sue caratteristiche lunghe orecchie, più simili a quelle di un topo. Se d’altra parte non ne aveste mai visto uno prima d’ora, il video in questione non potrà certo accorrere in vostro aiuto. Poiché parla in verità di un argomento molto diverso, relativo alla natura ecologica di una particolare specie vegetale… Per anni ed anni, salvo un’improbabile (ma pur sempre possibile) rettifica dei titolari del canale, ogni strumento di ricerca bibliografica relativo ai pika tibetani condurrà erroneamente alla trattazione di questa pianta, un problema esponenzialmente più grave tanto più risulta essere popolare l’autore della trattazione. Il che, in questo caso specifico, potrà generare al massimo qualche mezza dozzina di scrollate di spalle: chi mai potrebbe confondere, d’altra parte, un appartenente al mondo animale con qualcosa che cresce e si moltiplica sfruttando principalmente l’energia del sole? Benché il caso voglia, relativamente a questa stessa presenza del cosiddetto tetto del mondo, che il suo nome tradizionale sia situato all’origine di una vasta serie di fraintendimenti. Rispondendo fin da tempo immemore all’espressione di Brahma Kamal (letteralmente: Loto di Brahma) ed essendo per questo associato ad un’ampia serie di rituali religiosi induisti, come offerta o per le acclarate capacità taumaturgiche dei composti presenti all’interno dei suoi petali e foglie, tra cui metaboline e sesquiterpeni dalle reali capacità antinfiammatorie. Entrambe caratteristiche attribuite nei fatti ad un’ampia serie di piante, molte delle quali non sono effettivamente un loto. Ma in modo particolare ad almeno un’altra specie non nativa, completamente diversa dal punto di vista della classificazione tassonomica e l’aspetto esteriore delle sue infiorescenze. Un vero peccato, per la maniera in cui finisce per diffondere ulteriormente l’attribuzione di nozioni errate per quanto concerne entrambe le varietà coinvolte.
Non molte piante, d’altra parte, assomigliano alla Saussurea obvallata, un membro della famiglia di erbe di montagna famose per le proprie teste floreali composite e molto dense chiamate in gergo scientifico capitula, da cui deriva frequentemente un tipo di frutto secco chiamato achene, consistente di un duro e piccolissimo involucro, appena sufficiente a racchiudere e proteggere il seme contenuto all’interno. Il che si applica effettivamente anche alla “vera” Brahmakamal, benché le somiglianze con la tipica interpretazione di tale stirpe botanica sembrino fermarsi in tal punto, vista la natura estremamente atipica dell’ambiente in cui essa è abituata a crescere: tra i 3.700 e 4.600 metri, lungo pendici montane del tetto del mondo battute da venti significativi e con un grado d’umidità piuttosto basso, dove le temperature spesso al di sotto dello zero hanno da tempo sterminato la discendenza di piante non altrettanto resistenti. Il che non sembra tangergli più di tanto alle comunque infrequenti macchie dal gambo verticale, in cima al quale figura nel corso dell’intera stagione monsonica quello che potrebbe a tutti gli effetti ricordare una sorta di bulbo di color verde rossastro, situato in posizione impossibilmente apicale. Ma le apparenze spesso ingannano e quello che stiamo vedendo, avvicinandoci soltanto un po’ di più, può rivelare la sua effettiva ed insolita natura, di una vera e propria capsula di sopravvivenza costruita da questa figlia non-particolarmente-pelosa, niente-affatto-quadrupede degli altipiani…

La S. obvallata viene considerata una pianta piuttosto rara, benché sia più che altro situata ad altitudini che rendono difficile raggiungerla e vederla coi propri occhi. Il che non ha impedito attraverso i secoli, purtroppo, la sua raccolta sistematica e non regolamentata, con conseguente riduzione della popolazione complessiva.

Caratteristica principale alla base della seconda componente del nome in latino della pianta assegnato alla Saussurea obvallata, dal suo classificatore irlandese M.P. Edgeworth, che la dedicò in parte all’esimio collega H. B. de Saussure, è dunque proprio questo involucro costituito non dai petali bensì sepali di ciascuna infiorescenza, capace di agire come una sorta di scudo ambientale custode di un preziosissimo ed invitante microclima riparato dal vento. La natura diafana e semitrasparente di tali parti vegetali, infatti, pur fermando il vento risulta capace di lasciar passare la luce solare, accogliendo e custodendo al suo interno una temperatura sensibilmente più elevata rispetto a quella ambientale circostante. Il che ha lo scopo, grazie all’ingegnoso funzionamento dell’evoluzione capace di percorrere più di una strada alla volta, non soltanto di proteggere i delicati capitula dalla forza enfatica degli elementi; ma anche e soprattutto attirare un tipo di ospite particolarmente benvoluto da parte della proprietaria vegetale di una simile residenza: gli insetti. In varietà e quantità sorprendente, come spiegato dal corrispondente del video cinese dal titolo errato, che arriva a definire la Brahmakamal come un vero e proprio “motel naturale degli ambienti di montagna”. Un vantaggio molto importante, inutile specificarlo, per la diffusione sistematica di copiose quantità di polline, una volta che i suddetti artropodi spiccheranno nuovamente il volo, rinvigoriti e riposati grazie a un siffatto tepore, andando poi auspicabilmente a posarsi all’interno di uno qualsiasi tra gli altri fiori identici; ciò in quanto, molto convenientemente, la pianta in questione risulta essere del tutto ermafrodita, semplificando ulteriormente la commistione dei propri preziosi geni. Ed è un sistema tanto efficace quest’ultimo, da aver trovato conferma attraverso i secoli nonostante agevoli la presenza all’interno delle larve dei suddetti insetti, che talvolta vengono collocate dalle proprie madri in siffatto accogliente monolocale, finendo per consumarne una parte considerevole fino al raggiungimento della dispendiosa metamorfosi finale.
La natura altruista ed accogliente di questa pianta restò del resto lungamente nota ai devoti delle religioni d’India, che la incontrarono sulle montagne limitrofe al confine tibetano con particolare frequenza presso il Nanda Devi, secondo picco più alto dell’India nonché 23° in tutto il mondo. Dove secondo la tradizione dei molti templi costruiti lungo le sue pendici lungamente considerate sacre, sbocciò la tradizione secondo cui il “loto di Brahma” fosse per l’appunto il grande fiore sopra cui la divinità creatrice era solita sedersi per meditare, piuttosto che il magico apporto impiegato per attaccare magicamente la testa di un elefante al giovane Ganesha, figlio divino di Shiva e Parvati. Citato già negli antichi poemi epici del Ramayana e del Mahābhārata, il Brahmakamal compare come simbolo dell’eroina tragica Draupadi e mitico medicinale ricercato dallo “scimmiotto” Hanuman per curare gli amici rimasti feriti in battaglia. Occasione in cui il guerriero bestiale, con la sua caratteristica irruenza, decise di staccare una parte intera della montagna suscitando l’ira dell’eponima Nanda Devi, niente meno che una manifestazione terrena di Durga, Dea della Distruzione. La quale maledisse il suo nome ed impedì che nell’intera regione potesse essere costruito un tempo a lui dedicato, mentre alcuni affermano che una delle pendici del monte abbia proprio la forma di Hanuman reclinato a terra, trasformato in pietra per l’effetto immediato della sua ira.

Una famiglia indiana mostra orgogliosamente la fioritura annuale della propria pianta di Brahma Kamal. Peccato che si tratti, effettivamente, di un cactus messicano!

Particolarmente amato come simbolo e spesso impiegato per la decorazione dei templi, il fiore Brahma Kamal costituisce ormai da svariate decadi il fiore simbolo dello stato settentrionale di Uttarakhand, che lo ha adottato in molti dei propri emblemi istituzionali. Fuori dai suoi confini tuttavia, come precedentemente accennato, i fraintendimenti abbondano vista l’associazione dello stesso nome alla pianta di origini mesoamericane dell’Epiphyllum oxypetalum, altrove detto “cactus pipa dell’olandese” o “principessa della notte”. Per la sua capacità, molto poetica, di fiorire unicamente per una singola notte l’anno, un’adattamento al clima altrettanto secco dell’ambiente per lo più messicano da cui proveniva. Prima di essere trapiantato, con sorprendente successo, in una buona parte dell’Asia meridionale ed in Cina, dove viene altrettanto apprezzato per la sua notevole bellezza ed unicità esteriore. Nonché il Signore Brahma, d’altra parte, dovrebbe formalizzarsi eccessivamente all’offerta di un fiore tanto magnifico durante le proprie formali cerimonie. Benché lo stesso, personalmente, non mi sentirei di garantire in merito alla ben più iraconda Nanda Devi. Che potrebbe anche, per un vezzo del momento, scegliere di punire i propri fedeli disinformati facendoli reincarnare in altrettanti squittenti e zampettanti piccoli pika degli altipiani. Forse neppure la punizione più terribile, che sia possibile immaginare considerate le premesse.

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