Un muso rosa tra i flutti, strano delfino dell’Amazzonia

Ricorrente nelle culture di paesi molto diversi tra loro è la leggenda folkloristica dei mutaforma: esseri non-del-tutto-umani talvolta benevoli, molto più spesso crudeli o dispettosi, che sfruttando la propria dote per mescolarsi tra la gente colpiscono chi meno se lo aspetta, producendo un qualche tipo di effetto deleterio sulla sua esistenza. Sventura, dannazione, il rapimento delle persone. Quest’ultima credenza, in particolare, viene talvolta attribuita alle creature animali che possiedono un aspetto inquietante, siano esse di terra, di cielo o d’acqua salata e dolce. E nel suo complesso sarebbe certamente azzardato negare che il cosiddetto boto, bufeo o delfino rosa di fiume, il più imponente della sua famiglia (Iniidae) coi notevoli 160-180 Kg di peso, possieda un certo fascino ultramondano. Quando affiora occasionalmente, con la strana pinna dorsale e il melone tondeggiante della sua testa ma senza mostrare la tozza coda, a lato delle canoe indigene di Brasile, Colombia, Perù, Bolivia, Ecuador e Venezuela, in genere per giocare o chiedere del cibo. Sorgendo dalle acque per orientare quindi, con movimenti rapidi e scattosi, la sua testa in tutte le possibili direzioni, neanche si trattasse di un improbabile gufo sottomarino. Ma la flessibilità di quelle vertebre cervicali, del tutto paragonabili alle nostre, non è l’unico tratto di distinzione coi più conosciuti cugini di mare: a cominciare dalla colorazione eponima della sua carnagione, non dovuta a particolari pigmenti bensì alla presenza di un numero particolarmente elevato di capillari vicini alla rigida scorza esterna, spesso ricoperta di cicatrici e altri segni dovuti alle feroci lotte tra maschi nella stagione degli accoppiamenti. Ciò che ciascuno di questi esseri può tuttavia fare, secondo una diffusa diceria dei popoli indios sudamericani, è assumere nelle notti (possibilmente di luna piena) l’aspetto di una donna conturbante, allo scopo di sedurre un individuo malcapitato e giacere in segreto con lui per il periodo di una settimana. Tempo al concludersi del quale, secondo la leggenda, la vittima sparirebbe improvvisamente nel nulla, iniziando una nuova vita come esemplare femmina di delfino all’interno del grembo della consorte del suo rapitore sovrannaturale.
Una ragione estremamente estremamente valida, questa, per adornare se stessi di numerosi talismani e amuleti diversi a seconda del proprio background culturale, prima di trarre guadagno dall’accompagnamento dei turisti nelle zone abitate da simili mostruosità. Utilizzando l’occhio critico della modernità scevra di superstizioni, tuttavia, apparirà chiaro come la leggenda dell’Encantado non possa avere alcuna base possibile di verità, dinnanzi ai chiari fatti di una creatura benevola e persino a noi affine, capace di sorprenderci coi suoi comportamenti spesso selvaggi e impossibili da prevedere.

Le interazioni con qualsiasi tipo di delfino, non importa la sua provenienza, risultano particolarmente soddisfacenti per l’uomo, a causa delle chiassose espressioni di gratitudine tipiche di questi animali. È dunque certamente una fortuna, che al giorno d’oggi le superstizioni tradizionali trovino un numero sempre minore di seguaci.

Quello che la scienza chiama Inia geoffrensis, pur essendo stato descritto per la prima volta nel 1817 dal naturalista francese Henri Marie Ducrotay, è una creatura dal vasto areale che in conseguenza di questo presenta ben tre sottospecie: quella dell’Amazzonia propriamente detta (I.g.)
dell’Orinoco (I.g. humboldtiana) e della Bolivia (I.g Boliviensis). Per quest’ultima variante dalla forma del cranio evidentemente diversa, in particolare, è stato proposto nel 1994 l’inserimento all’interno di una nuova specie, benché oggi la teoria più accreditata è che abbia soltanto percorso un sentiero evolutivo leggermente diverso, benché parallelo. Nel 2014 a questo quadro ormai chiaramente definito è stato suggerito di aggiungere, con uno studio di Tomas Hrbek et al. (Federal University of Amazonas) la nuova specie dell’Inia araguaiaensis, differenziato per la presenza di una quantità minore di denti. Questa ipotesi tuttavia, allo stato attuale dei fatti, non viene ancora riconosciuta da nessun tipo di indice internazionale.
Dal punto di vista ecologico, delle abitudini riproduttive e dei comportamenti, ad ogni modo, siamo di fronte da un genere piuttosto uniforme, che vede alcuni specifici adattamenti al suo ambiente elettivo di appartenenza: le acque torbide dei fiumi che s’intersecano in alcune delle foreste più vaste del pianeta, trasportando un carico di potenziali prede dalla straordinaria biodiversità. Ciò che caratterizza in effetti la dieta dei delfini rosa è la sua varietà, con casi attestati di ben 53 specie di pesci catturati alternativamente, generalmente nei due periodi dell’alba e del tramonto. Questo perché, per andare in caccia, tali esseri non sfruttano soltanto, né principalmente i propri due semplici occhi, facendo bensì ricorso ad altrettanti specifici strumenti, uno tipico, l’altro meno. Stiamo citando, in primo luogo, la già citata appendice bulbosa, melone o “gobba” sulla sommità della testa, capace di ricevere ed interpretare il rimbalzo degli ultrasuoni emessi dall’apparato fonatorio dell’animale, al fine di sfruttare l’efficienza quasi scientifica dell’ecolocazione. Con un significativo vantaggio rispetto ai delfini di mare: l’intervallo minore necessario affinché l’eco di ciascun momento ritorni al punto di partenza, negli spazi relativamente angusti di un letto fluviale, permettendogli di emetterli con maggior frequenza e formare, in conseguenza di questo, un’immagine più aggiornata dei loro dintorni. La seconda arma dei bufei, d’altra parte, risulta essere molto più atipica nel suo contesto di utilizzo: è una fila estremamente efficace di baffi o vibrisse, disposti ordinatamente lungo l’intera estensione del muso, capaci di percepire le benché minime vibrazioni prodotte dallo sfuggente pinnuto di turno, destinato ad essere fagocitato in un paio di morsi al massimo, per la maggiore soddisfazione del leggendario cacciatore del crepuscolo sudamericano.

Una forma pallida e soltanto vagamente umana che si muove verticalmente, tra gli strati più o meno conoscibili dell’esistenza. Allungare una mano per tentare di stabilire un contatto può sembrare una reazione del tutto condivisibile. Ma non si può biasimare del tutto chi, dinnanzi a una simile vista, provi un latente stato d’inquietudine esistenziale.

L’accoppiamento, mai studiato in maniera particolarmente approfondita, sembrerebbe svolgersi esclusivamente tra maggio e giugno, esattamente 11 mesi prima della successiva stagione delle piogge. Ciò per poter trarre giovamento, al momento della nascita del cucciolo, di zone alluvionali dall’estensione ragionevolmente ristretta ove la densità di possibili prede risulti maggiore, favorendo l’apporto nutritivo durante il periodo della crescita e fino al raggiungimento di uno stadio di ragionevole indipendenza. Detto questo, il legame tra madre e figlio di questo intero genus viene considerato estremamente stretto, estendendo la loro stretta convivenza fino al periodo relativamente considerevole di quattro anni.
Mai cacciato per la sua carne a causa delle superstizioni locali, il delfino rosa ha tuttavia dovuto subire le classiche problematiche degli animali di queste terre, prima fra tutte la riduzione dei territori incontaminati a causa delle esigenze di espansione dell’industria e lo sfruttamento delle risorse. Il suo stato di conservazione, ad ogni modo, risulta tutt’ora largamente incerto, per le difficoltà logistiche nel contare creature acquatiche all’interno di un simile labirinto di fiumi e specchi d’acqua più o meno temporanei sotto l’ombrello protettivo di alberi primordiali. Soltanto nel corso del 2018, quindi, la IUCN l’ha inserito nella sua lista rossa delle creature a rischio d’estinzione, come misura preventiva e basata sulla mera inferenza a margine dell’intera questione. Un ulteriore problema per iniziative di conservazione decentrate è che il delfino rosa se la cava malissimo in cattività, finendo per morire spesso pochi mesi dopo la sua cattura, benché esistano delle eccezioni (s)fortunate di esemplari ancora in vita dopo oltre 30 anni trascorsi all’interno di acquari e zoo.
Ma che bisogno abbiamo, alla fine, d’intervenire sul percorso naturale della vita di un essere che è altrettanto antico, e forse persino più intelligente (a suo modo) di noi? Tutto ciò che chiede il delfino rosa dell’Amazzonia è di essere lasciato libero di continuare a praticare i più subdoli sortilegi, trasformando gli uomini lascivi nella prossima generazione di streghe subacquee delle oscure profondità abissali. Quindi se ci teniamo a distanza di sicurezza, questo potrebbe essere un bene per noi… E per lui. Possibilmente, mantenendo l’eccezione per il pasto luculliano, assai spesso apprezzato, di qualche pesce non-più-surgelato gettato all’indirizzo del suo buffo muso in affioramento, dinnanzi al molo delle più transitorie ed occasionali circostanze. A nessuno piacerebbe interrompere il proficuo guadagno di un tale incanto.

Lascia un commento