L’arte russa di combattere cadendo giù dalle scale

Ecco una scena che sembra prelevata direttamente da un film cult d’azione: Arkadiy Alexeevich Kadochnikov che scivola, fucile d’assalto alla mano, giù da un pianerottolo, presumibilmente sotto assedio dai nemici della madrepatria. Senza distogliere lo sguardo dai possibili punti di contatto, mette un piede oltre il primo degli scalini sul suo sentiero, quindi compie un altro passo ed a quel punto, pare eclissarsi nell’aria. Come un ninja giapponese, egli ha misurato l’interrelazione tra il suo peso corporeo e la gravità terrestre, computando la maniera più efficiente al fine di raggiungere la meta: pancia sotto, rotazione, schiena trasformata in una slitta, gambe piegate ad angolo retto e braccia protese verso l’alto. Testa in avanti senza un briciolo di paura, virando a due centimetri dall’elemento verticale della balaustra. Nessuno può colpirlo. Nessuno può fermarlo. Come attuale capo della scuola ci combattimento appartenuta al padre, possiede l’assoluta sicurezza di un suo Systema.
Anche nell’ottica del più assoluto pacifismo, nella ragionevolezza e pacatezza della mentalità contemporanea, è impossibile negare che la guerra ideale possegga un certo grado di eleganza. Soldati di professione addestrati a gestire situazioni di conflitto, che si affrontano a viso aperto l’uno di fronte all’altro, le uniformi scintillanti, le armi che fendono l’aria, emettendo sibili dal suono sincopato. Ma quanto spesso, davvero, le cose si svolgono in tale maniera? Quanto spesso ci s’incontra nell’equivalenza sostanziale di un’arena, in cui tutto appare chiaro e controllato, senza l’opportunità di agire fuori dagli schemi, per accaparrarsi un qualche tipo di vantaggio? Esistono essenzialmente, a questo mondo, due tipologie di arti marziali: quelle create come uno sport, per l’accrescimento filosofico del proprio modo d’interfacciarsi con gli altri: Judo, Karate, Taekwondo. Ed altre concepite, in modo mutualmente esclusivo, per gettare il proprio avversario nella polvere, possibilmente nella sicurezza che non possa rialzarsi troppo presto. Sto parlando, come forse già saprete, di tecniche come il Krav Maga, il Muay Boran o il Sambo nella versione praticata dagli Spetsnaz, le pericolose forze speciali russe.  Ma anche degli innumerevoli accorgimenti senza nome, nati dalla semplice necessità dei casi, e tramandati all’interno delle unità di combattimento di ogni nazionalità e bandiera. Come immobilizzare, come sfuggire alla cattura, come sfruttare l’efficacia di una baionetta, il modo per gestire l’infinita pletora degli imprevisti di una situazione di battaglia. Eppure, c’è un imprescindibile limite a quanti approcci possa prepararsi sfruttare, persino il più abile guerriero, mentre si trova in bilico in una situazione di vita o di morte.  “Fornite a un’uomo una tecnica, lui potrà difendersi da un’altra tecnica. Ma dategli un concetto, e potrà sconfiggerne 10.000.” Non è realmente chiaro se questa citazione appartenga a Kadochnikov padre, Aleksey Alekseyevich, il canuto protagonista d’innumerevoli video risalenti all’epoca della guerra fredda, in cui gli agenti sovietici venivano mostrati la meglio delle loro condizioni fisiche, mentre si sfidavano l’un l’altro nel sorpassare i propri limiti, mulinando in aria ogni sorta di arma informale o frutto d’improvvisazione situazionale. Eppure è indubbio che si tratti di un’espressione largamente descrittiva nei confronti di ciò che il “nonno”, come viene tutt’ora chiamato dai suoi seguaci, ha saputo elaborare e proporre nel corso della sua carriera d’istruttore militare. Iniziata soltanto negli anni ’80, dopo una gioventù trascorsa facendo il meccanico aeronautico, e gli anni investiti frequentando il Politecnico di Krasnodar, per apprendere i concetti che avrebbe, in seguito, applicato nel Systema. Già perché l’arte marziale di costui, lungi dall’essere un’accozzaglia di approcci istintivi, è fondata su precise ed inflessibili regole, che il praticante è chiamato ad applicare in base alle esigenze di ogni specifico momento.
Ovvero per quanto ci è dato di comprendere, primariamente grazie a una vecchia intervista del suo allievo americano Matthew Powell, essa si basa principalmente sul concetto fisico delle macchine semplici: leve, verricelli, paranchi, pulegge, argani. Nient’altro che punti nei quali, determinate condizioni vigenti permettono alle forze in gioco di trasformarsi e incrementare la loro portata, molto spesso con un immediato guadagno da parte di chi sa comprendere il funzionamento. Ed a quanto pare il fondatore ormai veterano, simili concetti li conosceva in maniera estremamente approfondita. Se è vero che il suo nome, oggi, risuona della stima d’innumerevoli anni di gloria…

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Il vecchio tronco sospeso nel cratere dell’eternità

Perché molta gente visita il Crater Lake? Non per le sue pareti scoscese, strumenti d’innumerevoli prove di coraggio tra i giovani cacciatori e guerrieri in cerca di una gloria prematura. Né per l’isola conica al centro, sormontata dalla depressione nota come il calderone della strega, da dove si dice che antichi spiriti facciano strane smorfie all’indirizzo dei marinai. Né per la “nave fantasma”, uno sperone roccioso fantastico e frastagliato a meridione, che risuona dell’eco carsico di un mondo in continua trasformazione. Ma per l’altro tipo di barca, perennemente in viaggio, tra le sponde e le rive citate, con il suo carico di qualche migliaio di forma di vita del tutto indipendente dall’uomo. Sopratutto formiche, con qualche ragno e il muschio antipiretico Fontinalis, saldamente radicato sopra e sotto il livello delle acque movimentate dal vento senza limiti di stagione.
C’è un ricordo piuttosto vago ma intenso, nella mia memoria, di me bambino che guardo un documentario sulle ultime genti isolate dell’Amazzonia, pensando: questi uomini e donne non hanno letti con il cuscino, aria condizionata, televisione, automobili, computer o videogiochi. Non possiedono libri, quadri, né alcuno spartito musicale. La loro vicenda umana è più difficile della mia, la loro cultura, meno sofisticata. Quale potrebbe mai essere, dunque, il valore di un simile stile di vita? Certi concetti richiedono un approfondimento e una mentalità adulta, per essere finalmente compresi. Nessuno t’insegna, a scuola, che persino lo studio dei testi in greco e latino non è che una mera approssimazione della memoria tramandata oralmente di padre in figlio, chiara memoria di eventi avvenuti 7 o 8 millenni fa. Oggi fatichiamo a contestualizzare battaglie avvenute nel nostro Medioevo. Mentre ci sono leggende dell’era Neolitica, raccontate esattamente come all’epoca della loro creazione, la cui connessione a fatti realmente avvenuti è facilmente verificale persino dal punto di vista limitato dei nostri giorni. Come quella, tradizionalmente narrata presso la tribù Klamath dell’Oregon meridionale, relativa alla creazione di Crater Lake. A quel tempo viveva una principessa degli umani e c’erano, inevitabilmente, due possenti divinità in conflitto: Llao, signore del sottosuolo, e Skell, suprema personificazione dei cieli. Un giorno apparentemente come gli altri, la donna si svegliò, e salita in cima al monte Mazama, un vulcano attivo, rivolse la sua voce nel vasto baratro ricolmo di lava fusa: “Oh, Dio più potente di tutti gli Dei. Ogni stagione delle piogge, Colui che Risiede Sopra scarica le sue acque sulle tue fiamme purificatrici. Perché accetti un simile sopruso? Perché non gli mostri tutta la tua furia, scagliando in alto le incandescenti prove della tua sacra Esistenza?” E il allora mostro sopìto, per qualche malcapitata ragione, scelse di accogliere la sua richiesta, dimostrando quale fosse davvero la possenza del grande Lllao. La montagna fu scossa dalle sue fondamenta, mentre una gigantesca nube di cenere ricopriva i villaggi vicini. Lapilli incandescenti presero a disegnare strisce vermiglie nel cielo, mentre un possente sommovimento tellurico, poco alla volta, disgregava letteralmente le infinite tonnellate di roccia, facendole franare da ogni lato. Del destino della donna che, per una leggerezza o l’odio nei confronti dell’umanità aveva causato tutto questo, in realtà perdiamo le tracce di lì a poco. Mentre per quanto concerne la montagna, possiamo affermare con certezza che essa venne letteralmente spezzata, divisa in più parti che a loro volta sono franate, all’interno della vasta camera magmatica sottostante. Della pietra vetrosa che resta in superficie dopo un simile episodio vulcanico, dunque, sappiamo due cose: che essa costituisce paesaggi cupi dall’aspetto gloriosamente alieno. E che se formatasi nelle giuste condizioni, costituisce un suolo del tutto non permeabile, perfetto per la creazione spontanea di fiumi o laghi. E il clima umido della catena montuosa del Cascade Range, dovuto ai gelidi venti provenienti dall’Oceano Pacifico, creava condizioni assolutamente perfette. Così di lì ad un paio di stagioni, non soltanto Skell ebbe il dominio assoluto, ma fece il necessario affinché nel palazzo in rovina del suo rivale nascesse un lago di tipo anoreico, ovvero del tutto privo di alcun affluente, ma ricolmo unicamente delle piogge senza una fine. Il quale oggi costituisce, con i suoi -350 metri e i 9 Km di ampiezza, il più profondo dell’intera nazione statunitense, ed il primo al mondo tra quelli il cui bacino si trovi completamente al di sopra del livello del mare.
Delle antiche battaglie tra il cielo e la terra, quindi, ormai ben poco rimane. Tranne i componimenti orali in lingue mai tutt’ora parlate correntemente ed alcuni segni immanenti disposti ad arte sotto gli occhi dell’intera umanità. E non credo che in molti potrebbero dubitare, che il Vecchio del Lago sia uno di questi, nonché il nesso fondamentale di una delle sette meraviglie naturali dell’Oregon, spesso elencate nelle guide turistiche e nei materiali di marketing messi assieme per far conoscere questo affascinante stato. Soltanto nessuno, tra gli sciamani superstiti dell’antica sapienza, può ben dire di conoscere le radici smarrite del suo mistero.

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Quanti semi contengono gli hot dog di palude?

Danger, achtung, 危ない, rischio di esplosione! Non toccate ciò che non vi appartiene, specialmente se ha un’origine di tipo naturale, costituendo una parte inscindibile del grande fiume delle cose indipendenti. O in alternativa, l’ornamento vegetale di paludi sottintese, agglomerati di casistiche del tutto inusitate. Chi avvicina la sua mano… Sarà presto inseminato. Ricoperto, in modo totalmente letterale, della spuma bianca dello spazio-tempo. 100.000 piante già complete in ogni loro parte, dallo stelo semi-rigido alle foglie con la forma di una lama. Nonché il cruccio, ovvero il nesso, di quest’infiorescenza tubiforme di un color netto marrone, il cui peso appare molto superiore alla realtà. Certo, non è un vegetale come gli altri, ciò di cui stiamo parlando. Bensì la tifa o stiancia, mazzasorda, coda-di-gatto (cattail) salsiccia di palude, erba-della-culla, pannocchia del cosacco o cumbungi, un susseguirsi internazionale di metafore che alludono, di volta in volta, all’aspetto o la funzione di una tale pianta, tanto vicina alle esigenze degli umani da un periodo di almeno 30.000 anni (come da ritrovamenti archeologici di tale Era). Da dunque molto da pensare, e lascia un po’ stupiti, che una maggioranza di persone, benché vivano in prossimità di un luogo dove crescono selvaggi questi giunchi, non conoscano il segreto che si trova al loro interno. O forse sarebbe più preciso dire, la materia stessa di cui sono costituiti, la lanugine biancastra la cui confronto, addirittura il dente di leone sembra un copripenna anallergico.
Il fatto è che, in effetti, soffiare sulla tifa produce risultati largamente deludenti. Poiché essa è ben più solida del succitato pappìo, richiedendo quindi sollecitazioni d’altro tipo, o l’energia del vento stesso, per diffondere il suo carico di vita potenziale, duplicandosi per tutta l’area circostante. Ma il migliore ausilio alla propagazione resta, a dire il vero, l’intervento più o meno informato di creature assai determinate, che facendo il gioco della pianta la distruggono, garantendogli in questa maniera l’immortalità. Internet è piena di simili storie: l’esperienza di ex-bambini americani, ormai membri produttivi della civilizzazione memetica digitale, che scoprirono accidentalmente le surreali proprietà del salsicciotto da cui fuoriesce una punta smussata (in realtà il fiore maschile). Stringendolo tra le manine, per generare l’assoluto Caos. Credete che io stia esagerando? Ma il raceme femmina del cattail è un vero capolavoro del processo biologico evolutivo, compresso come un mobile dentro i cartoni dell’Ikea. Al punto che una volta aperto, o disfatto che dir si voglia, esso pare espandersi in maniera esponenziale. Quasi che al suo interno si nasconda un’apertura interdimensionale verso il piano d’esistenza della purissima allergia. E di certo, più di un genitore deve aver sbraitato all’indirizzo di coloro che, per gioco, ne hanno colto una dozzina o più e commettendo il gesto sopra descritto dentro al giardino di casa propria, ponendo le basi per vederne presto crescere milioni. A discapito delle rose rare di mamma e papà.
Mentre un tempo, molto prima dell’inizio dell’epoca industriale, il salsicciotto di palude aveva costituito una pianta estremamente desiderabile, vista la maniera in cui sembrava migliorare la vita di chicchessia. In primo luogo facente funzione di cibo, per tutti coloro (cosacchi in primis) che erano soliti sradicarla da terra, onde accedere al rizoma semi-sepolto, quella parte dello stelo da cui partono le radici e che una volta sottoposto al peso della macina, dava origine a una farina con 266 calorie per 100 grammi.  E poi, per la leggendaria flessuosità ed il grado di resistenza delle sue lunghe foglie a punta, materia prima d’infiniti manufatti umani…

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La misteriosa caverna dei conigli templari

Il suono della musica risuonava nel cortile e nei quattro saloni della grande tenuta, sul terreno ancestrale della famiglia Legge, dell’onorevole stirpe dei conti di Darthmouth. La villa dalle alte torri, interconnesse tra loro mediante arcate vagamente neoclassiche, offriva un ingresso agli ospiti mediante l’ampio colonnato in stile toscano, aperto su un portico di forma circolare. I vistosi abbaini triangolari, nel frattempo, mostravano chiaramente l’influenza di un certo tipo d’architettura, molto popolare in quegli anni presso gli Stati Uniti del Sud. Era una sera di primavera, ed uno dei rari casi di cielo limpido nella contea Shropshire, situata tra Birmingham e Liverpool. Ma molti dei presenti venivano, quel giorno, dalla distante capitale londinese, per onorare il veterano di tante battaglie, tra la guerra in Crimea, nel Bhutan e quella boera tra le diverse forze coloniali in competizione per l’Africa. L’argomento di molte conversazioni, per questo, era lui: un guerriero straordinariamente opulento, giunto al suo ottantesimo compleanno (era nato nel 1800 esatto) e fin troppo felice di mostrarsi generoso verso parenti lontani, amici di famiglia e personalità conosciute nel corso della sua lunga carriera. La contessa di Cambridge rivolse uno sguardo complice al sorridente marchese di Londonberry, più giovane di lei di circa una decina d’anni. Donna sui 35 dai capelli raccolti ordinatamente sulla nuca, l’abito dal busto rigido e l’ampia tournure a forma di sellino, impacciato ornamento capace di rappresentare un significativo passo avanti, rispetto alle rigide crinoline di appena una decade prima. “Ah, si? Interessante… E tu, hai mai sentito parlare dell’anziano eremita? Si dice che sotto il giardino della tenuta viva un personaggio barbuto, dedito alla meditazione nel nome di Nostro Signore. Ma nessuno lo vede da parecchi anni…” Il marchese in abito scuro, la tuba sottobraccio in attesa di un servo per prelevarla e portarla nel guardaroba annuì sapientemente, facendo ricorso alla sua conoscenza enciclopedica della storia di Caynton, il vicino villaggio interconnesso alle sue proprietà ereditarie da una fitta rete di relazioni interpersonali e forniture agricole di vario tipo: “Eccome, mia cara! Ti dirò di più, l’ho anche conosciuto. Era l’epoca del grande Heneage Legge, fratello di Arthur, quando egli fu membro rappresentate di Bradbury in parlamento. Allora io avevo appena una quindicina d’anni, e mio padre venne qui, per una festa del tutto simile a questa. Così fui accompagnato a conoscerlo. Conoscere l’eremita” Fece allora una pausa ad effetto, alzando il dito verso il boschetto che si trovava a nord dell’area illuminata dalle lampade ad olio. “Viveva proprio laggiù.” Lei sorrise a metà, non sapendo se credere o meno all’andamento della bizzarra storia. Ma lui continuò: “Avrà avuto… Almeno 100 anni, trascorsi come ospite della famiglia Legge. Formalmente il suo ruolo era quello di giardiniere, ma tutti sapevano la verità. Il motivo per cui, mezzo secolo prima, gli era stato dato il permesso di scavare una profonda caverna…”
La serata progredì normalmente, tra bevute, un buffet all’inglese e conversazioni amabili, seguìto da un breve discorso del venerabile colonnello, che argomentò sull’eternità del potere imperiale in confronto alla mera transitorietà della vita umana, che si esaurisce come una fiamma nel vento autunnale. Fu allora che la contessa, soltanto lievemente alticcia, incontrò di nuovo il marchese, intento ad osservare pensosamente le stelle in cielo. Toccandogli lievemente il braccio sinistro, gli sussurrò quindi all’orecchio: “Portamici. Voglio vederla.” Un guizzo furbesco e uno sguardo carico di sottintesi. Quindi l’espressione che si fa improvvisamente seria: “Va bene, vieni con me.” I due camminarono dritti fino ai margini del cortile, scavalcando una bassa siepe d’agrifoglio. Lui prelevò una torcia anti-vento tra le svariate dozzine, confidando che nessuno l’avrebbe notato. Il canto sincopato di un gufo era chiaramente prossimo, a questo punto, mentre un miliardo di fruscii sembravano accentuare l’aria carica d’elettricità potenziale. Il marchese sembrava seguire una sorta di mappa del tesoro, chiaramente impressa nella sua mente. Due passi a destra, uno a sinistra. Avanti dopo la grossa pietra dalla sagoma simile a un elegante aquila d’oro. Giù nel piccolo dirupo. Galantemente, offrì la spalla alla contessa per scendere coi suoi alti stivaletti, davvero poco adatti ad una scampagnata notturna. La mano sinistra, rigorosamente occupata per tenere sollevata almeno in parte la gonna, ormai irrimediabilmente piena di polvere e macchie d’erba. Abbassando quindi la luminaria fino a una bassa collinetta, la puntò verso un angusto pertugio: appariva chiaro che per entrare, sarebbe stato necessario chinarsi. “È sempre stata… Così?” Spiacevole. Ma era impossibile a quel punto, tirarsi indietro. La marchesa chinò le spalle a 75 gradi, seguendo il netto contorno del bagliore artificiale, in un tenebroso spazio che pareva ampiarsi ad ogni singolo passo compiuto verso le viscere della terra stessa. “Non preoccuparti. Più avanti il soffitto si alza, vedrai. Ci sono strane incisioni sulle pareti, ed archi scavati nella pietra. Vedrai che ne vale la pena. È una cosa davvero…” Un poco alla volta, la contessa osservò la sagoma del giovane dinnanzi a se farsi evanescente, quindi sparire nella foschia. Soltanto la luce rimaneva sospesa, come un punto sicuro nell’universo. Alle spalle ed ai lati, il nulla. C’era una voce distante, come un canto che sembrava invitarla a mettere un piedi dinnanzi all’altro…

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