Nel mare d’erba un cavaliere solitario. La statua inossidabile del supremo simbolo della Mongolia

Una sensibile percentuale dei turisti avventurosi che raggiungono la capitale mongola di Ulan Bator, dopo un breve periodo di acclimatamento, tendono a riportare l’impressione combinata di fattori ed elementi di sicuro interesse, accompagnati da un latente senso di degrado situazionale. Con pochi elementi culturali distintivi a dominare lo scenario urbano, notoriamente sovraffollato e dalla qualità dell’aria meno che ideale, proprio a causa dei sistemi di riscaldamento antiquati utilizzati nell’unico quartiere “storico” occupato dalle ger, tipiche case circolari simili a tende, anche dette yurte nel catalogo delle soluzioni abitative oriunde internazionali. Il che offre anche un significativo indizio su quale sia lo spirito di quel paese e di coloro che ancora oggi ne occupano l’antico suolo, i membri di una società per cui lo stile di vita migratorio, come pastori da principio ed abili guerrieri a partire dall’epoca medievale, fu da sempre la chiave di volta necessaria all’istituzione di valori e pratici sistemi applicati allo stile di vita condiviso. Ed è forse con un occhio di riguardo in tal senso, che un gruppo d’investitori privati a partire dall’anno 2000 si trovò ad elaborare un piano preciso. Finalizzato a porre in essere, ad un’appropriata distanza dai confini cittadini, un simbolo importante che potesse rendere palese l’auspicato ritrovamento di un latente senso d’orgoglio nazionale, forzatamente spostato in secondo piano durante i lunghi anni del Socialismo tra il 1924 ed il 1992. Aspetto concentrato nell’unica figura possibile, ovviamente, del supremo condottiero celebrato al tempo stesso come liberatore e distruttore, portatore di civiltà e nemico del barbarismo. Eppure barbaro egli stesso, come riportato da numerose fonti coéve, nell’aver condotto il più sanguinario degli eserciti tra l’inizio e il primo terzo del XIII secolo. Ma in che modo, davvero, tale considerazione dovrebbe ridurre di un qualsiasi punto percentuale l’enorme portata dei suoi molti traguardi a beneficio di coloro che gli furono fedeli?
Questa l’implicita domanda che veniamo indotti ad esaminare da ogni angolazione, scorgendo la gloriosa statua equestre dell’altezza di 40 metri, posta sopra un piedistallo d’ulteriori 10, raffigurante Genghis Khan sul suo cavallo in questo sito rilevante per la sua leggenda, la vasta pianura erbosa di Tsonjin Boldog. Proprio là dove si narra, egli ebbe a ritrovare casualmente, o per un caso scritto nel destino, un magnifico frustino d’oro (o d’argento) destinato a diventare il simbolo portato in mano del suo incontrastato potere. Incorporato nella statua in tutto il suo splendore in acciaio SUS 304, così come l’uomo ed il cavallo che ne costituiscono le parti maggiori. Capaci di brillare all’orizzonte, nel modo di un moderno transatlantico tra onde lontane…

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La vorace pinza che separa la biomassa delle cozze dalle proprie perpendicolari dimore

Svolgi un compito ripetitivo per 10 mesi ed i gesti inizieranno a sovrapporsi, diventando un solo fluido movimento. Fallo per 10 anni affinché l’economia dei movimenti, la precisione e la rapidità permetteranno agli altri di chiamarti finalmente “bravo”. Ma dopo una generazione o due, i tuoi eredi avranno voglia di cambiare musica e le regole del gioco. Cercheranno… Scorciatoie. Questa è la natura fondamentalmente utile della ricerca tecnologica frutto del pensiero umano, Mai pensato in questi termini? Perché faticare il doppio, se in quel tempo dedicato puoi raggiungere lo stesso obiettivo. Procedendo dritto verso l’obiettivo, grazie all’uso del perfetto meccanismo situazionale. Una barca, dopo tutto, ha sempre fatto parte del processo necessario a snudare una matrice di tronchi emergenti, le cui fronde sono le pulsanti, filtranti e rigide creature figlie delle onde e del sale. Ciò che cambia è solamente COSA trova posto su quel ponte, in mezzo a reti, remi, rande d’ordinanza. Laddove un pesante braccio semovente, a propulsione idraulica, si erge al giorno d’oggi per cercare il fondamento di quelle ore non troppo gentili. Ed è sempre un’esperienza, per turisti e osservatori d’occasione, scorgere l’oggetto terminale mentre cala sopra la foresta e serra i propri denti attorno alla tenace superficie bitorzoluta. Stringendoli dentro l’abbraccio del Demonio, riservato a chi ha raggiunto le ore necessarie all’interno di un particolare girone infernale.
Cambio di scenario, dunque. E via, verso il deposito che si apre dalla stiva oscura, per migliaia se non milioni di mitili, destinati a ritrovarsi sulla tavola di mezza Europa e non solo.
Ciò che abbiamo visto, in tale breve video d’apertura, altro non rappresenta in effetti che una scena quotidiana nel periodo tra giugno e gennaio, quando sulla costa dell’Atlantico francese (ed in minor misura, in Olanda e Belgio) si perpetua l’esperienza pluri-secolare di raccolta del Mytilus edulis o cozza comune, antonomasia al tempo stesso per mancanza di prestanza esteriore ed un piatto apprezzabilmente saporito, il cui aroma non può fare a meno di evocare nella mente immagini del vasto ed azzurro mare. Non che debba esserci per forza niente di poetico in questa raccolta, nevvero? A patto che si tratti di un processo sostenibile, che non danneggia l’ecosistema e l’ambiente, come ben possiamo dire del sistema cosiddetto a bouchot (recinto di pali) contrapposto al tipico allevamento sul fondale marino. Le cui radici affondano, a voler essere precisi, ben oltre i confini dell’ormai remota epoca medievale…

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Tra Orco e Sfinge, l’alto bastione costruito sulle Alpi per scrutare il cielo notturno

L’elevata concentrazione di edifici in un luogo giudicato fortemente ambìto tende a spesso a richiedere competenze ingegneristiche dall’alto grado di specificità. Il che trova sostanziale applicazione anche dove l’opera dell’uomo si erge solitaria, qualora il sito di riferimento sia eccezionalmente inaccessibile e/o remoto. Così come l’isola statunitense di Manhattan a New York, l’alto territorio delle Alpi Svizzere divenne sul principio del XIX secolo un punto d’incontro per pionieri, inventori e scopritori di cosa fossa effettivamente possibile, a fronte di uno studio sufficientemente approfondito sopra i tavoli della progettazione funzionale a uno scopo evidente. Con un preciso evento nobile ad aprire i giochi, nella possibilità presente: l’ascesa nel 1787 di Horace Bénédict de Saussure sulla cima del Monte Bianco. A diffondere l’interesse collettivo nei confronti del cosiddetto “Tetto d’Europa” motivando l’edificazione d’infrastrutture adeguate a renderlo accessibile, per quanto possibile, a coloro che intendevano sperimentare in prima persona l’emozione di una tale posizione di preminenza. Fu quella l’epoca, approssimativamente, in cui svariati picchi del paese assunsero dei nomi in qualche modo interconnessi alla mitologia della regione: luoghi come l’Eider (Orco/Orso) il Cervino, punta Parrot (Pappagallo) ed il Pilatus, anche detta la montagna del Drago. Chiunque dovesse salire sopra uno di essi al giorno d’oggi, tuttavia, e guardare in direzione della massiccio a forma di sella del Jungfraujoch, potrebbe ritrovare un qualche tipo di difficoltà a ricondurne la rocciosa preminenza della Sphinx (Sfinge) a forme familiari di eminenti statue egizie sulla piana di Giza. Questo perché sopra di essa, ormai da quasi cento anni, si erge un presenza in muratura sormontata da una cupola evidente; la diretta risultanza del sogno di un singolo uomo. Che riuscì a creare un’opportunità, dove vigevano nelle ore precedenti unicamente il dubbio e la titubanza.
Citiamo dunque il nome di Adolf Guyer-Zeller, industriale a capo di una ditta di opifici tessili del cantone di Zurigo, che aveva studiato economia e geologia a Zurigo. Una combinazione niente meno che ideale, per riuscire a coltivare e portare a compimento quello che potremmo definire il suo maggior lascito nei confronti della Nazione: il copioso investimento nelle ferrovie durante il corso della seconda metà dell’Ottocento. Con un particolare occhio di riguardo all’avveniristica Jungfraubahn, pista ferrata grosso modo corrispondente a quello che nei tempi antichi si teorizza fosse stato un alto passo per viaggiatori più intraprendenti. Destinato a diventare un placido appannaggio di chiunque nonché, come aveva previsto il committente prima della propria dipartita nel 1899, gli studiosi della scienza pura ed ogni aspetto che connota l’effettiva posizione della Terra nell’Universo…

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La vita nel quartiere suburbano dove l’hangar nel vialetto è raggiungibile direttamente dall’aeroporto

L’affermazione che “Lo spazio è il punto di vantaggio definitivo” costituisce un tema ricorrente nella pianificazione strategica statunitense, rievocato in successive circostanze al fine di giustificare o motivare determinati investimenti. Ed anche dal punto di vista della popolazione civile, è indubbio che particolari risorse, come il ricco archivio di foto satellitari liberamente accessibile su Google, permetta di comprendere immediatamente certi aspetti del mondo e della società che ci circonda. Basta cercare online, per dire, il tipico quartiere periferico di una grande città nordamericana al fine di coglierne immediatamente il carattere e lo stile di vita: villette a schiera dalla disposizione equidistante, ciascuna con il proprio prato verdeggiante mantenuto attentamente alla stessa altezza. Relativamente poche automobili parcheggiate ai lati della strada (i marciapiedi sono quasi inesistenti) semplicemente perché gli abitanti possono disporre dello spazio di un garage di proprietà, o quanto meno l’area dedicata nell’appezzamento circondato dalla siepe o staccionata d’ordinanza. Spostando la nostra lente indagatrice digitalizzata presso il vicinato di Cameron Park, 50 Km ad est del centro di Sacramento, è possibile notare fin da subito i diversi punti divergenti dalla convenzione abitativa di questi luoghi. Tanto per cominciare, l’anormale vicinanza a quella che può essere soltanto una pista d’atterraggio e decollo, suscitando l’immediata domanda su perché la gente di qui abbia deciso di tollerarne il rumore. Quindi le strade large circa il tre o quattro volte più del normale, alludendo alla frequente e reiterata manovra di veicoli molto più larghi del normale. La cui natura, proseguendo nell’osservazione, apparirà ben presto evidente; non tutti, d’altra parte, tengono le proprie ali sotto un tetto, rivelando nella vista perpendicolare l’inconfondibile presenza cruciforme di apparecchi concepiti per il volo privato, con carlinga, cabina di pilotaggio ed elica posizionata di fronte al muso aerodinamico di ciascun implemento. E ce n’è davvero un po’ per tutti i gusti, dai piccoli aerei da turismo Cessna e Piper, a velivoli dotati di alte prestazioni quali Cirrus e Mooney, fino ad esemplari vintage risalenti a decadi trascorse, inclusi residuati funzionanti del secondo conflitto mondiale. Ma guardare da lontano questo repertorio statico è soltanto una minima parte della storia. Comunità cosiddette fly-in come un tale angolo di California meritano di essere sperimentate direttamente, vivendo in prima persona la surreale atmosfera di un luogo dove le automobili circolano fianco a fianco agli aeroplani. Almeno fino al raggiungimento dei due semplici passaggi a livello, che consentono soltanto ai primi di trovare accesso all’ultimo tragitto da percorrere prima di riuscire a separarsi dal terreno. Lasciandosi alle spalle ogni residua prospettiva del traffico dell’ora di punta, o i limiti di velocità stradali…

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