Luce verde negli abissi per lo squalo fluorescente

Forse avrete sentito parlare del dato, conclamato da alcuni glottologi e studiosi di sociologia, secondo cui la lingua modifica le doti inerenti degli esseri umani. Così che in determinate aree geografiche, in base alla lingua parlata, si è soliti identificare un numero variabile di colori, in base alla quantità di termini ereditati dai propri predecessori. Nel Berimo, idioma della Papua Nuova Guinea, esistono ad esempio soltanto cinque parole usate per riferirsi ai colori primari, ed è stato provato che i parlanti non riescono a identificare l’intero spettro a noi noto. Nello Tsimane invece, usato solamente da alcune tribù dell’Amazzonia, i termini si riducono soltanto a tre, portando le persone a identificare ogni cosa con una variante dei colori nero, bianco e rosso. Ben più celebre è invece il caso all’inverso degli Inuit, dei quali si è soliti dire che posseggano oltre 50 parole per riferirsi alla parola “neve” in base a consistenza, tonalità, sapore… Ma che dire, invece, delle percezioni di una creatura che è inerentemente dotata di un senso della vista meno sensibile? Possibile che ciò diventi, in determinate condizioni, un punto di forza?
Di sicuro non diremmo che lo squalo, predatore degli abissi per eccellenza, possa necessitare di ulteriore assistenza nella progressione dei propri giorni, vista la straordinaria efficienza dimostrata dagli appartenenti all’ordine dei  Selachimorpha nel trovare, addentare e fagocitare la preda di turno. È sbagliato tuttavia, quanto parlare di una generica “cultura eschimese” riferita a un’amalgama non meglio definito di popoli siberiani, nordamericani e delle isole Aleutine, riferirsi agli “squali” in quanto tali, quando si sta in effetti parlando di un superordine risalente ad oltre 420 milioni di anni fa, i cui appartenenti hanno mostrato negli eoni le più variabili caratteristiche e propensioni. Vedi, quest’oggi, il Cephaloscyllium ventriosum, talvolta detto swell shark (squalo “gonfiabile”) in realtà il più timido, guardingo e timoroso degli animali abissali, lungo una media di 100 cm e per questo facile preda d’incubi dentati ben più feroci di lui. Pesce cartilagineo le cui propensioni includono, come esemplificato dal nome comune della specie, quella d’ingurgitare una grande quantità d’acqua quando si sente minacciato da foche o altri squali, onde aumentare le proprie proporzioni e restare quindi incastrato nel pertugio roccioso in cui tende subito a rifugiarsi. Ma lo squalo gonfiabile, come è stato dimostrato dal fotografo marino David Gruber a partire dal 2016, può rappresentare molto più di questo, nello studio e comprensione di come si svolga in effetti la vita tra i 300 e i 460 metri di profondità. Dove soltanto la minima parte della luce di superficie riesce a penetrare, ed in particolare quella che permette di percepire i colori tendenti al blu. Sarebbe lecito chiedersi, dunque, perché mai gli studi anatomici abbiano permesso di scoprire all’interno degli occhi di questi squali particolari tipi di fotorecettori a bastoncello, capaci di percepire ed effettuare distinzioni tra le più piccole variazioni verso il verde che a quanto ne sappiamo, neppure dovrebbe esistere fin quaggiù. Dopo aver elaborato alcune teorie di natura per lo più empirica (studiare la vista altrui non è mai semplice) proprio al succitato naturalista è venuto in mente di attrezzarsi con una telecamera impermeabilizzata, dotata di speciali filtri per la luce in grado di ridurre la quantità di colori che avrebbero raggiunto il sensore di registrazione. Portato quindi l’equipaggiamento nel Canyon di Scripps, a largo di San Diego, e iniziata l’immersione, ciò che si è palesato dinnanzi ai suoi occhi è stato uno spettacolo assolutamente inaspettato: piccole scintille, remoti bagliori, numerosi baluginii distanti, provenienti dalle forme di vita più disparate. Tra cui l’anguilla Kaupichys, di cui sappiamo molto poco, e in seguito svariate tipologie pesci lucertola (Synodontidae) alghe, coralli e persino tartarughe marine. Ma soprattutto, a colpire la fantasia popolare sarebbe stata la serie di foto scattate al succitato predatore degli anfratti rocciosi, la cui particolare livrea, mediante il filtro in grado di riprodurre il funzionamento dei suoi stessi occhi, si sarebbe d’improvviso ricoperta di punti, cerchi e linee, evidentemente finalizzati ad accrescere le sue capacità mimetiche in un ambiente, in definitiva, molto meno buio di quanto noi fossimo propensi a credere originariamente. Gli etologi, ad ogni modo, non hanno tardato ad ipotizzare un’ulteriore possibile ragione per questa imprevista quanto particolare dote…

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