Cannoni cinesi per cuocere il pop corn

Chinese cannon

Ah, si. Non c’è niente di meglio che l’odore dei Corn Flakes appena cucinati, possibilmente con un rombo di tuono, polveri e fuoco fiammeggiante per le strade di Pechino e di Shanghai. Profuma di…Eccellenza. Perché pare, almeno a giudicare da una grande quantità di video a tema seminati su YouTube, che la cannonata del Gianicolo di mezzodì, quella tradizione antica dei romani, si ritrovi anche in giro per le metropoli dell’Asia e replicata 10 o 100 volte l’ora, grazie alla sapiente mano, l’opera di un certo tipo di ambulanti. Sarebbero, costoro, gli artiglieri dello snack, ovvero l’alternativa bellica ai nostri mastri delle caldarroste. Li riconosci soprattutto dal coraggio. Non indossano tute balistiche di nessun tipo.
Ed infatti eccone uno, seduto come niente fosse a lato di un viale di alta percorrenza, accovacciato sul selciato accanto al suo strumento da battaglia: l’unione perfetta di un girarrosto ed un boccale del tuono, ovvero la piccola bombarda che all’epoca sparava in aria salutando il comandante di marina. Sotto c’è un fornello rugginoso, annerito dai lunghi anni di utilizzo, mentre accanto all’uomo giace, apparentemente dimenticato, un grosso sacco per la spazzatura. Presto sarà chiaro il suo utilizzo. Intanto, diciamolo pure: ce lo vedresti un tale individuo, benissimo, sul cassero di un brigantino, oppure tra le merlature di un massiccio forte di montagna, pronto a respingere i barbari del nord. Ma il suo campo di battaglia è differente, come appare ben chiaro al momento in cui carica le sue dorate munizioni. Il blogger viaggiatore Théo Paul, che passava di lì verso dicembre scorso, ci dimostra i metodi di una tale tecnica culinaria, invero senza termini di paragone. Questa tipologia di pentole a pressione cinesi, dall’aspetto alquanto formidabile, è stata spesso definita in Occidente con l’appellativo improprio di “cannone del pop corn”. Ciò nonostante il fatto che, ad un’analisi più approfondita, sia stata concepita per cuocere un diverso vegetale: serve, chi l’avrebbe mai detto, a far scoppiare il puro riso.

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Roboagenzia di collocamento: doppia assunzione

Fun with robots

Bangokok la splendida, città fragrante, antica capitale e moderna metropoli tailandese. Sulla spaziosa Via Rama III, un lungofiume del sacro Chao Praya, campeggia coloratissimo ristorante giapponese della tipologia Yakiniku, di quelli dove si mangia la carne grigliata. Dietro al bancone c’è un samurai silenzioso, con un televisore a fargli da testa, due grossi occhi da cartone animato e un look, nel complesso, non dissimile dal celebre Marvin il Marziano. La sua armatura storicamente accurata, rossa, gialla e oro, non sfigurerebbe sui lontani campi di battaglia del turbolento XVI secolo, tra i molti signori sconfitti da un grande conquistatore, placati dal diplomatico taiko e infine dominati dallo shōgun paziente, sul canto finale di un usignolo assai lungamente atteso. Tale redivivo guerriero, in anacronistica effige metallica, senza la spada simbolo del suo rango, non è li per combattere a beneficio dei suoi precedenti signori. Percorre, piuttosto, una Via di benevolenza e altruismo. Il solenne sentiero del cameriere automatico, vera star della scena ristoratrice.
Di questo curioso figuro meccatronico, nonché del suo identico collega, ne parla diffusamente Bangkok.com, nella sottosezione del portale dedicata alle ultime curiosità cittadine. Insieme, i due pupazzi costituiscono la principale attrazione di Hajime, un popolare bistrò etnico dedicato al più remoto arcipelago d’Oriente, molto amato da grandi e piccini. Ci si siede ai tavoli, ciascuno dotato del tradizionale barbecue, da usarsi per cuocere personalmente alcuni degli ingredienti del proprio pasto, tra cui carne di maiale, manzo, pollo e verdure. Si effettua quindi l’ordine, usando l’apposito tablet di supporto. E poi ci si mette a guardare il robot, piuttosto a lungo, pare. Dicono, infatti, che il servizio non sia velocissimo, con i suoi quasi 20 minuti di attesa. Probabilmente, il collo di bottiglia si trova in cucina. Jigou jitoku, significa: quello che fai, è ciò da cui trarrai beneficio. Mai e poi mai un depositario di tradizioni millenarie, come quell’androide samuraico, dimenticherebbe tale nipponico assioma.
E poi, mettiamoci pure che i robot non falliscono mai (il più delle volte). Ecco, questo è l’aspetto interessante, di simili iniziative commerciali: il puntare a un tratto emergente della cultura dei nostri giorni, ovvero la sempre maggiore fiducia popolare nell’automatismo. Fino a qualche anno fa, una simile idea, di farsi portare il cibo da un robot, avrebbe fatto alzare più di un sopracciglio. Figuriamoci poi, affidare ad un suo simile la direzione del traffico, in un incrocio davvero problematico…

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Mangiando hamburger con la bocca chiusa

Liberation Wrapper

Sopra la porta del tempio di Tōshō-gū, a  Nikkō, in Giappone, da quattro secoli ci sono tre scimmiette del tutto denutrite. Non mangiano panini. Né patatine fritte, né tantomeno le banane. Non si muovono e non producono alcun suono. Di una simile abulia però non c’è molto da stupirsi, visto che sono -ohibò!- di legno. Questi sono i loro nomi: Mizaru (non vede) Kikazaru (non sente) Iwazaru (non dice). Sono famosissime. Le troviamo raffigurate nei fumetti, sui libri e sui diari, nelle agende e appiccicate, come adesivi, alle carrozzerie di molte auto, avviate per le strade più diverse. Il Mahatma Gandhi, che notoriamente rifiutava ogni forma di possesso, era solito conservarne una piccola riproduzione statuaria, da contemplare. Ed è sorprendente l’importanza che può avere una simile minuzia, nella vita di una figura storica importante. Perché ci ricorda che il cervello umano lavora per immagini ultra-chiare, o per meglio dire: icone. La gestualità delle tre scimmie, ciò che fanno con le mani, è una potente allegoria. Il cui significato, come spesso capita, può venire diversamente interpretato. Le tre dottrine principali dell’Estremo Oriente, confuciana, taoista e buddhista, concordano su questa versione: Mizaru non vede (il male), Kikazaru non sente (il male), Iwazaru non dice (il male). Per il resto, tutto OK. Sono, queste scimmiette collettivamente note con il termine Sanzaru, una metafora personificata di animale probità, preziosa proprio nel suo essere fine a se stessa. La cultura popolare d’Occidente, che non può fare a meno di chiedersi “Perché lo fanno?” Di questi tempi vi ha costruito sopra uno stiléma, spesso ripetuto. Nei drammi criminali, tra prigioni e aule di giustizia, anti-eroi di dubbia moralità le invocano imitandole scherzosamente, a suggestione d’omertà. “Una mano lava l’altra, bro! Oh, qui nessuno ha visto nulla, stai tranquillo!” Come al cinema, nei videogiochi. Succede pure in GTA 5. E per un attimo persino Trevor, il più squilibrato degli alter-ego ludici di quel settore, smette rispettosamente di parlare.
Vorrei aggiungere la mia versione. Perché nel caso della terza scimmia, quella che si copre la bocca, c’è uno spunto d’approfondimento. Fin dall’epoca di Nara (710– 794) sussiste in Giappone il più curioso dei pensieri. Che i denti umani siano brutti, a vedersi; o quanto meno, ineleganti. Per questo la moda dei nobili di corte, nel periodo immediatamente successivo, imponeva che si tingessero di nero. E i samurai portavano un ventaglio, per coprirli, o usavano la manica del kimono. Ancora oggi, di una simile stranezza culturale, se ne vedono gli effetti, però ridotti al solo mondo femminile, più affine al concetto universale di graziosità. E come si usa dire: “Monkey see, monkey do…”

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Becky cucina la vongola gigante

Geoduck

La lingua, molle, floscia o rigida all’occorrenza, costellata di papille e lustra di tiepida saliva, può metabolizzare vie d’accesso per mondi lontani, sapori e gusti misteriosi. Nel contempo, regolarmente, restituisce suoni multiformi, lunghe parole, storie. Quelle, per l’appunto, dei veterani marinai. Quante città costiere o porti commerciali, sono diventati il palcoscenico d’improvvisate rappresentazioni teatrali, a luce di lanterna, mentre fuori batteva pioggia e dentro scorreva birra, di mostri marini, kraken imponenti e divinità chtonie provenienti da stelle nebulose…Quanti capitani gamba di legno, corsari dall’occhio bendato, pirati col pappagallo, hanno scritto di una loro balena leggendaria, gloriosa nemesi e paragone d’empietà! Eppure stranamente, come spesso capita, da sempre, mancavano le prove. L’eterno destino dei criptidi (bestie parascientifiche) è quello di comparire soltanto in fotografie sfocate, video rovinati oppure, prima che s’inventassero simili cose, unicamente nel regno della nostra fantasia. Tranne che in un caso.
Camminando sul molo 54 della città Seattle, insidiati dai freddi venti del Pacific Northwest, l’impreparato visitatore potrebbe scorgere un portale fuori luogo. Di fronte a una casupola isolata, due svettanti totem colorati, sormontati dal fregio di un’ellenico Partenone, però rivisto con il gusto decorativo degli indiani Cherokee. E non è una visione. Si tratterebbe, in effetti, del celebre Ye Olde Curiosity Shop, istituzione più che cententaria, negozio di gadget, souvenir, ammenicoli e altre facezie oggettistiche di varia provenienza. Qui, sopra una mensola, dentro un barattolo di trielina, viene custodito l’esemplare di vongola più grande del mondo. Venne trovato, strappandolo dalle profondità stesse della terra, nel 1978, presso la gelida insenatura di Puget, al confine tra lo stato di Washington e la Columbia canadese. Al momento della sua prematura morte, pesava quasi 5 chili ed aveva, secondo stime accreditate, 168 anni d’età. Lo stesso attimo in cui nacque questo favoloso essere, un giovane Lord Byron attraversava a nuoto i Dardanelli. Napoleone sposava Maria Luisa d’Austria. Straordinario, in particolare, è che tale innocuo mostro non fosse l’unico al mondo. Ce ne sono molti come lui. Migliaia, milioni. Chi mai potrebbe uccidere qualcosa di tanto antico e saggio? Molti, a quanto pare. Per esempio, Becky.

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