L’uomo che costruì un castello di corallo usando l’energia magnetica dell’Universo

“L’ho visto, vi dico” Era un giorno come gli altri verso la metà degli anni Trenta, quando l’abitante in cappotto di cammello di Florida City, oggi un semplice sobborgo di Miami, di fronte ai propri amici radunati nel tipico diner sull’interstatale, decise finalmente di narrare il proprio aneddoto più impressionante. “Era tarda sera e guidavo lungo il perimetro della sua proprietà, per tornare a casa da una lunga giornata in ufficio. Ma c’era la luna piena, e vidi bene quello che stava accadendo, dietro quel suo alto muro di pietra. Così fermai la macchina a lato della strada, per capirlo meglio.” I suoi cugini, colleghi e il gruppo del baseball tacquero istantaneamente: persisteva un certo alone mistico nelle attività del nuovo inquilino dei terreni di R. L. Moser, che i vicini chiamavano “il Leprecauno” per la sua bassa statura e i lineamenti a quanto pare simili a quelli di un leggendario folletto irlandese. Anche se veniva, in effetti, dall’Est Europa. “Al centro del giardino c’era quell’Ed Leedskalnin, con le braccia sollevate a 45 gradi, lo sguardo fisso in senso opposto al punto in cui ero posizionato. Chiaramente concentrato in qualche tipo di attività…Segreta” Il vecchio Jenkins gettò indietro il capo, come a indicare “Lo sapevo!” Mentre emetteva uno sbuffo d’aria dagli angoli di un sorriso mentre suo nipote continuava a raccontare: “In un momento in non passava nessuno, sentii chiaramente il suono ritmico di un macchinario. Ma dopo qualche attimo capii che si trattava di una voce umana. L’uomo stava cantando! Cantando, vi dico!” Il narratore rievocò la scena nella sua memoria: “Di fronte a lui, tinto di una tenue luce biancastra, l’oggetto più incredibile: una pietra fluttuante in aria, come un dirigibile. Sarà pesata… Almeno 10 tonnellate!” E qui, con un gesto magniloquente, impugnò il panino con l’hotdog dal piatto antistante, per impugnarlo a due mani come fosse una meteora del cosmo. “Una sorta di stregoneria continentale, ascoltate a me! Roba dell’altro mondo!”
E le voci corsero, come usano fare le voci, ed il racconto continuò a ingrandirsi mentre circolava tra le genti stranamente socievoli nella principale penisola meridionale della Costa Est. Fino a trasformare la vita di quell’uomo relativamente riservato, fin da quando si era trasferito dall’altro angolo degli Stati Uniti, ed a quanto pare per cercare un qualche tipo di sollievo dagli effetti cronici della turbercolosi, in una sorta di spettacolo per il pubblico ludibrio. E fu pressoché allora che l’immigrato lettone in questione, pienamente incline a fare proprio il tipico spirito imprenditoriale americano, iniziò farsi pagare un biglietto di 50 cents per visitare ciò che aveva costruito. Guadagnandosi una fonte di sostentamento che gli avrebbe consentito di vivere dignitosamente, fino all’ultimo giorno della propria non lunghissima vita. Si trattava, per usare il nome ufficiale benché fosse per tutti soltanto “il castello” della sua personalissima Rock Gate, una tenuta con giardino di sculture costruita interamente in pietra calcarea oolitica, lungo un periodo che si sarebbe esteso per oltre venti anni, facendo affidamento unicamente sulle proprie forze e una collezione di strumenti di tipo assolutamente primitivo: martelli, scalpelli, cunei e un’assortita collezione di paranchi. Niente di così eccezionale a dire il vero, se non fosse stato per le proporzioni letteralmente spropositate dei materiali coinvolti: pietre più alte ed imponenti di quelle utilizzate nella costruzione delle piramidi della piana di Giza o il cerchio druidico di Stonehenge. Tagliate, sollevate da una cava rigorosamente autogestita e in qualche modo trasportate fino in posizione, mediante l’uso di un sistema che sarebbe rimasto rigorosamente segreto. Alle domande dei suoi visitatori, che non riuscirono mai a vederlo lavorare per l’abitudine di farlo unicamente dopo il tramonto, Leedskalnin era solito dire: “Non è difficile sollevare grandi carichi, basta sapere come fare. Io ho compreso le leggi del peso e della leva e conosco i segreti degli antichi.” Una risposta che in realtà spiegava molto poco, ma che sarebbe stata coadiuvata dalla sua pubblicazione di cinque differenti testi, ingegneristici e filosofici, destinati ad essere venduti nel negozio per la gente che veniva a vedere il castello. Saggi dedicati ai più diversi argomenti, dall’educazione morale alla gestione dello stato, fino alle sue teorie più significative sul funzionamento fisico dell’universo stesso. In una visione che elevandosi da qualsiasi applicazione eccessivamente stringente del metodo scientifico, appare come una versione coadiuvata dalle conoscenze di epoca moderna della cosmogonia di un filosofo del mondo greco o latino…

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Amore di una mongolfiera: trovato marito per la materna balena dei cieli

Ogni città ha il suo simbolo, un punto di riferimento dall’alto grado di visibilità internazionale custodito nella memoria collettiva geografica, capace di costituire un formidabile pretesto per coloro che desiderano viaggiare per conoscere, scoprire e approfondirne il paese. Per alcuni luoghi si tratta di antichi monumenti, per altre di moderni grattacieli, mentre luoghi come Dubai possiedono una letterale cornucopia di meraviglie futuribili e del tutto prive di un contesto. La capitale australiana Canberra, luogo stranamente poco conosciuto da chi abita fuori dalle sue immediate vicinanze, vanta dal suo centenario del 2013 una grande tartaruga fluttuante piena d’aria calda, dal volto sereno e l’indole pacifica, ornata da cinque seni penduli per lato, dall’aspetto stranamente e sorprendentemente umano. Creatura surreale e che potremmo definire assolutamente aliena, se non fosse per l’evidente senso d’empatia e cordialità che riesce ad emanare, come avviene del resto per molte delle opere della sua creatrice, l’artista originaria della Sierra Leone Patricia Piccinini, famosa per la grande quantità di statue iperrealistiche vagamente riconducibili al mito letterario dell’isola del Dr. Moreau. “La scienza è andata troppo oltre?” Recitava un famoso banner pubblicitario dell’inizio degli anni 2010 chiaramente mirato a shockare i navigatori del web, con la figura sottilmente inquietante di quella che avremmo potuto definire come una vera e propria donna-cane sdraiata a terra, totalmente glabra e di colore rosa chiaro, dalle grandi orecchie, il naso largo ed un’espressione simile alla preoccupazione materna. La cui nudità, in effetti, trovava ampia giustificazione nei tre cuccioli/bambini intenti a prendere il suo latte, nella versione surreale di un vero e proprio quadretto di famiglia meta-umana. Nient’altro che un’appropriazione indebita, in effetti, e totalmente senza alcun permesso dell’autrice, di una delle sue opere di maggior impatto visivo e facente parte della sua mostra del 2003 “We Are Family” con un messaggio ed un significato simili, all’origine, alla svolazzante mongolfiera Skywhale.
O forse sarebbe più appropriato, al giorno d’oggi, parlarne al plurale? Da quando a febbraio di quest’anno, completando un lungo percorso di autorizzazioni cittadine, preparazione tecnica e lavorazione attentamente coordinata, la notevole creatura si è guadagnata anche un suo partner a tutti gli effetti, definito dall’artista in modo alquanto semplice come Skywhalepapa, benché notevoli distinguo vadano attribuiti rispetto all’antecedente creazione ed il tipo di messaggio veicolato nel suo complesso. Posizionato in modo prettamente verticale e insolito per una simile tipologia d’aeromobile, comportando ulteriori complicazioni dal punto di vista ingegneristico, la notevole figura vanta infatti un paio di braccia dall’aspetto muscoloso, sotto le quali ospita una serie di piccoli della sua specie aerea ben protetti da qualsiasi tipo di minaccia e intenti ad osservare attentamente il panorama. Figli suoi, della pettoruta controparte o altri membri di quel branco immaginifico e volante, non è in effetti specificato e la stessa artista si preoccupa d’evidenziarne la qualifica indefinita, perché le due opere non vengano considerate una rappresentazione del concetto di famiglia in quanto tale, bensì quello di un’istinto protettivo verso le nuove generazioni, che risulti essere del tutto universale per qualsiasi gruppo di animali a noi noti. In tale qualifica, Skywhale e il suo consorte s’inseriscono in una poetica comunicativa che è al centro stesso della missione d’artista di Patricia Piccinini, preoccupata non soltanto da questioni relative all’evoluzione delle specie ed il transumanismo, ma anche e soprattutto dal portare l’attenzione del suo pubblico a quel senso d’empatia che è una delle regole fondamentali di ogni tipo d’interrelazione con altri esseri viventi, non importa quanto strani, diversi o inumani nei loro comportamenti e storie personali pregresse. Una visione che potremmo definire estremamente utile, in questo mondo in cui il profitto immediato domina sopra il bisogno di tenere vivo e florido il grande albero dell’Esistenza…

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Le notevoli avventure di un onesto cercatore dei folletti d’Inghilterra

Il senso di scoperta, la curiosità, l’intraprendenza. Ma soprattutto, la comprovata capacità di non uscire MAI dal personaggio, essendo il primo a prendere sul serio, ancor più dei propri spettatori, l’improbabile serie di scoperte ed incontri che tendono a verificarsi, senza falla, sul finire dei suoi brevi resoconti video all’interno di alcune delle più notevoli foreste d’Inghilterra. Perché ci sono già fin troppe creazioni artistiche diffuse a mezzo web, che sostanzialmente non sono altro che una trasposizione digitale di modalità espressive già esistenti: persone che dipingono, scolpiscono, costruiscono costumi sotto l’obiettivo della videocamera, mentre schiere di commentatori danno il proprio contributo enfatizzando i meriti dell’uno o l’altro creativo. Mentre quasi nessuno, nel vasto e variegato universo di Internet, si preoccupa di trasportare chi ha intenzione di seguirlo all’interno del proprio stesso mondo, nella maniera in cui riesce notevolmente a fare Erwin Saunders, misterioso personaggio comparso su YouTube all’incirca tre anni fa, per poi scomparire nel primo terzo del 2020 (non è difficile immaginarne la ragione) per ricomparire all’improvviso la scorsa primavera, ancor più laborioso, consapevole e competente di prima. Un personaggio totalmente fuori dal comune, questo signore di mezza età con lunga barba e cappello d’esploratore nonché un contegno eccezionalmente inglese, nell’accento, il modo di fare e il senso dello humour, che racconta di aver dedicato gli ultimi 20 anni ad una singolare, quanto importante missione: catturare sullo schermo quello che l’intero mondo sembrerebbe aver dimenticato. Folletti, ovviamente, gnomi ed altri esseri fatati. Creature uscite dalle fiabe oppure che all’interno di esse sono penetrate, come tutti i vampiri o fantasmi di leggende ben più oscure, a seguito d’occasionali avvistamenti sperimentati dagli abitatori delle circostanze più opportune. Con una significativa differenza, tuttavia, rispetto ai suoi predecessori: il piccolo dettaglio di riuscire EFFETTIVAMENTE a trovarli.
E se doveste aspettarvi, a tal proposito, la solita ripresa mossa e sfocata di forme indistinti visibili sulla distanza, che potrebbero o meno corrispondere a cespugli vagamente antropomorfi, vi consiglio di scorrere rapidamente il ricco repertorio di quest’uomo, in cui non soltanto i principali soggetti delle sue ricerche compaiono regolarmente al centro della telecamera, ma lo fanno in piena luce, condizioni di messa a fuoco (più o meno) ideali ed occasionalmente interagiscono col proprio cercatore, non sempre in maniera del tutto amichevole se non addirittura ostile. Una visione che sembrerebbe essere stata considerata almeno in determinati circoli con il beneficio del dubbio, per molte settimane e mesi, tanto da giustificare innumerevoli trattazioni di consumati debunkers ed altre testate di contro-informazione, al fine di contrastare la dilagante convinzione che il popolo fatato stesse per tornare alla ribalta in mezzo agli uomini, in aggiunta alla pletora di ulteriori problemi di questi ultimi anni di travagliate vicende globali. Un approccio forse ingenuo alla faccenda, che trova tuttavia parziale giustificazione negli straordinari meriti di questo artista. Che inizia ogni suo video, della durata variabile tra i 5 e i 15 minuti, nella maniera più naturale e spontanea possibile, proprio come un anziano gentleman convinto dal suo amico o vicino “Tom” a caricare i risultati delle proprie ricerche online, affinché la gente possa finalmente conoscere una delle principali “verità nascoste” della nostra epoca. Finché nel corso di ciascuna passeggiata, mentre illustra approfonditamente le caratteristiche ed il comportamento degli gnomi, molto spesso finisce per scorgerne qualcuno sulla distanza, puntando con la massima attenzione il teleobiettivo per mostrarcelo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. La sua recitazione è perfetta, mentre si mostra competente ma opportunamente sorpreso, alla maniera in cui un ricercatore potrebbe reagire all’avvistamento di un animale ritenuto estinto. Ed è qui che l’arma segreta del suo canale appare in tutta la sua ineccepibile efficacia procedurale: poiché l’essere in questione fa la sua immancabile comparsa in un contesto credibile e con l’esatto aspetto che ci si potrebbe aspettare, perfettamente animato fin nei minimi dettagli, tanto da sembrare in apparenza qualsiasi cosa, tranne che un mero artificio realizzato tramite l’impiego della grafica 3D informatizzata. Ed in fondo, chi può dire veramente cosa abiti tutt’ora i boschi più profondi ed ombrosi recessi di foreste millenarie, ultimi residui di quello che un tempo doveva essere l’intera Europa, prima che l’inarrestabile ricerca di spazi e risorse trasformasse completamente il suo volto, relegando gli antichi popoli lontano dagli occhi, il cuore e l’immaginazione degli umani…

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L’uomo che cento anni fa pensò a un’America sovrastata dai dischi volanti

Nell’interpretazione retrofuturista del molo di San Francisco, grandi palazzi fiancheggiano ordinatamente una struttura alquanto singolare. Simile a una mensola che si estende oltre la costa, il cerchio sopraelevato è circondato da una strada, completa di piccole automobili che si avviano verso misteriose destinazione. L’edificio spropositato, perché molto evidentemente di ciò si tratta, presenta inoltre una significativa serie di rientranze, sia disposte in senso orizzontale sul soffitto che passanti da parte a parte, come altrettanti sostegni per chitarre, biciclette o antiche spade o scudi di famiglia. Se non fosse per le dimensioni ed in effetti, l’intera raffigurazione a volo d’uccello è dominata da una pluralità di forme discoidali, intente ad “approdare” o sostare all’interno di questa serie di appositi alloggiamenti. Non è in effetti così difficile ricondurre l’intera scena alla famosa fotografia fittizia del dirigibile Graf Zeppelin che approda presso la cima dell’Empire State Building, ideale base di una lunga serie d’investimenti, e significative risorse messe da parte, affinché il mondo dei trasporti su larga scala potesse essere dominato entro la fine degli anni ’30 dai velivoli più leggeri dell’aria. Ma l’artista, ingegnere e grande creativo Alexander Weygers, olandese naturalizzato statunitense ma nato appena una ventina d’anni prima presso l’arcipelago d’Indonesia, aveva saputo disegnare ed immaginare qualcosa di radicalmente differente. Che se oggi siamo pronti a riconoscere come una fondamentale espressione di nozioni prettamente surreali ed aliene, ci è possibile far risalire tale impressione proprio alla lunga serie di creazioni derivative del suo operato, e potenzialmente un articolo del giornale di Allentown in Pennsylvania risalente al 1950, in cui alcuni avvistamenti di UFO vennero messi in relazione, dall’autore il dentista locale Harold T. Frendt, all’operato di questo importante quanto trascurato personaggio della storia ingegneristica americana. Secondo quanto desumibile dagli specifici disegni creati a partire dagli anni Venti ed il brevetto sancito dal governo, ottenuto poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale quando Weygers aveva deciso di vendere la sua idea al comando militare, nella speranza che potesse rendere più facili, o potenzialmente salvare un grande numero di vite umane. Questo perché lui aveva visto e conosciuto, tramite le trattazioni di dominio pubblico e racconti per lo più di seconda mano, la natura pericolosa ed instabile del nuovo concetto di elicottero, un dispositivo per sua stessa narrazione “Incline a precipitare dal cielo come un masso non appena qualcosa fosse andata per il verso sbagliato.” E ripescando dalle proprie idee pregresse, sulla base di una grande esperienza nel campo della metallurgia e progettazione funzionale, aveva teorizzato una maniera per cambiare e migliorare radicalmente le cose. Il documento perfettamente accessibile ancora oggi tramite i forniti archivi di Google, numero di protocollo US2377835A, mostra gli schemi e descrive qualcosa d’immediatamente riconoscibile, pur sembrando provenire al tempo stesso da una sorta di universo trasversale ed alternativo. Un velivolo chiamato Discopter in cui ogni parte sporgente, dagli immancabili rotori, stabilizzatori o impennaggi di qualsivoglia tipo si trova all’interno di un involucro paragonato dall’autore al “disco lanciato dall’atleta” (un riferimento molto pregno, proprio per i suoi trascorsi in campo scultoreo e i lunghi studi intrapresi sull’argomento) e perciò aerodinamicamente tendente alla perfezione. La trattazione quindi prosegue, accompagnata da disegni minuziosi ed eccezionalmente chiari, descrivendo come l’ingegnoso meccanismo sia effettivamente scalabile, ad un numero variabile di motori, eliche rotanti e dimensioni sulla base delle eventuali necessità future, benché il mezzo-tipo dell’ideale prototipo, dovesse rappresentare un velivolo monoposto con doppio rotore coassiale ad andamento discordante, strutturalmente analogo a quello oggi impiegato per stabilizzare la serie di elicotteri militari russi Kamov ed il Sikorsky S-69. Il che non viene definito d’altra parte come approccio esclusivo, né il alcun modo necessario alla questione, visto anche il metodo con cui l’artista-ingegnere aveva pensato di stabilizzare e controllare il disco volante una volta staccatosi da terra: ovvero mediante una serie di condotti d’aria, apribili tramite l’impiego di una serie di servomeccanismi, da un sistema capace d’interpretare automaticamente l’inclinazione della barra di controllo. Tutto questo mentre l’assemblaggio rotante, mediante un sistema simile all’odierno collettivo elicotteristico, s’inclinava in modo limitato negli spazi concessi all’interno del proprio singolare alloggiamento. La soluzione più importante in materia di sicurezza, nel frattempo, sarebbe stata offerta da una serie di motori a razzo incorporati nella parte inferiore dello scafo, capaci di attivarsi in caso di necessità sviluppando una forza “appena sufficiente a contrastare la gravità”. Permettendo in questo modo, secondo la sua cognizione, di far tornare a terra l’equipaggio di un velivolo in avaria senza nessuna conseguenza irrimediabile. Una visione particolarmente ottimistica, che d’altra parte avrebbe potuto adattarsi in modo altrettanto valido ad un qualsiasi elicottero di tipo tradizionale…

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