Il mistero archeologico degli aerei precolombiani

Sei nel bel mezzo di una passeggiata sul lungofiume assieme ai tuoi amici di vecchia data, tutti tombaroli, quando finalmente avvistate l’oggetto principale del vostro interesse: una struttura di muratura, semi-sepolta tra la sabbia in prossimità di un promontorio, simile a un cilindro privo della sua parte superiore. Forse per effetto dell’erosione, magari a causa di un pregresso disastro naturale, poco importa! Voi ben sapete che quell’oggetto avrà almeno cinque secoli, potenzialmente un millennio d’età. Eppure strano  a dirsi, nelle profondità più rurali della Colombia l’archeologia mainstream ha qualche problema a giungere coi suoi cataloghi e normative vigenti, causa l’assenza di guide disposte ad aiutarli e un’apparente disinteresse da parte delle autorità preposte. Il che va benissimo, per voi. Con una pala ciascuno, iniziate a scavare freneticamente, sperando di trovare la ragione della vostra venuta: un altro sarcofago di corteccia d’albero, al suo interno ancora le spoglie mortali di un antichissimo sacerdote, membro della famiglia reale, importante artigiano… Questa è l’informazione che avete ricevuto da un cacciatore locale ed esattamente come previsto, così è stato. Soltanto che, stavolta, la ricchezza che vi aspetta è qualcosa di precedentemente mai visto: circa 200 oggetti in lega d’oro dalla fattura straordinariamente pregiata ed i soggetti più interessanti che mai. In altri termini, la svolta per la vostra difficile vita trascorsa fin qui a scavare.
Siamo attorno… Al 1890, nessuno lo sa con certezza. Quando il coperchio fatale fu messo da parte da ignoti,, soltanto per trovarsi davanti a qualcosa che avrebbe cambiato la nostra concezione del passato sudamericano in maniera drastica e duratura: un’intera collezione di modellini d’oro. Raffiguranti persone, pesci, rettili e… Alcuni aerei? Senza dubbio così sembra, in modo particolare per quanto concerne un paio di soggetti simili a creature composite, potenzialmente ispirati dagli insetti. Stiamo parlando, tanto per dare un nome alle cose, del celebre tesoro dei Quimbaya, cultura della Colombia antecedente alla “scoperta” dell’America da parte degli europei, che dopo essere stato ritrovato da ladri senza nome, per qualche tempo vagò tra le occulte pieghe del mercato nero, prima di approdare nelle mani e nella collezione privata di Carlos Holguín, l’allora Presidente della Repubblica di questo paese, che ne donò una parte a María Cristina, regina di Spagna, ponendo le basi per una disputa legale che continua tutt’ora. È pur vero che allora, semplicemente non esistevano le basi per considerare un qualcosa come parte del patrimonio tangibile di un popolo, e quindi del tutto inaccessibile ai collezionisti privati. Così una parte del tesoro fu successivamente acquistata per vie traverse dal Banco della Repubblica di Colombia, per essere infine esposta presso il museo dell’oro di Bogotà. Ed è lì che tutt’ora si trova il più curioso di questi oggetti, assieme ai suoi simili, una “creatura” dalla forma marcatamente aerodinamica, che non si capisce bene cosa voglia effettivamente raffigurare. Ali a delta rigide nell’aspetto, che si trovano in corrispondenza della parte bassa del corpo. Una casistica inaudita nel regno animale. E una forma dell’addome che potremmo definire a tubo, esattamente po’ come una fusoliera. Per non parlare della coda che si erge nella parte posteriore, più simile al timone di un aeromobile che a qualsiasi altra cosa prodotta dalla natura. Con la possibile esclusione di un pesce volante, che deve usarla anche per spostarsi sott’acqua. Ma volete voi dirmi dove mai avrebbero visto questo animale gli antichi abitanti di alcune delle più profonde giungle sudamericane? È perciò possibile interpretare questi doni di accompagnamento per l’oltretomba, con uno scopo rituale non troppo dissimile da quello degli artefatti funebri egizi, come dei veri e propri oggetti fuori dal contesto (in inglese out-of-place-artifacts, in breve OOPArt) ovvero inspiegabili dalle nostre cognizioni pregresse su una particolare epoca o regione del globo. Perché la logica ci insegna che è assolutamente impossibile che questa cultura precolombiana dei Quimbaya possedesse la tecnologia per costruire degli aeromobili, visto come ancora non esistessero concetti come la saldatura, le viti e le lamiere. Per non parlare di quel piccolo dettaglio che avrebbe fatto la differenza: il motore a combustione interna. E allora che cosa, esattamente, si erano prefissati raffigurare costoro?

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La macchina pensata per accoltellare il prato

Così il cemento, come l’asfalto, la plastica ed il vetro: sostanze solide che possono costituire SUPERFICI. Ciascuna delle quali è utile a uno scopo, piuttosto che ad un altro, suscitando inevitabilmente un vago sentimento: lieta soddisfazione. Un senso silenzioso di gratitudine, per la loro semplice esistenza. Perché…Sono artificiali? “L’ho creato, mi ubbidisce, lo rispetto. Reciprocità.” La natura non funziona in questo modo. Poiché pietra, suolo, addirittura una torbiera, contengono in se stessi il mistico principio della vita. La cosiddetta singolarità. Si può amare l’erba, mangiandola pensando di essere una capra. Non puoi rimanere indifferente. La si può anche, odiare. Ad esempio, se calpesti questi fili con un fine ben preciso: mettere la palla in buca, come gesto culmine di una partita a golf. Già, stiamo parlando di quel tipo di situazione, agonistico-procedurale. Il fairway, il green. Eagle, birdie, bogey. Senza passare per il rough. Mi raccomando (sarebbe un grave errore). Per non evocare quel grido silenzioso dal profondo dell’anima, che porta i praticanti di altri sport ad espletare con trasporto, ma che nell’ambiente, fine ed elegante, di un passatempo signorile degno di amministratori e presidenti, costringe a incamerare tutto dentro fino a che… Un giorno, per un apparente errore, si colpisce un po’ più un basso di quella pallina. Sradicando quella zolla con radici, erba e tutto il resto. Una vera e propria decapitazione. “Per Zeus, che scena orribilmente truculenta.” Fortuna che, una volta o più l’anno, il proprietario stanco di dover cercare i pezzi per rimettere in sesto l’autostrada per palline, affronta un simile problema in modo assai diretto. Mettendo in scena il più crudele, ed impensabile dei riti.
O almeno, così sembra. Vedere un aeratore per i prati all’opera, ricorda una scena di un film horror, in cui la vittima dell’assassino è stata assicurata al pavimento, prima di essere scacciata da questa valle di lacrime nel modo più lento truce immaginabile. I cinesi la chiamavano Lingchi, la tortura dei mille tagli, o in questo caso buchi. Realizzati grazie all’uso di una serie di sistemi, tra cui il più popolare è un semplice rimorchio da trattore, in cui la rotazione delle ruote mette in moto un meccanismo sussultorio, replicato in una moltitudine d’artigli, simili alle mani di un robot. Mentre il veicolo procede, quindi, il dispositivo infila tali punte dentro al prato, ricavando un buco dopo l’altro in serie pressoché ordinata, parallelamente l’uno all’altro. Per l’amante disinformato delle cose vegetali, è una scena niente meno che agghiacciante. Ecco a voi il perfetto prato, uniforme e splendido neanche fosse una trapunta, rovinato in modo sistematico, trafitto come San Sebastiano da infinite staffilate. Se fosse una creatura deambulante, il suo sangue ricadrebbe sulle mani del giardiniere. Se stessimo parlando del pianeta natio della principessa, pardon ammiraglio Leia, avremmo sentito “Milioni di voci che gridano terrorizzate e ad un tratto tacciono per sempre.” Vuole il caso tuttavia, che se gli ingegneri li progettano, le aziende specialistiche li  acquistano, e i gestori di country club li noleggiano, simili dispositivi abbiano uno scopo ben preciso e per così dire, fecondo.
Non è certo un mistero: l’erba dei campi da golf, in situazioni di gestioni ideali, ha sempre un aspetto che sarebbe riduttivo definire eccelso. Quel particolare colore, quella compattezza, la precisione dei contorni e dei confini definiti. Il che a pensarci non è poi così scontato, visto come ci siano sezioni, in modo particolare in prossimità della del punto di partenza e della buca, che vengono calpestate da molte dozzine di persone ogni giorno. E a scanso di equivoci, vi assicuro che i semi piantati all’origine della questione non erano certo appartenenti a una speciale varietà immortale. Nossignore, qui il segreto è un altro. Come nel caso di particolari tipi di foresta, che l’evoluzione ha preparato a ritornare uguale a prima dopo gli occasionali e devastanti incendi, l’accoltellamento sistematico del prato apre la strada a nuove geometrie di potenza. Quello che non ti uccide, può soltanto renderti più forte…

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La notte in cui 14 navi da guerra furono catturate da una carica di cavalleria

1795: una visione artica, un sogno ed un incubo, la scena di un dramma teatrale che trascende la mera plausibilità. Un episodio che, come spesso capita nella storia della guerra, può essere raccontato in molti modi. Ma personalmente, preferirei di gran lunga questo: il profilo di vele distanti, che si stagliano in diagonale contro il promontorio che è l’isola di Texel. Siamo all’ingresso dello Zunderzee, il principale mare interno dei Paesi Bassi, un luogo chiamato Helsdeur (la Porta dell’Inferno) per le terribili correnti oceaniche che ne sconvolgono le acque, scaraventando egualmente le navi contro gli scogli e le dune sabbiose della riva antistante il paese di Den Helder. Sabbiose per la maggior parte del tempo, ma non quella notte illuminata fiocamente dal chiaro di luna. Quando la morsa stessa del gelo ha trasformato sia la terra, che l’acqua, nella stessa identica cosa: una distesa immutabile di solido e impenetrabile ghiaccio. Sul quale, come fantasmi dell’oltretomba, avanza una schiera di cavalli. Ciascuno recante in arcione un ussaro, assieme ad un fante dell’esercito francese, fucili e sciabole saldamente assicurati nei loro foderi per evitare il benché minimo tintinnio. Persino gli zoccoli degli animali sono stati avvolti nella stoffa, forse anche per favorire una presa migliore sul suolo così pericolosamente scivoloso. Finché una vedetta sul ponte del primo battello, posta a guardia dal suo capitano, non scorge le ombre che avanzano, dando prontamente l’allarme. Ma a quel punto è già troppo tardi. Poiché per uno scherzo crudele del destino, al momento in cui le navi sono state bloccate dal ghiaccio, si sono trovate orientate in maniera obliqua, con tutte le bocche da fuoco puntate verso il basso. Senza la copertura dell’artiglieria, i marinai sconvolti non riescono a respingere l’assalto. I cavalli partono al galoppo, mentre i loro padroni lanciano colpi d’avvertimento. I rampini compaiono nelle mani dei loro secondi, pronti a balzare a bordo con grida di battaglia spaventevoli e furibonde. La nave ammiraglia viene costretta ben presto alla resa, portando le altre a seguirla. In una singola notte, la guerra di liberazione d’Olanda finisce ancor prima di cominciare.
C’è un lampo insolito, nello sguardo mostrato nei ritratti d’epoca dell’ex ammiraglio della flotta olandese Jan Willem de Winter (inverno, un nome, un programma) passato nel 1787 all’Armata Rivoluzionaria di Francia assieme agli altri nemici dell’Ancien Régime. Il contegno atipico di un ufficiale militare in grado di elaborare piani fuori dagli schemi, e tuffarsi nella battaglia determinato a portarli fino alle loro più estreme conseguenze. Ma forse “tuffarsi” non è il termine più adeguato, viste le circostanze. È più una questione di camminare, anzi galoppare sulle acque stesse oltre cui aveva pensato di nascondersi il suo nemico. A quei tempi, quando la guerra non era tanto una scienza sottile studiata da schiere di tattici laureati, per poi essere decisa a tavolino da gente incapace di sfidare a volto aperto il frastuono caotico della battaglia, ma il frutto delle decisioni prese sul campo da individui talvolta inetti, talvolta geniali. Qualche volta, talmente ambiziosi da risultare completamente pazzi. Avete presente Napoleone? Il più scaltro e capace, lo svelto, il genio in grado di conquistare l’Europa grazie alla semplice forza di volontà. Ma non fu l’unico, né il primo. In uno scenario in cui, al rendersi conto della fin troppo letterale decapitazione di Francia e dopo il Terrore causato dalla fazione di Robespierre, le nazioni confinanti si unirono in una lega ufficiosa, con lo scopo dichiarato di punire l’arroganza dei rivoltosi, e quello non tanto ufficiale di spartirsi i territori di una nazione che sembrava ferita e incapace di reagire. Che errore! Fu così che nel 1792, compresa fin troppo bene la situazione, il direttorato della Prima Repubblica bruciò le tappe, dichiarando guerra ad Austria e Prussia, assieme al loro storico alleato, l’Olanda di William d’Orange, Statolder delle Sette Province Unite. Una confederazione di stati del settentrione, uniti storicamente a partire dal momento in cui ci si era resi conto che una “Potenza” poteva avere colonie all’estero, massimizzando così i suoi profitti in ambito commerciale. E governato da un inglese, secondo le complicate relazioni dinastiche della casa d’Hannover. Il quale, pur avendo competenze militari tutt’altro che trascurabili, era pur sempre sicuro di una cosa: che il suo paese non sarebbe stato invaso d’inverno. Quando le strade erano avvolte da una coltre di ghiaccio, e l’aria stessa pareva del tutto irrespirabile per quanto era infusa del gelo al di fuori della semplice concezione umana. Se non che, egli non aveva considerato due fattori: il primo, l’odio che il suo popolo nutriva ormai da anni verso il governo assolutista di un sovrano proveniente dall’estero, riacceso dalla trionfale vittoria dei rivoltosi nella terra di Francia. Talmente acuto da permettere, a un’armata francese percepita come liberatrice, di ricevere approvvigionamenti nel corso della sua marcia, senza bisogno di una catena logistica preparata nei benché minimi dettagli. E secondo, che un fiume, o uno stretto completamente ghiacciati, possono essere attraversati in armi con estrema facilità. Esattamente ciò che si dimostrò in grado di fare il generale Jean-Charles Pichegru, inviato dal governo repubblicano a riformare il concetto stesso di cosa dovesse essere Olanda.

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Rana toro devia il fiume per salvare 4.000 girini

Se non fosse pressoché impossibile, saremmo pronti a giurare che nello sguardo del mostro bitorzoluto compare un lampo riconoscibile d’umana apprensione. L’ansia di un padre, che ha dato tutto per preservare ciò che di più prezioso ha a questo mondo, risultando ormai pronto a trasformarsi nella versione più viscida di una ruspa, spendendo la propria preziosa energia per cambiare le caratteristiche stesse del territorio. Fiume, torrente, rivolo, ruscelletto. Nella distesa secca e arida della savana sudafricana, la vita è sopratutto una questione di prospettive. La pozza piovana che, per i grandi mammiferi in cerca di acqua da bere, appare poco più che una goccia nel mare di erba tendente al marrone, può costituire per qualcun altro l’intero universo in cui trascorrere la prima stagione della propria vita. E quel qualcuno è il girino della Pyxicephalus adspersus, la seconda rana d’Africa per dimensioni e quinta su questo pianeta (ma sappiatelo: nessun altra ha la sua tenacia e capacità d’adattamento). Il luogo del concepimento e anche la nascita, una piazza liquida da occupare pressoché nella sua interezza grazie alla spropositata quantità dei propri fratelli e sorelle. Questione, anch’essa, di prospettive. Come una versione sovradimensionata del familiare spermatozoo, una testa e una coda che si agita per nuotare, puntando sui grandi numeri, perché soltanto un singolo individuo riuscirà a raggiungere l’obiettivo. Trovandosi, finalmente, nell’agognata occasione di replicare biologicamente se stesso. Per quanto concerne l’anfibio, stessa storia: dico, provate voi ad immaginarvi le probabilità di raggiungere all’età adulta quando si nasce in uno spazio ecologicamente sufficiente a sostenere più di una manciata tra le proprie migliaia di concorrenti e co-nascituri, senza parlare di eventuali predatori e il rischio ambientale di fondo. Che poi sarebbe l’inevitabile prosciugarsi, al termine della stagione delle piogge, di un simile piccolo stagno, rigorosamente non permanente. Inizia quindi così, dal momento stesso in cui si è venuti al mondo, la rapida corsa verso la metamorfosi, nella speranza che ai piccoli spuntino le zampe e siano completi i loro polmoni, poco prima che  si ritrovino a morire soffocati, rimasti a secco sulla sabbia ormai incapace di trattenere l’umidità. Un triste episodio che purtroppo, rischia fin troppo spesso di verificarsi. Il che come spesso càpita, ha creato nei secoli una specifica strategia evolutiva, che può essere riassunta nell’espressione “salvare scavando”. Una volta completato l’accoppiamento e contestuale deposizione, il maschio è infatti abituato a restare sul posto, al fine di assicurarsi che tutto si svolga nella maniera ideale per le sue giovani speranze per il futuro. È questo lo stato in cui gli abitanti del suo areale, che include Angola, Botwswana, Tanzania e Zimbabwe, sono abituati generalmente a vederla, ferocemente pronta a difendersi da qualsiasi predatore, non importa quanto grosso e feroce. Il maschio della rana toro, più grande della femmina, è pur sempre un animale della lunghezza di fino a 26 cm, ed un peso che supera abbondantemente i 2 Kg, armato di due acuminate proiezioni ossee al posto dei denti, chiamate odontoidi. Più che abbastanza per scoraggiare eventuali serpenti, uccelli e altre creature in cerca di una facile merenda, ma completamente inutili contro il procedere inarrestabile delle stagioni. Ed è qui, quindi, che entra in gioco il tubercolo a forma di pala presente sulle sue due zampe posteriori.
È nella natura stessa dell’evaporazione infatti, che l’acqua tenda naturalmente a raffreddare se stessa, ritardando l’effetto spietato dei raggi solari che vi precipitano sopra dall’alto. Con il risultato che in un luogo come le pianure alluvionali del Gauteng o dello Swaziland, il processo tenda a creare una matrice di singoli casi, ciascuno più o meno capace di resistere al completo prosciugamento. Non è così per nulla insolito, il caso raffigurato qui sopra, del genitore ormai certo che il tempo a disposizione è finito, ed agisce per dare ai suoi figli e figlie il tempo di trasformarsi in dei veri e propri anfibi, in grado di sopravvivere fino alla prossima stagione delle piogge. Egli ha del resto, un piano ben preciso. Mentre osserva con gratitudine il grande lavoro che è riuscito a svolgere, apre la bocca e lascia srotolare l’appiccicosa lingua. Con un tonfo sordo, quella ricade ai margini dello stagno nuovamente riempito. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, lui si riporta in bocca una mezza dozzina dei suoi stessi girini, ed inizia pensierosamente a masticare.

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