Le conseguenze della strana sindrome che zombifica le stelle marine

Nel primo periodo successivo all’improvvisa presa di coscienza da parte del mondo scientifico, risalente al 2014, della gravità crescente della situazione, più o meno tutti fummo certi che dovesse trattarsi di un qualche tipo d’infezione virale. Vennero effettuate le dovute prove cliniche, ad opera del ricercatore microbiologico della Cornell University Ian Hewson, e diversi esemplari vennero contaminati in laboratorio, riuscendo a stabilire un qualche tipo di connessione tra un agente patogeno, invisibile e sconosciuto, e la morìa crescente di esemplari della classe Asteroidea, appartenenti a oltre 20 specie dall’estrema varietà di forme e colori. I quali stavano andando incontro nell’intero territorio del Pacifico Nord-Orientale ad una fine che definire orribile, sarebbe stato riduttivo. Una dopo l’altra, dunque, le stelle marine iniziavano a “sgonfiarsi” dopo la comparsa di lesioni di colore bianco, per poi distendere le proprie braccia fino alla massima portata. Continuando quindi ad avanzare, ed avanzare con i piedi tubolari sotto di esse in cinque, otto o dodici diverse direzioni, finché arti multipli non arrivassero a staccarsi letteralmente via dal corpo, diventando entità autonome capaci di strisciare in giro per i fondali marini. Poco prima che il corpo centrale, ormai privo dei suoi organi essenziali, iniziarsi letteralmente a decomporsi fino alla singola unità cellulare, “squagliandosi” dinnanzi agli occhi impotenti dei sub e degli studiosi interessati al caso. L’acronimo scelto, a quel punto, sarebbe stato SSaDV (Sea star-associated densovirus) e la sua famiglia di appartenenza ipotizzata essere quella degli Ambidensovirus, con la forma probabile di una particella icoasaedrica di circa 25 nanometri; come per il raffreddore comune, tuttavia, sembravano esistere infinite variabili di tale orribile microrganismo, capaci di trasmettersi in maniera spesso imprevedibile e difficile da contestualizzare. Inoltre la malattia in questione si era già effettivamente palesata, ed era stata descritta in maniera esaustiva, negli anni 1972 e 1978, lasciando intendere come l’estrema propagazione del decennio appena giunto a compimento dovesse avere un qualche tipo di causa remota dalla natura ancora tutt’altra che chiara. Quale che fosse la ragione, ben presto a pagarne il prezzo furono le stelle marine. E risulta particolarmente triste il resoconto più volte riportato, dei molti fondali fatti oggetto delle visite da parte degli umani lungo l’intera costa occidentale del continente nord-americano, dall’Alaska alla Baja California, dove un tempo si trovavano letterali montagne di questi echinodermi variopinti, trasformati in deserti sabbiosi e relativamente privi di vita. Ciò in funzione dell’effetto trofico posseduto, nei fatti, dall’eliminazione di uno o più importanti predatori di quegli ambienti, come la Pycnopodia helianthoides (stella girasole) che potete ammirare nel fotogramma riportato qui sopra, in realtà un feroce predatore di ricci e lumache di mare. I quali esseri, una volta lasciati liberi di prosperare fino a vette precedentemente immaginabili, hanno rapidamente provveduto a fagocitare completamente le copiose alghe di kelp, fondamento stesso del loro ecosistema, provvedendo alla propria stessa rimozione dall’equilibrio persistente dei viventi. E il mondo, nonostante tutto, ha continuato a girare…

La classificazione ed identificazione di un nuovo virus non è mai semplice, data la dimensione infinitesimale di simili patogeni, casistica che sembrerebbe essersi verificata anche nel caso dello SSaDV. Colpisce infatti come molte delle discussioni sul suo aspetto, nonostante la rilevanza ecologica, restino delle mere ipotesi basate su cognizione di causa ed osservazioni difficili da contestualizzare.

Analisi a posteriori del fenomeno hanno quindi definito la propagazione del 2015-2018 come il più esteso fenomeno patologico mai registrato in ambiente marino, capace di gravare con il proprio effetto immediato e futuro sull’intero patrimonio della biodiversità del pianeta. Per poi cessare, con la stessa immediatezza, probabilmente per la mancanza di una quantità sufficiente di esemplari superstiti da infettare. Lo stesso Ian Hewson con la propria equipe, questa volta assistito da una vasta task-force multinazionale e l’alto numero di citizen scientists (ricercatori per hobby ed altruismo) capaci d’inviare al sito messo in piedi per l’operazione, è a quel punto ritornato sull’argomento, tentando di chiarire ulteriormente cosa, nei fatti, fosse successo e nella speranza che non potesse ricapitare di nuovo. Producendo un secondo studio che punta, questa volta, ad individuare una concomitanza di fattori multipli capaci di contribuire all’epidemia. Perché non sempre, la trasmissione tra una specie e l’altra di stella marina era stata possibile da provare e al tempo stesso il verificarsi della sindrome, in determinati momenti, si era propagato in maniera troppo imprevedibile per poter ipotizzare come fattore scatenante la semplice vicinanza degli esemplari colpiti. Questo comportamento inoltre dell’autotomia (staccarsi spontaneo degli arti) non è del tutto ignoto alle stelle marine, costituendo una reazione non soltanto a possibili attacchi dei predatori e con la finalità di distrarli, ma anche per situazioni latenti capaci di mettere a rischio la sopravvivenza dell’animale, come l’assenza di cibo o di sufficiente ossigenazione dell’acqua. Una volta suddivisa in più parti dunque, se la situazione lo permette, la stella marina può non soltanto riuscire a sopravvivere ma persino rigenerarsi nella propria totalità, mentre anche le braccia precedentemente rimaste indipendenti, molto più lentamente, torneranno a possedere un disco centrale e una bocca capace di garantirli l’opportunità di nutrimento. Nulla di tutto questo, tuttavia, sembrava poter succedere nel caso dell’ancora misteriosa sea-star wasting disease o SSWD (malattia del deperimento delle stelle marine) in cui la separazione veniva seguita dalla letterale dissoluzione dell’organismo. Il nuovo approccio degli studiosi della Cornell, a questo punto, sembrò partire da una differente domanda: che cosa, effettivamente, impediva al sistema immunitario delle stelle marine di reagire al virus? E qui la risposta non ci mise molto, a diventare particolarmente complessa e stratificata su più livelli. Sembra infatti che una delle cause concorrenti al disastro possano essere le grandi e e improvvise crescite d’alghe, causate dall’eccessivo riversarsi di nitrati e altre sostanze inquinanti negli oceani, ma anche l’innalzamento della temperatura media degli stessi, per il fenomeno spesso negato del mutamento climatico, capace di accelerare in qualche maniera la diffusione del fenomeno, con conseguenze a noi fin troppo chiare. Un altro possibile fattore è stato individuato nell’aumento esponenziale nell’acqua delle microcistine (o cianoginosine) sostanze tossiche prodotte da un’ampia varietà di batteri di origine marina, i cui livelli negli ultimi anni sono aumentati in maniera sensibile causando, tra le altre cose, conseguenze altrettanto gravi per le lontre dello stretto di Puget. L’effettiva ragione della SSWD è stata quindi ri-attribuita col nuovo studio, piuttosto che a un singolo virus, a “Un complicato tango di fattori ambientali e potenziali patogeni vigenti”.

Per quanto l’impegno pubblico possa essere sincero e attivo nel tentare di arrestare un’epidemia come questa, purtroppo talvolta neppure la scienza moderna e capace di trovare una risposta. Ed anche se l’avesse trovata, del resto, come avremmo mai fatto a poter salvare le sue molte vittime senza una voce…

Ciò detto, ad oggi, la popolazione delle carismatiche Pycnopodia helianthoides resta severamente ridotta rispetto ai valori precedenti all’epidemia ed i ricercatori hanno calcolato un periodo particolarmente esteso prima che possano, un giorno ancora lontano, ritornare ai numeri che avevano potuto vantare in precedenza. Sempre che, nel frattempo, il terribile virus non torni di nuovo a palesarsi, come aveva fatto anche in precedenza e con una potenza stavolta persino maggiore, che non avremmo potuto mai riuscire ad immaginarci.
Perché negli oceani e in qualsiasi altro contesto ecologico, come purtroppo sappiamo fin troppo bene, sono le cose più belle a lasciare per prime la proverbiale valle di lacrime cui apparteniamo. Mentre tutto ciò di cui potremmo volentieri fare a meno, ben al di sotto della soglia della visibilità, sopravvive indefesso attraverso le plurime generazioni. Aspettando pazientemente, senza problemi, di poter serrare ancora le proprie metaforiche fauci sulle vittime designate. E chi ha detto che debba per forza essere, ogni volta, il “pesce” più grande ad averla vinta! Ahimè.

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