L’auspicata ricompensa mistica per chi soleva porre in equilibrio il chicco di caffè gigante

Tra il ricco catalogo di scene inaspettate reperibili su Internet, questa dev’essere senz’altro una delle più strane: un uomo in maglietta nera afferra quello che parrebbe essere un oggetto semisferico di metallo pesante, lo fa rotolare da una parte all’altra nella versione convessa di una sorta di ciotola in ferro per il pranzo di cani e gatti. Quindi piantando bene i piedi in terra, tenta disperatamente di sollevarlo, fallendo miseramente ed in modo alquanto probabile, condannando la sua schiena ad un lungo pomeriggio di riposo e possibili problemi a media lunga scadenza. Non così il secondo contendente di quella che sembra a tutti gli effetti una sorta di tenzone popolare o dimostrazione di forza, che molto intelligentemente sceglie di non prendere subito di petto l’ingombrante pegno. Ma piuttosto inizia a spingerlo nel suo canale dalla forma tonda, facendolo progressivamente accelerare grazie alla forza di due braccia ottimamente allenate. Finché mettendo in atto quello che può essere soltanto definito come un colpo di reni da manuale, la tira verso di se sopra il gibboso piedistallo, concentrandosi e tentando di stabilizzarla per alcuni lenti, drammatici secondi. Poi la lascia, si alza, e…
Chi è costui? Che cosa abbiamo visto capitare? In base alle brevi descrizioni reperibili su Internet, il particolare frangente rientra nell’esperienza per il pubblico di un luogo molto popolare per i croceristi del fiume Yangtze. Con una storia capace di estendersi addietro di fino ad un paio di migliaia d’anni, verso l’apice della dinastia degli Han, quando una coppia di fraintendimenti portarono a identificare la vicina cittadina di Fengtian, a circa 170 Km dalla tentacolare metropoli di Chonqing, come un possibile sentiero d’accesso alternativo per le profondità degli Inferi senza un domani. Un luogo d’introspezione dunque, di meditazione ma anche di non sempre accessibili sfide, mirate a mettere alla prova la purezza della propria anima e saldezza delle convinzioni di cui si è dotati, fino ad un drammatico confronto finale con il Re Yama, sommo Deva di derivazione indiana che presiede al governo e giudica i nuovi arrivati di questa terra misticamente carica d’aspettativa. Ordalìe come quella, per l’appunto, della Xing Chen (星辰礅 – blocco di pietra stellare) un ponderoso blocco metallico posizionato sotto un gazebo, a quanto pare del peso esatto di 365 Jin, pari a 219 chilogrammi. Pegno che compare in diversi altri luoghi sacri del paese, sebbene mai portato fino a queste dimensioni estreme, sollevate in base alla leggenda da due sole persone: l’operaio incaricato di costruire il sito, e l’individuo da noi visto nel video di apertura, in realtà documentato in diversi video come una sorta di campione locale, con tanto di annunciatrice/guida che illustra la sua tecnica tutt’altro che semplice da imitare. Senza tralasciare, chiaramente, il resto dell’interessante ed unico luogo in cui può essere realizzata l’impresa…

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Lo spettacolare tempio che costituisce la più grande struttura intagliata da un singolo blocco di basalto al mondo

C’è stata un’epoca, anche se risulta difficile crederci a posteriori, in cui il concetto di un luogo sacro non veniva necessariamente determinato dall’esclusione di ogni fede alternativa a quella considerata maggiormente imperativa o “corretta”. Un tempo in cui le alte mura di un tempio potevano rappresentare l’equivalente spirituale di un grande luogo d’incontro, come una piazza del mercato, basilica o anticamera del sincretismo di valori, concetti e sensibilità distanti. Un importante ruolo nell’istituzione di punti in comune, tra diverse fasce di popolazione o gruppi etnici anche geograficamente distanti. Come meta di pellegrinaggi e il tema di preghiere, storie o leggende, la cui diffusione trasversale avveniva ancora più rapidamente delle spezie o altri beni dal valore materiale largamente acclarato. Vedi le caverne asiatiche della regione del Gandhara, poste lungo il corso della Via della Seta e vedi anche il caso, fisicamente più imponente e per certi versi magnifico ma purtroppo meno conosciuto, del complesso indiano di Ellora, situato parallelamente ad una via commerciale di primaria importanza tra gli imperi storici della regione settentrionale e la parte più estrema del subcontinente, collegata tramite i suoi porti alle località dall’altro lato dell’Oceano Indiano. Un luogo composto da oltre 100 scavi scolpiti laboriosamente nell’affioramento basaltico del Deccan, celebre per la sua roccia stratificata ed altamente reattiva all’impatto degli scalpelli ed altri attrezzi similmente finalizzati. Un lavoro continuato complessivamente per parecchie dinastie ed almeno tre tipologie di devozione: induista, giainista e buddhista, come reso chiaro dalla coesistenza a pochi metri di distanza di soggetti scultorei e pitture parietali dedicate alle rispettive storie e leggende. Ma nessuno più magnifico, ed impressionante nel suo complesso, del gigantesco edificio formalmente numerato come “Caverna 16” ma che tutti continuano a chiamare, fin da tempo immemore, col nome storico di Kailashanatha o Tempio di Kailasa, la cui datazione precisa è una chimera inseguita ormai da molte generazioni di studiosi nonostante proporzioni superiori a quelle del Partenone di Atene: 84 x 47 metri e 33 di altezza. Creazione soltanto in apparenza architettonica, ovvero costruita da una pluralità di elementi sovrapposti, almeno finché avvicinandosi dal corso del viale non si scopre la fondamentale compattezza delle sue mura, quasi come fosse nata in modo pressoché spontaneo dal fianco delle pietrose colline retrostanti. Visione per certi versi supportata dall’origine leggendaria di questo luogo, che secondo le storie tramandate dalla gente del vicino insediamento di Ellora, sarebbe stato creato nel giro di soli 18 anni dopo un atto di preghiera e venerazione nei confronti dei naturali processi geologici della Terra. Richiesta sovrannaturale a seguito della quale, in base a dati chiaramente desumibili dall’osservazione dei risultati, le maestranze coinvolte avrebbero acquisito la capacità di rimuovere una media di 55 tonnellate di pietra al giorno, fino al gran totale di 200.000 del lavoro finito. Uno dei più grandi misteri, in altri termini, dell’ingegneria del mondo antico, ulteriormente connotato da una fondamentale domanda: dove, esattamente, gli antichi abitanti della regione avrebbero portato tutto questo materiale di risulta, che in tutti questi anni a nessuno è mai riuscito d’individuare? Un alone di mistero, in ultima analisi, accresciuto ulteriormente dalla mancanza di consuete dediche o datazioni ad almeno uno dei sovrani committenti della colossale meraviglia, fatta eccezione per un possibile riferimento indiretto su una placca di bronzo ritrovata nella città di Vadodara, nel non vicinissimo Gujarat. Che parla di un “tempio tanto magnifico da aver impressionato anche il suo stesso architetto” attribuito alla figura storica vissuta nell’ottavo secolo di re Krishna I…

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Oh grande Cahokia, metropoli precolombiana sulle sponde del Mississippi!

Un popolo di abili costruttori, sulle sponde del fiume che costituisce la fonte della loro ricchezza. Un’intensa attività agricola, in una terra maggiormente fertile di quanto si potrebbe essere indotti a pensare. Un governo centralizzato, sotto l’egida di un sovrano dal potere pressoché assoluto. Un complesso culto dei morti, inclusivo di sacrifici e sepolture di massa all’interno di tombe dalla forma piramidale. La più grande delle quali, situata sulla piazza principale dell’insediamento, presenta una pianta quadrata più estesa di quella della grande piramide di Cheope, maggiore di tutto l’Egitto. Già perché non siamo nella terra dei Faraoni, e a dire il vero neanche presso uno dei grandi imperi monumentali dell’adiacente area mesoamericana, bensì a una distanza relativamente contenuta dal territorio dei Grandi Laghi, dove quelli che furono chiamati “indiani” incontrarono i coloni provenienti dall’Europa organizzati in una confederazione di tribù nota come Illiniwek, da cui avrebbe preso il nome l’attuale stato dell’Illinois. La cui popolazione, attorno al XV e XVI secolo, risultava ben distribuita nelle terre dell’intera regione, tranne per quanto riguardava un’area che sarebbe stata chiamata dagli archeologi il “quadrante abbandonato”, grosso modo corrispondente alla città di St. Louis. Un punto dall’alto valore logistico a dire il vero, vista la vicinanza alle sponde del possente Mississippi e nel contempo, vaste pianure caratterizzate da un clima mite ed accogliente. Pianure notoriamente caratterizzate, guarda caso, da massicce collinette dalla forma trapezoidale, a intervalli equidistanti dalla sospetta regolarità geometrica e un’origine geologicamente difficile o impossibile da definire. Perché qualcuno si degnasse di notarle e interrogarsi sulla loro natura, dopo il sistematico sterminio e ghettizzazione dei popoli nativi conseguente dall’insediamento dei portatori di malattie letali quali l’influenza ed il raffreddore, sarebbe stato necessario aspettare quindi fino al 1811, occasione in cui l’avvocato ed archeologo amatoriale Henry Brackenridge scrisse un resoconto dettagliato ed alcune ipotesi sull’argomento. Di quella che avrebbe potuto costituire già sulla base dei dati da lui raccolti, una probabile città di 30.000/40.000 abitanti dell’estensione di almeno 4.000 acri risalente ad un periodo attorno all’anno 1.000 d.C, facendone effettivamente non soltanto il più popoloso centro cittadino dell’epoca al di sopra del Rio Negro (superato soltanto in seguito dall’iper-densa capitale azteca di Tenochtitlán) ma un esempio di aggregazione abitativa pari o superiore alle città di Londra e Parigi nella stessa epoca in cui raggiunse l’apice della sua influenza. Con una significativa, importantissima differenza: il fatto di appartenere sotto ogni punto di vista all’Età tecnologica della Pietra, nonché un popolo che aveva perfezionato attraverso i secoli lo strumento della trasmissione orale. Al punto di non aver lasciato alcun tipo di testimonianza scritta relativa alla propria cultura, i propri meccanismi sociali, le proprie aspirazioni. Tanto che del misterioso sito non avremmo mai potuto conoscere neanche il nome, motivando l’adozione da parte di Brackenridge e successori dell’appellativo per lo più arbitrario di Cahokia, dal nome della singola tribù maggiormente prossima a questi luoghi nell’epoca del primo contatto con la confederazione degli Illiniwek. Quando ormai l’omonimo centro era disabitato da generazioni, a fronte di un rapido abbandono situato cronologicamente attorno all’anno 1350, per ragioni che restano tutt’ora largamente indeterminate. Non che tale evento pregresso sarebbe dispiaciuto in alcuna misura ai detentori del presunto destino manifesto, fermamente intenzionati a trarre il massimo beneficio da una “terra incontaminata” fatta eccezione per i fori delle tende di tribù nomadiche, nell’opinione delle moltitudini del tutto incapaci di costituire alcun tipo di duratura civiltà materiale…

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Un pregno viaggio alle radici della bambola dei desideri giapponesi

Se impiegando il dono dell’ultraterrena osservazione, come foste diventati temporaneamente membri della stirpe sovrannaturale degli yokai (dove il pluri-occhiuto e l’incorporeo vanno spesso a braccetto) poteste spiare il ripiano più alto della libreria di ogni singolo studente iscritto all’ultimo anno dell’Università di Tokyo, scorgereste nella maggior parte dei casi la forma di un ovoide di colore vermiglio, privo di arti ma col volto caratterizzato da un gran paio di baffi, il naso stilizzato e due folte sopracciglia, sotto cui, in maniera singolare, campeggia il piccolo cerchio nero di un occhio soltanto. Ma se successivamente alla festa della loro cerimonia di laurea, ancora una volta decideste di evocare il vostro potere, tutti questi soprammobili apparirebbero diversi in un singolo, significativo dettaglio: la comparsa del secondo punto scrutatore, del tutto simile all’organo di caccia di un bizzarro gufo di cartapesta. Come ricompensa per l’aiuto offerto ai suoi devoti proprietari. Egli era, costituisce ad oggi e sarà per sempre Daruma (だるま / 達磨) alias Bodhidarma, alias Bìyǎnhú, anche detto il più santo ed importante di tutti i membri del clero buddhista che abbiano calcato le strade dell’Estremo Oriente. Anzi in effetti a dire il vero, anche il primo, essendogli attestata l’impresa niente affatto semplice di trasportarne l’insegnamento dalla remota India di partenza, lungo le steppe sconosciute dell’Asia centrale e fino ai quattro confini del Celeste Impero Cinese. Tra il quinto e il sesto secolo, probabilmente, molto prima che le ragioni del marketing ed il coinvolgimento religioso di ampie fasce di popolazione portassero all’iniziativa di rappresentarlo come un uovo, forma proto-antropomorfa meritevole di un significativo approfondimento. Questo poiché si narra, tra le molte storie che accompagnano questa figura importantissima, di come una volta giunto nella parte centrale della Cina, la sua venuta venne infine accolta con l’ostilità di strutture clericali pre-esistenti. E quando gli venne negato l’accesso al divino tempio di Shaolin dedicato al perfezionamento delle arti marziali (più simile in effetti a una fortezza, come ben sappiamo) egli decise di fermarsi a meditare all’interno di un’oscura caverna tra le montagne. Per un periodo approssimativo di nove anni, senza mai distogliere lo sguardo dalla sdrucciolevole parete di pietra che sarebbe diventata tutto il suo mondo. Fatta eccezione per quella singola volta, attorno al settimo volteggio del calendario, quando si addormentò accidentalmente per un attimo, decidendo al suo risveglio che l’unica soluzione possibile era tagliarsi via le palpebre. Del tutto. Spirito di abnegazione niente meno che supremo, ricompensato dalla karmica legge d’equivalenza con la nascita istantanea della prima pianta di Tè in quel mistico recesso. Eppure, strano a dirsi, il peggio doveva ancora venire: quando al termine del proprio corso di riflessione e preghiera in stato pressoché assoluto d’immobilità, il supremo asceta scoprì che le proprie gambe e braccia si erano atrofizzate ormai da tempo, ed invero si erano staccate dal busto centrale del suo corpo a digiuno. Così ricevendo al termine del proprio viaggio la benedizione più elevata che fosse possibile pretendere dall’universo e colui che ne conosce il più profondo dei significati, scomparve dalla storia, avendo assai probabilmente ottenuto il Nirvana. E chi l’avrebbe detto che oltre dieci secoli dopo, in un particolare tempio giapponese, ai membri del suo culto millenario sarebbe venuto in mente di raffigurare questa storia nel modo più semplice, diretto e a dire il vero non del tutto privo di un’eclettica dose d’umorismo? Creando i presupposti per far scendere di nuovo Bodhidarma giù dalla montagna. Come un’ovoide sfera di sapienza infusa del più assoluto controllo sul mondo e la natura. Oltre al compito importante, per qualsiasi tipo di cultura, di riuscire in qualche modo a facilitare la vita delle persone…

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