E se qualcuno avesse bisogno di trovare una conferma che “Non mi pare nessuno di voi abbia saputo fare di meglio” costituisce una delle peggiori premesse per giustificare una particolare linea di comportamento, potrebbe risultare assai difficile trovare un periodo maggiormente rappresentativo del secondo conflitto mondiale, quando un serpeggiante senso di condanna pesava sulle scelte delle nazioni e degli uomini, portandoli a scendere a dolorosi compromessi con tutto ciò che era la ragionevolezza, verso la necessità di sopravvivere, ad ogni costo. Nazioni come la Nuova Zelanda ed uomini come Bob Semple, nato nel 1873 e diventato 25 anni dopo un minatore, poi sindacalista ed attivista dei diritti di categoria, finché la partecipazione a diversi scioperi eclatanti lo avrebbe fatto licenziare nel 1903, poi finire un paio di volte in prigione. Contribuendo, nel contempo, a spianargli la strada verso un successivo ingresso in politica, con il soprannome di “agguerrito Semple” dapprima nel concilio cittadino di Wellington, finché le elezioni l’avrebbero investito deputato del partito Laburista a partire dall’epoca della grande guerra. Famoso per l’insolita abitudine d’insultare i suoi rivali usando termini come “canguro”, “kookaburra” e “dingo”, la sua missione principale sarebbe quindi diventata l’abolizione del servizio di leva obbligatorio, che chiamava “la piovra prussiana”. Posizione sostenuta enfaticamente per oltre una decade, finché la marcia della storia non avrebbe finito per portarlo in direzione diametralmente opposta. Così lo ritroviamo, nel 1940, ai vertici del sistema politico con la carica di Ministro delle Opere Pubbliche, ma soprattutto il portafoglio de facto di una mansione che nessun altro avrebbe voluto svolgere: quello di responsabile politico della Guerra. Un concetto certamente aleatorio, per un paese tanto isolato e distante, sebbene le ultime notizie provenienti dal Pacifico avessero causato un certo sconforto tra la popolazione della Nuova Zelanda. Mentre i giapponesi continuavano la loro espansione in terra d’Asia, dimostrando tutta l’eccezionale efficienza di una macchina bellica che sembrava inarrestabile. Con l’Australia impegnata a difendere le proprie stesse coste, e gli Inglesi necessariamente impossibilitati a fornire rinforzi, chi avrebbe potuto dunque intervenire a favore di Aotearoa, la Terra della Lunga Nube Bianca? “…Se non noi stessi.” Ebbe modo di affermare indubbiamente a più riprese, l’uomo politico che questa volta non soltanto sosteneva, ma organizzava l’effettiva coscrizione dei propri connazionali. Rendendosi perfettamente conto nello stesso tempo che nessun addestramento alla guerriglia avrebbe potuto sostituire a pieno l’assenza di armi, veicoli e matériel, ivi incluso lo strumento ormai considerato niente meno che indispensabile di un corpo di fanteria appropriatamente meccanizzato.
Tutti avevano ampiamente chiara nella mente, d’altra parte, l’implacabile efficienza dei carri armati, che tanto avevano fatto per eliminare il concetto di guerra di trincea, dimostrandosi una forza in grado di cambiare drasticamente gli equilibri della guerra in tutto il corso del Novecento. E sebbene fosse possibile affermare che in una situazione di tipo difensivo tali veicoli potessero venire contrastati mediante l’impiego di postazioni fisse, era diventato ormai impossibile condurre un qualsivoglia tipo di manovra bellica moderna senza poter contare almeno su un comparto ragionevole di mezzi d’assalto corazzati. Semple dunque, che credeva fermamente nell’autodeterminazione dei popoli e del proprio destino, ricordò di aver visto tempo prima le illustrazioni per un particolare tipo di carro armato, ricavato dal telaio di un trattore civile. Le cronache storiografiche oggi ritengono che possa essersi trattato del Disston Tractor Tank, una bizzarra e sgangherata proposta statunitense degli anni della grande depressione, nata dall’incontro tra la Caterpillar Corporation e l’omonima segheria poco fuori la città di Philadelphia. Il fatto stesso che una macchina agricola potesse essere allestita come mezzo di combattimento, d’altra parte, non poteva che costituire un significativo incoraggiamento, dinnanzi alla presa di coscienza che in tutta la Nuova Zelanda esistevano soltanto sei cannoni mobili Bren contro l’eventuale assalto del più temibile impero nella storia d’Oriente. Fu così che il celebre politico coinvolse un gruppo d’ingegneri del Dipartimento dei Lavori Pubblici (PWD) di Temuka, guidati da un certo Mr. Beck, per creare un qualcosa che forse non avrebbe mai potuto cambiare le sorti della guerra. Ma sarebbe stato un baluardo sostenuto, se non altro, da un potente senso patriottico e l’orgoglio di un popolo convinto di poter fare qualcosa. Che era comunque meglio di restare immobili ad aspettare l’ora della fine…
conflitti
L’arrugginita lezione storica del cimitero dei carri armati d’Eritrea
Una letterale muraglia a pochi chilometri dalla più importante città dell’Africa trasformata in “colonia” italiana, nell’ormai distante epoca dei totalitarismi moderni. Non composta dei migliori materiali da costruzione, come gli edifici futuribili creati dal gotha dell’architettura fascista, lo svettante Cinema Impero, o la surreale stazione di servizio “Fiat Tagliero” con le sue ali di cemento simili a quelle di un aeroplano. Bensì metallo e fichi d’India, intrecciati in un ammasso indistinguibile ed invalicabile ai bambini locali, i cani randagi e le occasionali guardianìe inviate a sorvegliare i dintorni. Ma che nondimeno continua, insistentemente, ad attirare i più curiosi tra i turisti che dimostrano il coraggio necessario a fare un esperienza di viaggio in uno dei paesi più chiusi e riservati d’Africa, al punto da essere stato chiamato una piccola Corea del Nord. E come biasimarli, in fondo? C’è del fascino in questi vetusti e malridotti rottami. Gusci fin troppo riconoscibili di carri armati T-55 e T-62, circondati da trasporti anfibi BMP-1 e la carrozzeria dismessa di una pletora di camion militari. Qui un Gvodizka, l’antico cannone di grosso calibro usato come nido per gli uccelli locali. Là una scala mobile aeronautica, coperta di agguerriti rampicanti. Davvero il massimo del divertimento! Manca soltanto l’ampio e letterale lago di sangue, risultante da un conflitto interminabile che potrebbe essere costato la vita ad una stima assai conservativa di circa 200.000 persone…
Era una mattina in apparenza simile a ogni altra, quella del 17 marzo 1988 nella regione africana del Tigrè. Un indefinito gruppo di persone proveniente dalla capitale d’Eritrea, Asmara, varcò tranquillamente i confini della valle di Hedai, scendendo per pendii sabbiosi mentre si coordinava a distanza con due gruppi distanti, tramite l’impiego di una serie di ricetrasmittenti a distanza. Giovani, adulti, qualche anziano dall’aspetto indurito dalle molte difficoltà della vita. Facendosi scudo dal sole con il palmo della mano, quindi, l’esperto perlustratore incaricato inviò il segnale necessario per aprire gli zaini e tirare fuori l’equipaggiamento. L’85° divisione meccanizzata dell’EPLF aveva finalmente circondato le guarnigioni armate dell’Esercito Etiope. Al segnale concordato, il vociare diffuso si trasformò in un glaciale ed assoluto silenzio, mentre gli AK47, gli antichi lanciarazzi e le bombe a mano iniziavano a risplendere sotto la luce dell’alba. Era l’ora di tentare il tutto per tutto. Era tempo di guadagnarsi la libertà, o morire nel tentativo di farlo.
Questo particolare capitolo di un conflitto lungo trent’anni, destinato a passare alla storia con il nome di battaglia di Afabet, avrebbe costituito un importante punto di svolta nella lunga disputa belligerante per l’indipendenza politica di un paese di appena tre milioni e mezzo di persone, illegalmente annesso da una nazione che ne contava circa un centinaio sotto l’egida dell’ormai deposto imperatore Hailé Selassié, ormai detronizzato dal remoto 1974 ad opera di una giunta militare socialista guidata dall’uomo forte Mengistu Haile Mariam. Le cui truppe pesantemente armate, grazie a un contributo significativo dell’Unione Sovietica, avrebbero nondimeno incontrato la già dura resistenza proveniente da una tradizione di guerriglia, che aveva radici profonde nella storia di questo popolo e dei suoi eroi. “Per Hamid Idris Awate, uomini, all’attacco!” Gridò un caporale, ricordando l’eroico condottiero che con soli 11 compagni, un anno dopo l’occupazione del 1960, aveva teso un imboscata e disperso le forze della polizia segreta nella regione montuosa di Adal, per poi morire a causa delle sue ferite. Dieci nemici per ciascuno dei loro, così si raccontava, eppure la giustizia prevalse allora. Come avrebbe fatto in quel fatidico giorno, sotto i colpi di una serie di cannoni anticarro catturati e trasportati segretamente in posizione, sufficienti a immobilizzare una colonna di veicoli sulla stretta e tortuosa strada necessaria a lasciare la valle. Così che gli ufficiali etiopi, intravedendo la realistica possibilità che i loro stessi armamenti potessero cadere in mano al fronte di liberazione, diedero l’unico ordine che avrebbe potuto conservarli in sani e salvi dinnanzi all’autorità di Mengistu: bombardare i loro stessi uomini, con un generoso ed entusiasta aiuto da parte dell’aviazione. Fu l’inizio di un disastro senza precedenti, nonché l’accumulo di un quantità eccezionalmente spropositata di rottami. Cadaveri d’acciaio assieme a quelli fatti di carne e sangue, che tuttavia presentavano un problema logistico di un tipo niente affatto trascurabile. Tanto da richiedere il trasporto in un luogo ormai tristemente (nonché, gloriosamente) noto…
Per i vostri duelli nelle notti senza luna: l’acuminato, trasformabile, illuminante scudo a lanterna
Tra le cronache e i diari risalenti all’anno 1603, figura un particolare racconto attribuito al capitano di marina inglese, gentiluomo e vero uomo del Rinascimento Sir Kenelm Dibgy, che racconta di un suo problematico incontro con un gruppo di ribaldi nelle strade di Madrid, a seguito di una cena presso casa di suo zio, conte di Bristol, da cui tornava con suo cugino ed un amico. Frammento in cui si narra di come i tre, identificati soltanto con nomi di fantasia data la natura e l’esito violento dell’inaspettato incontro, avrebbero finito per decimare in un feroce combattimento di scherma i propri avversari, costringendoli alla ritirata. Nonostante la maniera in cui il protagonista della vicenda, già trionfatore di svariati celebri duelli tra cui uno per difendere l’onore del suo re Carlo I, si fosse trovato ad un certo punto in un vicolo cieco, impossibilitato a ritirarsi e abbagliato dalla luce proiettata di molteplici lanterne. Il che, nonostante l’assenza di un esplicito riferimento alla questione, viene considerato da taluni storici come il singolo esempio scritto dell’effettivo impiego di una singolare arma, o implemento di difesa che dir si voglia, che si ritiene aver raggiunto l’apice della propria diffusione proprio in quel particolare periodo storico: un apparato che poteva al tempo stesso deviare il colpo di un nemico, e proiettare dritto nei suoi occhi un fascio di luce potente quanto inaspettato. In pratica, un funzionale esempio di scudo lanterna.
Oggetti di cui possediamo ben pochi esempio ed il cui più celebre rappresentante può essere ammirato oggi tra le sale del Kunsthistorisches Museum di Vienna, pur comparendo innumerevoli volte nelle trattazioni e disquisizioni storiche degli appassionati, come se fosse la cosa più naturale ed utile del mondo. Mentre almeno questo specifico oggetto, dalle dimensioni approssimative di un targe (45-55 cm) presenta tutte le caratteristiche necessarie ad esulare da ogni possibile tentativo di classificazione, impiego logico o tecnica di combattimento documentata. Tondo arnese metallico integrato con un guanto d’arme, con un brocco (chiodo centrale) visibilmente serrato al fine d’intrappolare e spezzare la lama del nemico, esso presenta infatti non soltanto l’essenziale finestrella apribile con sistema d’illuminazione integrato, ma anche un’ulteriore dotazione d’offesa, per così dire, integrata: due aculei collocati sopra il polso dell’utilizzatore, puntati in avanti. Ed una singolare quanto impressionante lama scorrevole, presumibilmente fatta estendere in origine mediante l’uso di un meccanismo ad incastro gravitazionale, se non addirittura un qualche tipo di molla. Completa la dotazione una pratica manopola angolare, da tenere stretta in pugno per meglio manovrare e mantenere in posizione questo pesante orpello durante le fasi più concitate dell’ipotetico combattimento. Ora il reperto in questione, di una provenienza non largamente discussa ma datato al 1540 circa ed attribuito a un costruttore italiano ed associato alla figura del cavaliere Broma Venschwitz, potrebbe anche essere stato un qualche tipo di stravagante decorazione da parata. O ancor più probabilmente, l’iniziativa volta a soddisfare le specifiche richieste di un nobile con più risorse finanziarie che esperienze di combattimento, intenzionato ad impressionare gli amici un po’ come gli odierni seguaci statunitensi della corrente di pensiero tacticool, tuttti pantaloni mimetici, bandoliere tattiche, coltelli a serramanico e dozzine di mirini inutili sopra le proprie irrinunciabili armi da fuoco. Tuttavia è acclarato da diverse indagini, nonché provabile mediante alcuni altri esempi di fattura lievemente meno stravagante, che svariate versioni dello scudo lanterna ebbero modo di diffondersi nell’Europa del Rinascimento, quando l’affermarsi delle armi da fuoco compatte stava iniziando a far passare l’epoca della spada da fianco, sebbene in molti tardassero a liberarsi delle proprie vecchie abitudini e sicurezze, incluso il trasporto inseparabile di qualche doppia spanna d’affilato acciaio. Sono questi gli anni, d’altra parte, in cui le molte scuole di scherma pre-esistenti approdarono verso quello che potremmo definire una sorta di Manierismo dell’uccisione ritualizzata in duello o fuori da esso, riconducibile in maniera estremamente diretta al contesto letterario, nonché pratico, del trattato del 1410 del Flos Duellatorum o Fior di Battaglia, del grande insegnante di scherma di Cividale del Friuli, Fiore dei Liberi. Che nella sua progressione di capitoli affronta a turno il combattimento con una e due spade, con spada e pugnale, con spada e cappa e soprattutto l’utilizzo del cosiddetto brocchiero, uno scudo tanto piccolo da essere considerato un pezzo “d’armatura mobile” da manovrare ed anteporre all’arma dell’avversario, al suo braccio, al volto tanto spesso privo di protezioni. Strumento particolarmente temibile, molto spesso aculeato, e che lo stesso Machiavelli, oltre un secolo dopo avrebbe ancora associato all’agile fanteria spagnola, capace d’impiegarlo al fine di deviare i colpi dei lanceri ed attaccarli dal basso, scardinando istantaneamente la formazione difensiva delle controparti…
Dornier Do 335: l’insolita freccia scagliata due volte negli ultimi giorni del Reich
Se solo fosse stato completato in tempo… Il paradigma in grado d’invertire la tendenza… Un’arma fuori dal contesto di quell’epoca e per questo totalmente priva di contromisure efficienti: l’interpretazione storiografica della tecnologia tedesca per tutto il corso della seconda guerra mondiale, ma soprattutto verso l’epilogo di quel conflitto, appare letteralmente piena di quelle che sarebbero state definite retrospettivamente Wunderwaffen o “armi meravigliose”, implementi bellici talmente sofisticati e moderni, almeno nell’idea dei loro progettisti, da poter riuscire a dominare i campi di battaglia contro le forze ormai numericamente superiori che avevano circondato la Germania, validando un laborioso e disperato sforzo necessario a preservare ciò che ancora rimaneva dei sogni di conquista del grande Reich. Rimasti largamente allo stato di prototipo, o addirittura un semplice progetto sui tavoli da disegno, simili veicoli, aerei, cannoni ed altre armi, talvolta furono capaci di concretizzarsi con una produzione in serie, destinata tuttavia a rivelarsi meno rivoluzionaria di quanto sperato; vedi il caso del carro armato Panzer VI Tiger II, semplicemente troppo pesante e inaffidabile per riuscire a raggiungere efficientemente i luoghi in cui far uso della sua potenza di fuoco, o il primo caccia a reazione Me 262, che pur essendo velocissimo e imprendibile, poteva decollare solamente da un basso numero di basi dotate di piste asfaltate, finendo per attirare su di se tutti i bombardamenti delle forze alleate. Vi sono poi taluni casi di creazioni, potenzialmente valide, capaci di raggiungere lo stato di pre-produzione in serie con svariate decine di esemplari. E che avrebbero probabilmente dato un qualche tipo di valida prova in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo necessario a implementare le nuove, complesse catene di montaggio a margine di una tale idea.
Dornier Do 335 Pfeil (“Freccia”) fu un bimotore progettato dall’omonima compagnia di Friedrichshafen, presso il lago di Costanza, sulla base di una particolare inclinazione progettuale dello stesso industriale e in precedenza ingegnere aeronautico allievo del grande Ferdinand von Zeppelin, Calude Dornier. Il quale aveva avuto modo di sperimentare, durante il corso del primo conflitto mondiale, la maniera in cui un idrovolante potesse trarre beneficio dall’impiego di una serie di motori disposti a coppia, in cui uno spingesse e l’altro tirasse i due rispettivi lati di ciascun pilone di sostegno. Il che permetteva di ottenere una configurazione non soltanto più compatta, e per questo in grado di trovare posto ben lontano da eventuali schizzi o il flusso dell’acqua in fase di decollo ed atterraggio, ma anche funzionale a ridurre la naturale tendenza dell’aereo ad inclinarsi lateralmente, per l’effetto della terza legge di Newton (“Ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria.”) Ma ancor più notevolmente, a parità di numero d’impianti sporgenti verso l’alto consentiva di ridurre la quantità di barriere capaci di ridurre le prestazioni aerodinamiche del velivolo, incrementandone esponenzialmente la velocità. Con l’aumento progressivo di potenza disponibile ai fini delle macchine aeronautiche, quindi, tale merito passò progressivamente in secondo piano, mentre una quantità di un massimo di quattro motori riuscì a dimostrarsi sufficiente, nella maggior parte delle circostanze, a trasportare il carico a destinazione. Ma c’era un particolare tipo d’implemento bellico, tra tutti, che poteva ancora beneficiare di un sistema affine: l’intercettore pesante o zerstörer (distruttore) come erano soliti chiamarlo in territorio tedesco, aeroplano concepito per abbattere i sempre più numerosi bombardieri nemici, oltre a combattere occasionalmente contro i più agili caccia monomotore schierati in grande numero dagli avversari nella guerra d’Europa. Il che iniziò a prendere forma con il P.59 che fu sottoposto agli ultimi perfezionamenti nel 1939, finché l’anno successivo Hermann Göring non diede l’ordine di porre fine al progetto a lungo termine, causa l’ideale conclusione della guerra che lui riteneva prossima al completamento, pur riconoscendo i meriti di quell’atipico posizionamento dei motori. Il che avrebbe permesso, al trascorrere di ulteriori due anni, a Dornier di riproporre un apparecchio simile, come risposta al progetto per un incursore/bombardiere veloce (schnellbomber) rispondente a simili caratteristiche, quello che sarebbe emerso dagli hangar sperimentali con il numero di fabbrica CP+UA, aprendo la strada ad un nuovo possibile sentiero e soluzione tecnica per l’intera storia futura dell’aviazione.