Strani ponti e l’oblunga interazione paesaggistica del museo fluttuante

“Ho camminato sulle acque immaginando un mondo in cui uomo e natura possano coesistere in modo pacifico, lasciandomi alle spalle le ingombranti implicazioni della società moderna.” È il tipo di asserzioni che potrebbe assecondare, nel giusto stato d’animo, lo Zai Shui Meshuguan 在水美術館 (Museo dell’Arte dell’Acqua) recentemente inaugurato nel bel mezzo di un lago artificiale presso la città di Rizhao, nella provincia dello Shandong. Con l’aiuto di un architetto che rientra a pieno titolo tra i principali specialisti del suo ambito, nel tradurre il linguaggio abitativo riuscendo ad inserirlo in un contesto pre-esistente, talvolta, persino all’esistenza dell’uomo stesso. Qualcosa che qui Jun’ya Ishigami, lavorando come scultore ancor prima che architetto, sembrerebbe aver perseguito mediante il più eclettico ed inaspettato degli approcci: costruendo una lunga linea grigia dell’estensione di un chilometro, caratterizzata da una sottile striscia di cemento in qualità di tetto. Per uno spazio utilizzabile all’interno di 20.000 metri quadrati, con una larghezza media di 10 metri e senza mai superare i 20. Ciò affinché la città committente, come si confà al nuovo ruolo di centro culturale regionale, possa beneficiare di uno spazio utile per mostre d’arte, esposizioni ed eventi. La cui diretta sperimentazione già costituisca, in modo atipico nonché desiderabile, una via d’introduzione alternativa al tema. Quello stesso discorso inseguito, in molte maniere parallele, da una parte significativa dell’architettura sostenibile contemporanea, benché si tratti molto spesso di una conseguenza di fattori superficiali, motivati dal desiderio di ottenere certificazioni e riconoscimenti. Laddove l’eventualità che si possa nel presente caso essere giunti a tanto appare arbitrariamente subordinata, persino secondaria alla necessità di realizzare un tutt’uno coerente. L’effettivo luogo di transito tra l’esistenza tangibile di un monumento, e l’inconscio. La caratterizzazione, in altri termini, di un percorso meditativo in cui l’acqua viene lasciata compenetrare liberamente in mezzo ad una letterale foresta di 300 colonne metalliche, il cui ripetersi è stato previsto come irregolare, possibilmente al fine d’esemplificare l’imprevedibile progressione dei processi inerenti. Gli stessi responsabili di aver creato, come sfondo, le iconiche montagne di Wulian e Fulai, assieme al resto di quella catena elegantemente ripresa dall’ondulatorio andamento del museo lineare. Il cui ingegno procedurale, ed utili implicazioni funzionali, non si esauriscono senz’altro in questo…

Leggi tutto

Magica Detian, mistica Ban Gioc: la spettacolare convergenza delle acque sul confine Vietnamita

Invero il paesaggio non possiede alcun concetto della propria bellezza. Neppure una traccia della consapevolezza che caratterizza i membri di categorie viventi. Esso abita e sussiste le sue circostanze, come mera conseguenza dei fattori ambientali di sviluppo, erosione e incontro geologico tra i flussi convergenti della materia. Solidi, gassosi e… Scorrevoli. Scroscianti! Come il suo che riecheggia tra le valli verdi situate a 270 Km a nord di Hanoi, la capitale. E ad un lancio di frisbee dal punto fatidico in cui ogni cosa cambia, pur restando essenzialmente la stessa. Là dove le mappe cessano di dire “Paese del Meridione” sostituendolo con “Terra di Mezzo”, uno dei territori nazionali più vasti e potenti al mondo. I cui confini, fin dall’epoca della Grande Muraglia, non permettono di transitarvi facilmente all’interno. Ma alle acque non importa tutto questo; esse transitano, con assoluta e preponderante indifferenza, là dove le pieghe del terreno tendono ad indirizzarle. Oltre il paesaggio carsico e dentro un vasto bacino. Quello degno di accogliere, in parole povere, la quarta cascata transnazionale al mondo, dopo quelle d’Iguazu, Victoria e Niagara. Un flusso d’acqua pari a 55,20 metri al secondo, con una larghezza di 100 metri per un’altezza di 90. Benché sarebbe più corretta forse definirla un sistema. Essendo essa composta da due diramazioni distinte del fiume con origine nella regione del Guanxi, il rapido, ma non grandissimo Quay Son. Così da creare, differentemente dagli altri luoghi citati, due spettacoli dalla portata comparabile, ma dimensioni non identiche, da un lato all’altro della saliente demarcazione. Uno è quello della vasta e ponderosa cascata di Detian, così chiamata fin dai tempi dell’antica letteratura cinese. Coerentemente contrapposta alla sua “sorella” sensibilmente più minimalista, il grande balzo che i vietnamiti definiscono Ban Gioc. Due realtà distinte in grado di convergere nelle stagioni della pioggia eccezionalmente intensa, creando un fronte d’acqua indiviso che si estenderà per 208 metri. Facendo scomparire i versanti verdi dell’intero balzo, ricoperti di una significativa quantità di piante la cui resistenza alla possenza di quel flusso non può essere chiamata niente meno che leggendaria. Eppure non è solo nel sussistere di tali circostanze che la gente viene a visitare questo luogo, più volte incluso negli elenchi dei siti turistici e panoramici più belli di tutta l’Asia Orientale, ancorché non si conosca in modo particolare fuori dalla vastità geografica di quel continente. Forse a causa della grande attenzione riservata negli studi di cultura, storia e società di quei popoli, tendente a sovrascrivere una consapevolezza cognitiva globalizzata dei luoghi dove questi scelsero d’insediarsi. Parte di un ambiente, a conti fatti, non meno eccezionale o notevole di qualsiasi altro continente…

Leggi tutto

Il ponte naturale del castello sospeso in mezzo al canyon americano

La disponibilità di fonti d’acqua ha in tutto il mondo influenzato e caratterizzato la progettazione urbanistica delle antiche civiltà. Poiché non può sussistere un insediamento, dove la questione idrica resta irrisolta, rendendo l’acqua uno dei carburanti imprescindibili dell’aggregazione umana. Eppure paradossalmente furono proprio alcuni dei gruppi etnici confinati in territori particolarmente aridi, ad industriarsi per trovare fonti dove non pareva essercene alcuna, costruendo dighe, serbatoi di cattura della pioggia, deviando il corso di piccoli fiumi o torrenti. Gli Anasazi furono dei veri maestri in questo, edificando il proprio lascito immanente soprattutto nei secoli tra il decimo e il quattordicesimo d.C, nella regione progressivamente più inospitale dei Quattro Angoli, situata in corrispondenza dell’incontro tra gli stati rettangolari di Utah, Colorado, Arizona e Nuovo Messico. Eppure, persino tra l’ampio novero delle rovine delle loro costruzioni, spesso incorporate nei paesaggi rocciosi o sopra il ciglio dei burroni, riesce a distinguersi la possente cittadella di Road Canyon, nella regione archeologica di Cedar Mesa presso la contea di San Juan nello Utah. Per inaccessibilità ed potenza strategica, ma anche l’apparente surrealismo del suo contesto. Poiché come avrebbe mai potuto resistere a un assedio, un luogo tanto lontano da approvvigionamenti o spazi di stoccaggio idrico latente?
Rovina accertata come risalente al periodo tardo di queste genti, quando le poche comunità rimaste si combattevano in modo pressoché costante le risorse di cui disponevano giungendo spesso a praticare il cannibalismo, questo vero e proprio castello dei cieli avrebbe dunque potuto costituire essenzialmente una di due cose: un sito di stoccaggio per il cibo facilmente difendibile, la cui posizione non sarebbe stata facilmente individuata dall’esercito nemico. Oppure una fortezza temporanea dove ritirarsi per la propria ultima e più strenua resistenza, in maniera analoga a quanto teorizzato nella battaglia tolkeniana del Fosso di Helm. Il che non impedì d’altronde all’ignoto gruppo di Anasazi d’industriarsi a costruirvi un vero e proprio villaggio, incuneato come di consueto sotto il tetto sporgente di una grande pietra d’arenaria color ocra, mediante l’uso di mattoni di adobo per mura solide e durature. Ma accessibile soltanto mediante una struttura geologica tanto spettacolare quanto pratica nel suo contesto evidente; sostanzialmente una cengia o penisola verso il singolo pilastro centrale, posizionato al centro di uno strapiombo alto almeno una trentina di metri. Immaginate dunque di avanzare lungo quel tragitto in un malcapitato tentativo di conquista. Senza valide armature o scudi per proteggere i propri guerrieri, sotto il tiro continuo di frecce, lance ed altri appuntiti implementi, nel tentativo disperato di porre fine ad un conflitto ormai da tempo senza quartiere. Un luogo come questo avrebbe potuto costituire la condanna, in modo ragionevolmente equanime, sia degli aggressori che dei suoi stessi abitanti…

Leggi tutto

Le spine uncinate dell’obelisco che fiorisce una volta ogni cento anni

Scarno, brullo e largamente disabitato, il paesaggio al di sopra di una certa quota della Ande boliviane e peruviane ha molto in comune con un pianeta decisamente meno ospitale di quello terrestre. Eppure nonostante questo, creature delicate come i colibrì lo sorvolano fino alla quota di 3.000-4.000 metri, potendo contare sul proprio metabolismo accelerato nello sfruttamento efficiente dell’ossigeno rarefatto che vi sussiste. Andando in cerca, per riuscire ad alimentarsi, delle poche piante fiorite non più alte in genere di una trentina di centimetri, piccole stazioni di sosta sull’autostrada della loro esistenza. Benché vi siano luoghi dove, una volta ogni tanto, tali abitatori degli spazi celesti si ritrovano al cospetto della vera abbondanza; in questo caso personificata da un’impressionante colonna, svettante grattacielo delle circostanze. Fino ai 15 metri di un palazzo letteralmente ricoperto da svariate migliaia di fiori, così creato dall’ingegno naturale al fine di lanciare verso l’infinito la propria prole. Non che la titanca, Puya raimondii o “regina delle Ande” come viene talvolta chiamata, rappresenti una vista particolarmente diffusa né comune. Benché la presenza e sussistenza dei cosiddetti bosques (foreste) disseminate per l’estendersi di un tale territorio ne dimostri la ragionevole efficienza nel preservare loro stesse, spesso a discapito di un’umanità largamente ostile. Il che potrebbe anche sorprendere, di fronte alla bellezza estetica di un tale arbusto, finché non si scorge qualcosa di assolutamente insolito ed alquanto impressionante: le letterali dozzine di uccelli morti per ciascuna pianta, rimasti intrappolati mentre tentavano di costruire il nido a più livelli di questo invitante condominio. Stolido ed indifferente al tipo di sofferenza che tende a causare, incidentalmente, anche a creature dalle dimensioni decisamente maggiore. Vedi il caso delle pecore ed altri animali da fattoria, che notoriamente tendono a restare intrappolati nella parte inferiore del maestoso vegetale, dalla forma di uno sferoide asteriscale non dissimile da quella di una yucca o pianta di aloe. Con la fondamentale, spietata differenza, di essere sostanzialmente ricoperta di un fitto strato di spine ricurve simili ad uncini, che invitano e permettono all’erbivoro di avvicinarsi. Per poi afferrarne il pelo impedendogli sostanzialmente di tornare indietro, il che lo porta, agitandosi, a incastrarsi sempre più all’interno ed in alto nel crudele roveto. Al che fa seguito l’idea, largamente ingiustificata, che tra tutte le appartenenti al genere Puya questa sia l’ultima a vantare le caratteristiche di una pianta proto-carnivora, con alcune limitate capacità di digerire la propria “preda”. Laddove la sua tecnica di autodifesa trae l’origine, piuttosto, di proteggere qualcosa di estremamente raro ed insostituibile: il fugace momento della propria spettacolare fioritura…

Leggi tutto