42 caratteri d’artista: la trasformazione delle vecchie macchine “da disegno”

A distanza ormai di quasi mezza decade dall’inizio degli anni del Covid, è possibile gettare indietro uno sguardo obiettivo, scorgendo assieme ai molti aspetti negativi alcuni risvolti inaspettati, che hanno aperto porte inaspettatamente positive ai processi umani. Nuovi sistemi, nuovi metodi, sentieri verso l’introspezione personale. E nel caso di talune figure creative, un cambio di carriera necessario a illuminare agli occhi della collettività i meriti notevoli della loro arte. Tra le schiere di costoro può naturalmente figurare il millennial James Cook, all’epoca studente di architettura, che ormai da tempo aveva individuato come origine della propria passione non tanto progettare gli edifici, quanto trasferirli tramite un approccio assai particolare su carta. Un tipo di prassi figurativa, il suo, ma ben diverso da quello di Hans Vredeman de Vries, Dirck van Delen o Giambattista Piranesi. Giacché semplicemente disegnare linee rette ed ombreggiarle a dovere avrebbe fatto ben poco per distinguerlo dagli utilizzatori odierni dello strumento informatico e gli approcci fin troppo pratici della digitalizzazione. No, piuttosto qui l’artista guarda indietro e sceglie di farlo tramite l’approccio maggiormente asettico ed impersonale, tra tutti quelli disponibili a partire dalla fine del XIX secolo. Avete mai pensato, a tal proposito, di disegnare usando una sferragliante, metallica, razionalistica macchina da scrivere? Il tipo di strumento che usavano i nostri nonni, per semplificare la scrittura in un mondo in cui ancora gli errori non potevano essere cancellati senza conseguenze, ed il cambio del rullo d’inchiostro era un compito rischioso riservato all’ultimo arrivato dei contesti d’ufficio. Forse non il più pratico degli approcci a disposizione, giungendo a richiedere un minimo di cinque giorni per il completamento di un foglio A4. Ma infuso di un fascino che viene dal più puro e incontrovertibile eclettismo.
Così avreste potuto scorgerlo a partire da quei giorni, in una città di Londra recentemente riaperta e ancora priva delle moltitudini che adesso affollano di nuovo quei quartieri, mentre seduto presso un punto panoramico o all’incrocio di due strade batteva concentrato su quei tasti di bachelite. Più e più volte lo stesso tasto, con l’approccio collaudato d’impiegarne alcuni con finalità specifiche: la “@” per ombreggiare spazi, vista la superiore quantità d’inchiostro nero che contiene; la E maiuscola per fare le finestre; la “O”, sormontata da una “o” più piccola e sostenuta da una “I” strategica, per rendere l’idea di figure umane innanzi ai più celebri palazzi e monumenti. Essi stessi una sapiente commistione di linee, trattini, punteggiatura e anche veri e propri brani testuali…

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Zimoun e l’indeterminazione acustica di una sinfonia di oggetti del quotidiano

Non è particolarmente insolito decidere di mantenere al centro dei propri pensieri condizioni o circostanze memorabili della propria infanzia. Incluso il soprannome scelto, in questo caso dai coetanei con cui trascorreva liete giornate a Berna, Svizzera, per colui che in seguito sarebbe diventato il più encomiabile, citato demiurgo delle sinfonie corali prodotte dalla chincaglieria del mondo. Non possiamo dire di conoscere d’altronde quale sia il significato di quel termine, Zimoun, mentre molto più condivisibile risulta essere l’altro residuo di quell’epoca, così frequentemente citato da costui in occasione delle plurime interviste rilasciate nel corso degli ultimi vent’anni: la grande stufa che lo affascinò all’interno della casa dei suoi genitori. Oggetto oblungo di metallo lucido, il cui rombo sostenuto, ed il ticchettio prodotto al cambio di temperatura, diventarono per lui l’equivalenza di un potente sentimento, ovvero la profonda risultanza di trovarsi avvolto da uno spazio, la sua musica, l’odore e l’imponenza dei mutamenti. Così che, crescendo, pur senza posizionarsi come il ricevente di un’educazione artistica formale, egli avrebbe elaborato nella propria mente un metodo per scorporare e interpretare il mondo. Forse il più difficile tra i molti, questa costruzione di complesse installazioni artistiche, destinate a diventare benvolute dalle mostre, gallerie e spazi museali di ben oltre la metà del mondo. Attraverso l’evoluzione progressiva di una tale tecnica, difficile da ricostruire nonostante la pesante complessità delle disquisizioni pseudo-biografiche che lui stesso, o altri, si sono preoccupati d’inserire su Wikipedia, tali opere si sarebbero così guadagnate alcuni fattori estetici ricorrenti: l’utilizzo privilegiato di materiali di recupero o similari, la modularità ripetuta in grado di portare solamente in apparenza alla monotonia, la produzione auditiva di un chiacchiericcio di suoni stocastici, inerentemente difficili da prevedere. Ancorché lo stesso Zimoun ami ripetere che la sua arte non produce meramente musica, costituendo più che altro l’effettiva comunione delle percezioni sensoriali sovrapposte, perciò quello che si sente, assieme a quelle immagini tracciate dalle luci ed ombre, costituiscono elementi a pari merito importanti di un processo la cui complessità trascende il singolo momento. Evolvendosi attraverso profusioni caotiche soltanto in apparenza…

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Lo spettro aumentato nell’opera del graffitaro che interpreta le strade dell’epoca digitale

Per chi è cresciuto valutando quotidianamente il punto d’interconnessione tra il mondo analogico e quello informatizzato, sperimentando sulla propria stessa pelle la trasformazione di un’epoca situata in bilico tra due diversi modi di vivere la tecnologia nell’era post-moderna, il mondo dei graffiti ha per lo più rappresentato uno specifico retaggio, utile ai nostalgici di un modus operandi ancora collegato alla necessità di fare, per esserci; visitare, prima di poter lasciare il segno. E al di là di considerazioni sulle connotazioni abusive o anti-sociali di chi appone tags o altre figure sulle pareti di edifici disinteressati alla questione, non sarebbe irragionevole all’inizio del secondo quarto di secolo, se abbiamo visto già da tempo nascere l’ultima generazione di quest’arte che ha radici nelle strade dell’Antica Roma, avendo rispecchiato spesso i sentimenti e la visione di un significativa parte delle civiltà intercorse da quei giorni distanti. Ma voglio dire, impugnare (oggi) la bomboletta con le proprie stesse mani? Sporcarsi nel tentativo di raggiungere qualche migliaio di persone, quando il supporto comunicativo di cui tutti disponiamo può raggiungere rapidamente il mondo intero, trasformando l’idea in ispirazione, la personalità in rappresentanza delle moltitudini aggregate dalle circostanze latenti? Non che i contrapposti approcci siano mutualmente esclusivi, s’intende. Ma tendono a richiedere modalità ed approcci radicalmente contrapposti. Ed è nell’intercapedine tra questi estremi, in fin dei conti, che trova il proprio spazio creativo Bond Truluv, al secolo Jonas Ihlenfeldt, artista poco più che quarantenne di Lipsia, Germania. La cui modalità espressiva, dopo oltre 20 mostre tenute in giro per il mondo, può essere formalizzata nell’inflazionata connessione tra l’Antico e il Moderno. Così come gloriosamente espressa, attraverso i molteplici canali paralleli dei social media: Facebook, Instagram, YouTube, TikTok… Altrettante candide pareti, ove la semplice pittura di un muro può diventare un qualche tipo di arte performativa. Non soltanto tramite la ripresa lineare dell’opera in corso di realizzazione, ma tramite una scenografica fruizione che prevede lo strumento digitale e tende addirittura a incoraggiarne l’impiego. Come nel caso del pesce d’oro dalle proporzioni monumentali dipinto nel 2019 sulla parete di un asilo ad Hagen. Che una volta inquadrato con il cellulare, gira su stesso, si anima, nuota tra le lettere e saluta gli spettatori…

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La torre post-apocalittica creata per imporsi tra i rigorosi poligoni tokyoiti

Scegliere una strada nella vita può essere, a seconda dei casi, molto più o molto meno di quanto serva a definire una persona. Ma è decisamente raro che una simile espressione, in senso letterale, finisca per riferirsi in modo letterale al posto in cui costui intenderebbe andare ad abitare. Con il condizionale d’obbligo, nel caso di Keisuke Oka, eccentrico ingegnere, architetto, ballerino, scultore, muratore, operaio, costruttore del sogno e tutto ciò che in esso è contenuto. Meno la possibilità di passare inosservato. Il che risulta essere tanto più eccezionale, visto il luogo in cui ha potuto scegliere di dar sfogo al suo ineccepibile senso creativo: 4 Chome-15 Mita, Minato City, non troppo distante dal porto di Tokyo. Quasi di fronte, in effetti, al prestigioso edificio dell’ambasciata del Kuwait, un avveniristico esempio di modernismo progettato dal celebre architetto Kenzo Tange. Il cui profilo iconico, vagamente simile ad un’astronave, potrebbe letteralmente figurare in un minor numero di foto, ora che l’Arimaston Building, ufficialmente terminato dopo oltre 20 anni di tribolazioni, ha visto rimuovere la propria pudica copertura da cantiere. Rivelando… Ah, è davvero possibile descriverlo a parole? Guardate, stupite. Dimenticate per qualche secondo da dove venite. Quest’oggetto fuori dal contesto, a suo modo non meno incredibile di quanto potrebbe esserlo una manifestazione interdimensionale, il Castello Errante o la scuola di Harry Potter, appare come un edificio fuso e rimesso assieme col calore del fuoco di drago. La casa infestata del perfetto romanzo J-Horror. Un bunker bombardato nel futuro derelitto mostrato nella serie cinematografica Terminator. Le sue mura organiche e contorte, che a quanto si narra sarebbero valse al creatore il soprannome parzialmente meritato di “Antoni Gaudì di Mito” s’intrecciano in un susseguirsi di superficie oblique interconnesse, sghembe ed improbabili, mentre pezzi di armatura in acciaio fuoriescono come altrettante costole arrugginite, dai lati e dal tetto, inframezzati da finestre geometricamente simili agli occhi di un insetto fuori misura. Persino le grondaie, spiraleggianti e trasparenti, ricordano le bocche di un fantastico strumento musicale. Questa palazzina costruita interamente in un calcestruzzo speciale, il cui nome costituisce un’amalgama delle parole giapponesi Formica-Pesce-Falco (c’è anche un cartello illustrato) si erge dunque come la grigiastra dimostrazione di quale punto estremo possa essere raggiunto in architettura, se davvero si ha il coraggio di lasciarsi indietro ogni residuale convenzione acquisita.
Potendo fare d’altro canto affidamento su risorse pecuniarie non indifferenti, tempo da vendere e la capacità d’interfacciarsi in modo diplomatico con le autorità edilizie della singola città più popolosa al mondo. Con quest’ultima dote, nel ricco repertorio di Oka, capace indubbiamente di costituire quella più singolarmente sviluppata, vista l’improbabile capacità d’imporsi con il proprio monumento urbano, nel contesto culturale in cui il conformismo e la capacità di passare inosservati costituiscono delle qualità da elogiare nell’individuo. Soprattutto, nel moderno Giappone, per quanto concerne l’accurata scelta di una carriera…

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