La grotta dipinta dagli uomini prima che giungesse il mare

Ogni grande avventura inizia con un primo passo, fatta eccezione per quelle, talvolta ancora più incredibili, che individuano il proprio esordio nel momento di un tuffo. Dal ponte di una barca, situata in posizione strategica, ovvero in corrispondenza di uno di quei luoghi che costituiscono il punto di contatto tra l’universo dello scibile acquisito e tutto quello che risiede oltre il suo confine, ovvero l’assoluta novità di un qualche cosa di dimenticato. Che prepotentemente torna al centro delle discussioni, grazie all’opera di un singolo e ambizioso visionario. Dopo tutto cos’è uno speleologo, esploratore delle grotte più o meno sommerse, se non il cercatore di tracce ovvero valido pioniere, capace di raggiungere sentieri assai lontani dagli acclarati limiti del senso comune. Benché persino lui sarebbe poco incline, nella maggior parte delle circostanze, a ritrovare il segno di un’antica civiltà, soprattutto se per giungere in tal posto si è dovuto immergere a più di 37 metri nelle acque salmastre che circondano un continente. E non è forse, proprio questa, una prova, ovvero il nesso dell’intera narrazione? Molte delle trattazioni relative alla grotta francese di Cosquer situata non troppo lontano dalla città costiera di Marsiglia, ne hanno fatto un’argomentazione particolarmente difficile da accantonare. In merito all’incombente innalzamento del livello dei mari. Poiché in assenza di tale fenomeno, l’unica possibile spiegazione alternativa è che tra i 27.000 e 19.000 anni prima di questa data, nell’assoluta oscurità, una rilevante quantità di uomini preistorici abbiano nuotato fin qui a rischio della propria stessa sopravvivenza. Per poi mettersi, nel poco tempo a disposizione prima dell’esaurimento dell’aria, a dipingere 200 figure parietali, tra realistiche rappresentazioni di animali come cavalli, bisonti, antilopi, cervi e felini. Oltre ad alcune figure antropomorfe con vistose caratteristiche sessuali e l’onnipresente “stencil umano” del neolitico, ovvero la sagoma di mani attorno a cui è stato spruzzato del pigmento colorato, probabilmente dalla bocca stessa del suo creatore. Esattamente il primo segno individuato, quest’ultimo, nell’ormai remoto 1991 durante una delle esplorazioni successive alla prima scoperta di Henri Cosquer, nel periodo in cui stava tentando di trovare i confini di questo mondo sommerso con l’aiuto dei fratelli belgi Bernard e Marc Van Espen. Ma poiché nessuno stato di grazia può durare per sempre, è a questo punto che le voci cominciarono a girare, raggiungendo l’orecchio di altri sommozzatori che speravano di fare la scoperta del decennio, non tutti necessariamente cauti, né abbastanza esperti da scongiurare il pericolo latente. Fino al tragico incidente datato al 9 luglio 1991 quando tre subacquei provenienti da Grenoble, sollevando accidentalmente una quantità eccessiva di sedimenti dal fondo del lungo ed inclinato tunnel d’accesso, si ritrovarono disorientati non riuscendo più ad uscire prima dell’esaurimento dell’ossigeno. Così che, dopo aver partecipato al recupero dei corpi assieme al collega Yann Gogan, i primi frequentatori della grotta non hanno altra scelta che dichiararne ufficialmente l’esistenza presso l’Ufficio degli Affari Marittimi di Marsiglia. Inizia, a questo punto, un lungo periodo di studi ed approfondimenti…

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L’arte della guerra povera e la lunga storia dell’armatura di carta cinese

Attraversata da occasionali periodi di disordini e divisioni, la storia della Cina antica può essere vista come la ripetizione di fondamentali eventi: primo, l’ordine costituito collassa, per l’effetto di un rapido susseguirsi di disastri naturali, carestie e ribellioni. Secondo, potenti signori locali organizzano una serie di regni che cominciano a farsi apertamente la guerra, grazie all’opera lungamente celebrata di numerosi combattenti ed eroi. Terzo, una dinastia emerge sopra le altre dalle nebbie turbinanti del Caos, accompagnata dal vessillo sotto cui le armate marciano e pongono fine alle altrui ambizioni di usurpare il legittimo potere ereditario. Quarto, tra le alte mura della capitale, gli studiosi operano al fine di legittimare e dare lustro alle pregresse discendenze dei sovrani seduti sopra l’altro scranno del nuovo governo. Ed è in questo momento normalmente, come avvenuto per i Song settentrionali mezzo secolo dopo il nostro anno Mille, che vengono redatte le cronache relative all’Era recentemente conclusa, all’interno di testi come lo Xīn táng shū (新唐书 – Nuovo Libro dei Tang) di 225 articolati volumi. Ma il lungo periodo di pace e prosperità portato a compimento poco prima di quel doloroso cambio di ordine universale, spesse volte, può condurre alla possente e sconfinante fioritura delle arti, mestieri e la ricchezza del costume dei potenti. Tanto che, si narra tra le pagine di tale testo, al termine di quegli anni l’abbigliamento marziale aveva trovato modo di esprimersi attraverso una pluralità di materiali letteralmente inesplorata in qualsiasi altro luogo o periodo del mondo, ivi inclusi legno, lacca, pelli di creature d’ogni tipo. Oltre alla seta e… La carta. Qualcosa d’insolito, senz’altro. Ed altrettanto inutile al di fuori di parate o semplici occasioni mondane, giusto? Intuitivamente, questo sarebbe stato il preciso destino di simili implementi, così come avvenuto in ogni altro luogo al mondo. Se non fosse stato per la figura del visconte Xu Shang, nobile di quinta generazione in buona parte responsabile della pacificazione dai barbari settentrionali dello Hezhong (odierna zona dello Shanxi) nell’858 d.C. alla guida di un corpo di mille uomini altamente addestrati e ben equipaggiati, che sarebbero passati alla storia come l’Armata Bianca. Questo per la loro insolita scelta in materia di protezioni da battaglia, consistente essenzialmente nella stessa candida e piatta sostanza mediante cui era stato redatto lo Xīn táng shū. E c’è qualcosa di profondamente poetico, nell’idea di un’invenzione risalente al 50 d.C, in base a una leggenda legata alla figura dell’eunuco della corte Han, Cai Lun, impiegata questa volte al fine concreto di proteggere i confini di quello stesso paese, ad oltre 10 secoli di distanza. Benché lungi da essere un’immagine priva di effettivo senso pratico e funzionale, l’armatura di carta possedesse già in linea di principio alcune delle caratteristiche fondamentali dell’odierno kevlar, risultando leggera e flessibile, pur potendo facilmente deviare o assorbire l’energia cinetica di un colpo vibrato di taglio oltre alla maggior parte delle frecce lanciate all’indirizzo del suo portatore. Secondo alcuni, persino eventuali palle dei primi rudimentali archibugi. Essa era inoltre leggera e flessibile come nessun altro materiale poteva aspirare a dimostrarsi, essendo destinata a risultare particolarmente utile nelle campagne successive compiute dai Song, finalizzate al recupero dei territori meridionali che erano stati nel frattempo conquistati di cosiddetti dieci regni. Avendo cura che le protezioni di questa tipologia non scendessero eccessivamente al di sotto della vita dei soldati, finendo per bagnarsi nelle numerose paludi e risaie di quei territori. I vestimenti bellici a base di cellulosa, come potrete facilmente immaginare, resistevano difficilmente all’umidità…

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La più famosa spada del Cid, fulgido tesoro marziale di Spagna

Un raro esempio di eroe nazionale proveniente dall’ambito delle persone comuni, piuttosto che implicito depositario di una schiatta particolarmente rinomata, Rodridgo Díaz de Vivar detto “El Cid” avrebbe finito per incarnare al termine dell’Alto Medioevo la figura del guerriero ideale, capace di attenersi a un codice comportamentale dignitoso e nonostante ciò farsi temere in molteplici campi di battaglia, grazie alle sue rinomate abilità tattiche e guerriere. Un tipo di carriera che semplicemente, all’epoca, non poteva esulare dal possesso di attributi iconografici particolari, tra cui l’essenziale arma definita a più riprese come “spirito della nobiltà” o “simbolo della cavalleria” per il suo potere simbolico capace di accomunarla alla figura stessa di un essere umano, ma anche la croce stessa di nostro Signore, campione dei deboli nel momento di maggior bisogno sul sentiero di un destino ingrato. Come quello vissuto, nella percezione di molti, nei territori dell’odierna Spagna durante il periodo della Reconquista, un lungo conflitto vissuto a cavallo dell’anno mille, causato dalla necessità politica dei sovrani europei di sconfiggere e ricacciare verso meridione gli emirati di religione islamica che avevano preso controllo di vasti territori nell’area della penisola iberica, molto spesso senza particolari riguardi per la volontà delle popolazioni native. Lasciando ampi spazi nelle cronache coéve, alla figura di un salvatore letteralmente degno di essere chiamato “Il Maestro” (della battaglia) o quella singola sillaba dal suono aperto, probabilmente di attribuzione araba, probabilmente traducibile come il Signore, una qualifica presumibilmente guadagnata in forza di evidenti e sanguinose prove date sul campo di battaglia, ogni qual volta se ne presentò l’evidente ed imprescindibile necessità. E molto spesso impugnando, se vogliamo fare riferimento al poema epico castigliano El Cantar de mio Cid (1140 ca.) una spada il cui nome Tizòna significa, non a caso, “torcia” o “bastone infuocato” proprio perché capace, nella leggenda, di accendersi di luce propria ed abbagliare i nemici, a patto che a impugnarla fosse un personaggio di comprovata e rigorosa probità d’intenti. Lama che in effetti, se tentiamo di risalire ai dati formalmente in nostro possesso, non dovrebbe identificarsi con quella di proprietà del padre al centro della narrazione nella recente serie televisiva prodotta da Amazon (tutt’ora incompleta) con l’attore de La Casa di Carta, Jaime Lorente, in quanto secondo la nostra principale fonte letteraria vinta dal futuro campione di Castiglia proprio durante uno dei suoi numerosi duelli, in cui gli era riuscito di superare in maestria l’emiro di Valencia, Yusuf ibn Tashfin. Questo perché il Rodrigo storico (1043-1099) salvo approcci revisionisti e romantici della sua figura almeno parzialmente giustificati dal contesto nazionalista delle epoche successive, svolse probabilmente una mansione simile a quella dei capitani di ventura della penisola italiana, cambiando più volte bandiera in funzione delle tribolazioni politiche di un’epoca particolarmente turbolenta, fino all’esilio subìto dopo essere stato accusato dai suoi nemici di aver sottratto denaro al Re Alfonso VI di Leòn, successivamente alla morte di suo fratello Sancho II di Castiglia, signore feudale del Cid. Un episodio che l’avrebbe portato a partire dal 1081, a combattere brevemente dalla parte dei Mori, per conto degli emiri della città di Saragozza. Ma non prima di aver compiuto uno dei gesti che più di ogni altro avrebbe, in seguito, influenzato il persistente alone di mistero circostante la sua reliquia più rinomata…

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Gli enormi otri d’argento che accompagnarono un maharaja nel suo viaggio oltre l’Oceano Indiano

Nella pagina saliente del Guinness dei Primati, figurano alla voce “oggetto d’argento più grande del mondo”: due recipienti identici in metallo sterling del peso unitario di 345 Kg e l’altezza di 1,6 metri, custoditi in delle teche di vetro all’interno del padiglione per gli ospiti del palazzo cittadino di Jaipur, dove attraggono l’attenzione dei visitatori fin dall’epoca della loro creazione, risalente ad oltre un paio di secoli addietro. Soltanto approcciandosi alla targa commemorativa o tramite opportune ricerche filologiche, sarà perciò possibile scoprire la storia di questi eccezionali manufatti, costruiti in una quantità originale di tre pezzi, prima che uno di essi finisse irrimediabilmente sul fondale del Mar Rosso, in un momento in cui sembrava non esserci altra scelta veramente utile a salvarsi la vita.
Nel mondo mistico e talvolta imperscrutabile dell’India pre-moderna, particolari scelte in materia religiosa potevano influenzare il destino di un’intera nazione. Così Kaim Singh, secondogenito di un funzionario minore dello stato feudale del regno di Amber, nella metà del XIX secolo decise di diventare un discepolo del guru Brahmachari Giridhari Sharan, sant’uomo che sarebbe diventato, nel giro di pochi anni, la guida dello stesso sovrano di entrambi, Ram Singh II. Un’occasione per i due di conoscersi e stabilire un rapporto d’amicizia estremamente solido, finché il capo di stato, grande patrono delle arti e riformatore delle forze armate, trovandosi malato e prossimo alla morte all’età di soli 47 anni non lo chiamò al suo capezzale. Per adottarlo in extremis e renderlo, di fatto, il solo ed unico erede del potere supremo. Poco sapeva tuttavia di quello che sarebbe capitato di lì a un paio di decadi quando costui, avendo ormai da tempo assunto il nome dinastico di Madho Singh II, si sarebbe trovato di fronte a un catartico e importante dilemma, ancora una volta collegato a questioni relative al mondo superno: tradire tutto ciò che era sempre stato fino quel momento dal punto di vista spirituale, ignorando una fondamentale e caratterizzante regola dell’Induismo? Piuttosto che mancare all’importante dovere di presenziare all’incoronazione del nuovo Imperatore di tutte le Indie, niente meno che il re d’Inghilterra Edoardo VII, recentemente succeduto alla madre Vittoria dopo il suo decesso all’età di 81 anni?
Risulta opportuno considerare a tal proposito, dunque, la reputazione che a questo punto si era costruito Kaim/Madho Singh, di un saggio ed assennato amministratore fortemente rispettoso dell’autorità coloniale inglese, pur continuando a dare spazio a cerimonie e attività legate agli dei ancestrali della sua gente. Costruttore di scuole, università e ospedali, nonché finanziatore principale del Fondo contro le carestie di Jaipur (il nome contemporaneo di Amber nonché della sua capitale) nel quale aveva investito una cifra di 133.000 sterline, equivalenti a 15 milioni con l’inflazione attuale. Questo perché egli era anche diventato dal momento della sua inaspettata salita al trono, come potrete facilmente immaginare, favolosamente ricco, ad un livello tale da poter tentare di risolvere anche le problematiche che sembravano impossibili, facendo ricorso a soluzioni totalmente prive di precedenti. Persino quella del divieto per tutti gli induisti, spaventoso e terribile, a sfidare Varuna, l’antico garante dell’ordine cosmico nonché sire supremo del vasto Mare Oceano…

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