Il microcosmo barocco scolpito sulle pietre estratte dalle profondità minerarie della Baviera

Al termine del sontuoso banchetto con gli alti Elettori, i Duchi e le Duchesse del regno oltre ad un piccolo gruppo di dignitari stranieri, l’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo si alzò dal tavolo con l’espressione di una persona che stava per sperimentare un’occasione di estremo divertimento. La musica cessò immediatamente. “Signori, signore, la vostra presenza in questo importante giorno è un’occasione lieta per questa corte.” Esordì il sovrano, riferendosi al successo ottenuto nell’organizzare la sua fortemente voluta crociata contro gli invasori ottomani, che fin dall’epoca della contro-riforma stilata in occasione del Concilio di Trento (concluso dai suoi correligiosi cattolici nel 1563) avevano continuato a minacciare il suo regno. “Non più soprusi, nessun compromesso. Con questa guerra noi porremo fine alle ambizioni di coloro che… Rifiutano la Vera Fede!” E qui, con gesto magniloquente, incitò il suo maggiordomo capo a scoprire il grande arazzo che aveva fatto preparare per l’occasione, col leone degli Asburgo posto a sovrastare i regni orientali stilizzati di Wallachia, Transdanubia e Slavonia. “E tutto l’evidente superiorità culturale di coloro che operano secondo la sola ed unica filosofia naturale. Perciò, chi mi ama, mi segua!” E qui, con un sorriso semi-nascosto dalla folta barba, iniziò ad avviarsi verso l’ingresso della sala da pranzo, lungo il grande corridoio principale del castello di Praga, verso l’ala che era stata rinnovata più recentemente guadagnandosi il prestigioso soprannome di Sale Spagnole. I nobili presenti all’occasione, naturalmente, non poterono far altro che andargli dietro, camminando oltre le ampie finestre panoramiche sopra la città profondamente addormentata. Un tripudio di candele e lumi resero ardente quel cammino, fino all’ingresso riccamente ornato dell’annunciata destinazione. A questo punto, le persone più vicine all’Imperatore sapevano già che cosa stava per succedere; si trattava di un momento irrinunciabile nelle maggiori occasioni mondane, per quel famoso mecenate delle arti e della tecnica: l’ingresso, di sicuro effetto, all’interno del suo spropositato museo personale. “Wunderkammer, miei fedeli soggetti. Osservate la ricchezza e la sapienza del nostro vasto Impero, all’interno della sola ed unica camera delle meraviglie!” Quadri d’importanti autori ornavano le pareti, mentre interi scaffali apparivano ricolmi di sculture, manufatti, astrolabi e quelli che potevano soltanto essere, dalla forma chiaramente utilitaristica, degli automi antropomorfi in grado di ripetere un singolo gesto o i passi di una precisa danza. Ma ciò che era stato posto in prossimità dell’ingresso, al fine di colpire per primo lo sguardo dei visitatori, era un oggetto molto singolare posto sopra un ampio tavolo di legno di quercia. Come un contorto piccolo paesaggio, ricoperto di casette cesellate in quello che poteva essere soltanto argento e relative pietre preziose, usate per simboleggiare le finestre di quegli edifici. In uno spazio disseminato da una vasta quantità di dettagliati personaggi, ciascuno frutto di probabile fusione dei metalli, in maniera analoga a quanto fatto per il set di soldatini di un giovane aspirante generale. Il soggetto della scena, tuttavia, era evidentemente quello di una miniera, non diversa dalle rinomate fonti delle pressoché illimitate risorse finanziarie del Sacrum Imperium, e come identificato dalla sovrastruttura concepita per richiamarsi ad una vera e propria torre di trivellazione. Ma era soltanto in seguito ad una breve considerazione, che la scena riusciva ad assumere le tinte più notevoli ed interessanti. Poiché all’approfondita analisi, si comprendeva come l’intero scenario fosse in realtà nient’altro che un singolo, contorto pezzo di minerale dal peso stimato di 9-12 Kg, probabilmente feldspar granitico misto a rame, bronzo o un qualche altro metallo, proveniente proprio dall’installazione estrattiva che l’intero pezzo era stato creato per rappresentare. Una singola etichetta, scritta con calligrafia ineccepibile, aveva l’obiettivo di contribuire ad identificarlo: handstein ovvero tradotto letteralmente, “la pietra manuale/[che è possibile] tenere in mano”. A patto di esser pronti a trarre un profondo respiro e non piegare eccessivamente l’angolazione della propria vulnerabile colonna vertebrale.
Nome singolare per un ancor più raro oggetto, il cui scopo principale appariva proprio quello di trovare posto nelle collezioni di un potente, venendo di tanto in tanto posizionato come centrotavola di un’importante occasione d’incontro. Per suscitare la curiosità e fare opportuna ostentazione, nel frattempo, delle incalcolabili risorse e capacità produttive che avevano portato al suo complesso allestimento. Di handsteine non ne furono in effetti realizzati molti, nel corso dell’intero XVI e XVII secolo, semplicemente perché il tipo e le dimensioni delle pietre utilizzabili come base risultavano essere tanto straordinariamente rare. E gli artigiani capaci di costruirli, una ristretta e specializzata elite…

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Il cimitero verticale di Hong Kong ed il moderno grattacielo che riprende la sua funzione

Successivamente al 1898, dopo il diffondersi della pesta bubbonica in una delle città commerciali più importanti e sovrappopolate del Mar Cinese Meridionale, il governo inglese chiese ed ottenne dalla Cina un’estensione dei suoi territori oltre i confini di quell’isola, e fino all’area che sarebbe diventata celebre con il nome di Kowloon. Ma non tutta la parte di territorio già completamente incorporata nel dominio autonomo di Hong Kong era completamente ricoperta di palazzi al punto che nessuno avrebbe più potuto trasferirsi entro confini tanto desiderabili, con particolare riferimento alla zona semi-rurale del villaggio di Pok Fu Lam (薄扶林村) storico insediamento risalente al regno dell’imperatore Kangxi (tardo XVII secolo) per il volere di circa 2.000 persone, che avevano cercato rifugio dalle guerre e ribellioni del continente. Ora occupato, nel suo punto più alto, da un piccolo cimitero amministrato dall’Unione Cristiana locale, tale luogo avrebbe visto progressivamente crescere quest’area dedicata a tombe con la lapide in pieno stile europeo. Fino al progressivo moltiplicarsi di quest’ultime lungo l’intero pendio scosceso di una serie colline antistanti, gradualmente ricoperte da una lunga serie di viali serpeggianti, ciascuno parallelo e accompagnato da una sorta di spalto percorribile, non del tutto dissimile da quello di una classica arena sportiva. Perciò si pensa in multiple culture in questo mondo, come viene spesso ripetuto, che la cessazione della vita sia anche il termine dei giorni destinati ad essere trascorsi combattendo, per difendersi dal costante assedio di coloro che vorrebbero usurpare i nostri diritti. Ma la realtà dei fatti, soprattutto per chi cerchi di essere sepolto in prossimità dei propri cari, è che proprio questi ultimi dovranno continuare a tutelare gl’interessi del nostro nome. Ivi inclusa la necessità, continuativa ben oltre l’ultimo dei giorni, di riuscire mantenere un proprio spazio nel prezioso sottosuolo per un tempo ragionevolmente prossimo all’indeterminazione. O almeno questa qui è l’idea, perseguita dal punto di vista post-sepolcrale, secondo i crismi e le regole imposte da coloro che ancora possiedono il dono del respiro.
L’improbabile panorama del cimitero di Pok Fu Lam, in conseguenza di tutto ciò, costituisce la diretta risultanza del bisogno di riuscire a ritardare il più possibile gli eventuali traslochi postumi, delle povere vecchie ossa appartenenti a coloro che non essendo sufficientemente famosi, o abbienti, potranno continuare a trarre beneficio dalla sua ospitalità. Con conseguente approntamento, in maniera più unica che rara, di una disposizione delle tombe in posizione direttamente sovrapposta l’una all’altra, enfatizzando ulteriormente l’evidente verticalità di tale ambiente con una funzione tanto specializzata. Il che rientra a pieno titolo nella funzione e metodi dei suoi amministratori rigorosamente privati, formati da un concilio delle sette principali confessioni e missioni cristiane operative nell’influente città stato: la Chiesa Missionaria di Londra, l’Anglicana, la Congregazionale Americana, i missionari di Tsung Tsin, la Metodista, la Battista e i protestanti del Reno. Verso la costituzione di un sistema inter-confessionale dedicato a predicare il Vangelo, gestire i ministeri comuni e soprattutto amministrare le molte proprietà ed attività senza scopo di lucro, tra cui ospedali, cliniche e l’inevitabile, occasionale cimitero. Il che non significa, del resto, che un luogo come questo possa risultare del tutto privo di una certa quantità d’entrate indubbiamente significativa, visto un costo pari a circa 700 dollari statunitensi per un affitto di cinque anni di una tomba di dimensioni standard e addirittura il doppio nel caso dei non membri dell’Unione, purché sia possibile dimostrare l’appartenenza alla religione cristiana del malcapitato defunto. Il quale dovrà continuare ad aspettarsi di essere sottoposto, nell’eternità a venire, a continui vagli e calcoli operativi finalizzati a decidere, caso per caso, se non fosse decaduto il suo diritto a mantenere il proprio posto in un luogo così affollato. Una casistica che prevedibilmente non si applica, nel caso delle molte dozzine di nomi celebri e importanti personaggi della politica e dell’arte sepolti all’interno di queste colline…

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La città dei diavoli di pietra sotto la montagna serba dei cavalieri

Era il 15 giugno dell’anno del Signore 1389, quando un’armata composta dai più importanti principi, duchi e cavalieri della Serbia, assieme a un contingente bosniaco, si riunì sotto il condottiero Lazar Hrebeljanović, unificatore dei più disparati interessi familiari, nella piana corrispondente all’attuale territorio kosovaro. Per ergersi come uno scudo temerario, contro l’avanzata di conquista del sovrano ottomano Murad I detto Hüdavendigâr, “il guerriero di Dio” seguito in quel frangente da circa 40.000 dei suoi sudditi armati di tutto punto. Qui dimostrò tutta la sua fondamentale superiorità, l’applicazione delle tattiche e degli armamenti europei, contro la tecnica dell’orda che tanti territori era valsa fino a quel momento per il desiderio dei governanti turchi. Sebbene la vittoria sarebbe giunta a un caro prezzo, da cui i nobili locali non si sarebbero più ripresi giungendo solamente a ritardare, piuttosto che invertire, l’inesorabile tendenza della Storia. Così protetti dalle pesanti armature a piastre, i cavalieri d’Occidente cavalcarono contro gli arcieri del sultano, le cui frecce pareva dovessero oscurare il cielo. Indefessi e senza paura, nonostante il loro numero raggiungesse circa un terzo di quello dei propri oppositori, essi sconfissero entrambe le ali dell’esercito degli ottomani, arrivando a circondare la guardia d’onore di Murad che si disse venire trafitto da una lancia al collo e al ventre, secondo alcune fonti coéve dallo stesso Lazar. Il quale fu di lì a poco disarcionato ed ucciso, mentre la fanteria riusciva a riorganizzarsi. In un’altra versione del racconto, fu invece il cavaliere Miloš Obilić, lasciandosi catturare e portare al campo base come un trofeo, ad estrarre un coltello nascosto per colpire il comandante nemico. Seguì una mischia caotica destinata ad avere un costo estremamente significativo per entrambi gli schieramenti e che avrebbe avuto, se non altro, l’effetto di rallentare l’avanzata ottomana nell’Est Europa. Permettendo agli abitanti locali, secondo una leggenda, di trasportare alcuni degli eroi del Kosovo defunti fino al luogo del proprio estremo riposo, fin sulla vicina montagna di Radan. Luogo importante in quanto giudicato sacro dal folklore locale, ancorché non privo di un passato d’empietà. Dove altri esseri giunsero tra gli uomini, per dare luogo a un diverso tipo, ancor più terribile, di battaglia.
E sebbene oggi le tombe del guerriero Ivan Kosancic e i suoi sottoposti, facenti parte dello schieramento pronto a sacrificare tutto per la causa, non siano più osservabili da parte dei visitatori (e forse, mai lo siano state?) un tutt’altro tipo di residui ricordano evidentemente i trascorsi locali: 202 figure di roccia frastagliata alte tra i 2 ed i 15 metri, tanto vicendevolmente simili nella loro forma vagamente conica, e sormontate da evidenti e insoliti “cappelli”, da poter sembrare la mera conseguenza della mano di uno scultore. Se non fosse per la maniera in cui sorgono lungo le pareti scoscese del pendio, senza un’evidente logica o palese soluzione di continuità. Tanto da trovarsi alla base della leggenda secondo cui, proprio in questo luogo, un diavolo di nome Karakodžul scelse di giocare un tiro mancino dal tenore chiaramente biblico all’umanità. Avvelenando l’acqua di una vicina fonte sorgiva, affinché chiunque ne bevesse anche soltanto un sorso giungesse a dimenticare ogni cosa, compresi i propri più stretti rapporti di parentela. Così che tra gli abitanti di un villaggio vicino, una coppia di fratello e sorella si apprestavano a sposarsi, commettendo il peccato mortale dell’incesto. Se non che Dio in persona, intervenendo dal suo alto seggio, intervenne per porre fine al fraintendimento, nel modo più diretto immaginabile: scegliendo di trasformare gli sposi e tutti gli invitati in statue di pietra. Il trascorrere delle generazioni e i lunghi processi d’erosione ambientale, si sarebbero occupati di fare il resto.
Ciò detto, le formazioni della cosiddetta Đavolja varoš (letteralmente: Città del Diavolo) benché relativamente recenti in termini geologici, possono essere fatte risalire facilmente all’epoca della Preistoria, presumibilmente attorno all’ultima glaciazione tra i 16.000 e 14.000 anni a questa parte. Ben prima che strutture ed invenzioni sociali come le nazioni, i matrimoni o il Maligno potessero prendere forma presso i popoli di questo pianeta…

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Cercando la civiltà preistorica che costruì rettangoli nel deserto dell’Arabia settentrionale

Il primo Ascoltatore affrettò dunque la sua marcia, per porsi in capo alla processione dei pastori del suo villaggio. Il gruppo appariva infatti numeroso e forte, ma pur sempre titubante di fronte al rischio d’incorrere nell’ira degli Dei. La notte era perfetta: infusa di un potente lucore, fornito dalla forma piena di Alezh, l’astro notturno che rincorreva perennemente le isole celesti mentre nessun accenno di nube tentava di nascondere un quadrante del tessuto stellare di orientamento. Raggiunta la frastagliata formazione rocciosa che marcava i confini del loro territorio, gli uomini, le donne e i loro armenti sconfinarono all’interno della zona di nessuno, dove i giovani combattevano e loro guerre infinte a colpi di fionde, lance ed archi. Era imperativo infatti che il grande sacrificio, in quel particolare frangente, giungesse a compiersi all’interno di un merpam costruito da qualcuno di appartenente a una diversa sozh, comunità o collettività indivisa. A questo punto l’Ascoltatore si bloccò di scatto, e con un gesto solenne della lunga verga del comando indicò la direzione del loro obiettivo principale, un punto pienamente riconoscibile nel territorio ricoperto di pietre laviche, marcato da un muro capace di raggiungere all’incirca il ginocchio di una persona, pur essendo lungo molte volte lo spazio tra una capanna comunitaria ed il pozzo del villaggio. Con turbamenti progressivamente più intensi, simili alle onde di un vasto lago o mare, le svariate dozzine di persone si apprestarono quindi a far sostare e suddividere gli armenti, affinché uomini e animali fossero pronti a fare il loro ingresso all’interno del merpam. Senza una singola parola, per contenere al minimo il rumore, colui che li aveva guidati fino a quel momento si fece allora da parte, affinché la fase successiva del rituale potesse venire portata a termine da coloro che ne avevano la prerogativa. Una a alla volta, ordinatamente, le vacche e capre varcarono l’evidente portale all’interno della bassa struttura rettangolare, venendo instradate a seconda del valore loro attribuito nelle diverse “stanze” prive di alcun soffitto, affinché gli astri potessero assistere al momento fatidico della loro offerta. Completato il fondamentale passaggio, l’Ascoltatore prese posto all’interno della cella centrale dalla forma perfettamente tonda, sollevando il pastorale come segnale nei confronti dei 24 guerrieri armati di asce di selce, il cui compito sarebbe stato far scorrere il sangue degli animali, affinché i loro padroni potessero continuare a prosperare. Con un gesto imperioso, l’uomo puntò ancora una volta il suo braccio destro e lo sguardò verso il cielo, mentre il destro restava saldamente piantato sull’altare con la forma dell’ortostato di una meridiana. “Che l’eccidio abbia inizio!” Gridò silenziosamente rivolgendosi ad Alezh. “Che la tua voce, ora e sempre, continui ad illuminare la tortuosa strada del nostro cammino.”
Molte poche sono, in realtà, le effettive nozioni di cui siamo possesso in merito ai popoli e le culture dell’area circostante la città di Medina, molti secoli che qui sorgesse la prima Umma, o comunità musulmana del Profeta, ed in effetti in un’Era perfino antecedente all’edificazione delle piramidi egizie. Periodo talmente antico da far pensare agli studiosi ed archeologi, almeno fino a poco tempo a questa parte, che assolutamente nessuno avesse occupato quest’area almeno fino al sopraggiungere dell’Età del Ferro, quando comunità nomadiche impararono a muoversi e percorrere le aspre dune di sabbia di uno dei luoghi più secchi ed inospitali del pianeta. Una visione accettabile, persino probabile, finché non si prende in considerazione la costante deriva climatica di questo pianeta, e la conseguente maniera in cui, coerentemente a contesti ecologici di tutt’altra natura e tipo, qui potevano sorgere campi fertili e pascoli verdeggianti, tali da poter accogliere intere comunità stanziali. E allora perché, verrebbe da chiedersi a questo punto, nessun tipo di resto archeologico è mai stato rintracciato? Forse non sapevamo, nell’effettiva realtà dei fatti, cosa dovessimo effettivamente cercare. Come giunse sapientemente a dimostrarci il Dr. David Kennedy dell’Università di Perth nel 2017 (vedi precedente articolo) con le sue osservazioni sia aeree che in fotografia satellitare dei molti vasti geoglifi, o veri e propri rudimentali macro-edifici, che punteggiavano la vasta piana vulcanica dello Harrat Khaybar. Un luogo i cui molti misteri parevano espressi dai molti residui osservabili di monumentali figure a forma di buchi della chiave o aquiloni, all’interno dei quali venivano probabilmente messi a frutto antichissimi riti propiziatori o un qualche tipo di arcana metodologia di caccia. Ci sarebbero tuttavia voluti ulteriori quattro anni e fino ad aprile del 2021, per la pubblicazione di un secondo studio capace di andare, letteralmente, più a fondo nella questione, scoprendo semi-sepolti negli immediati dintorni di tali piazze un diverso tipo di figure, concettualmente ancor più semplici e come si sarebbe scoperto in seguito, ancor più antichi. Passando dai circa 4.000-5.000 anni dei precedenti ritrovamenti fino a 7.000-9.000, come esemplificato grazie all’impiego di accurate datazioni al carbonio…

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