Il cuore nero e abbandonato della vecchia Toronto, nella grande cattedrale del carbone canadese

Dolori della crescita… Growing Pains. Titolo di una celebre sit-com di fine secolo ma in tutto il Nord America, come altri luoghi dello stesso emisfero, anche il modo metaforico per riferirsi a fasi problematiche, nei trascorsi di una grande varietà di processi o settori dell’industriosa società umana. Vedi l’idea difficile da confutare, secondo cui il metodo migliore per fornire energia ad una città che aveva negli anni ’50 un milione di abitanti, fosse bruciare copiose quantità di carbone a poca distanza dal suo distretto costiero, sulle invitanti e fredde acque del lago Ontario. Idea nata, sia chiaro, dalle migliori intenzioni della cosiddetta Commissione Idroelettrica, ente governativo fondato due decadi prima e guidato dal politico e industriale Sir Adam Beck, assieme a tecnici di larga fama come l’ingegnere Richard Hearn. Il quale, pur essendo fin da subito un convinto sostenitore dell’energia nucleare, avrebbe finito per fornire il nome alla più notevole, imponente e significativa delle cattedrali, destinata ad essere una significativa deviazione, più che un semplice scalino intermedio verso l’obiettivo finale. Questo il compito che avrebbe assolto, non senza notevole successo, la nuova è più imponente struttura costruita lungo un ex-banco di sabbia in prossimità del porto, consolidato ed allargatosi a seguito di multiple generazioni di accumulo di detriti e rifiuti di variegata natura. Non che l’edificazione da parte del governo di uno svettante edificio lungo 240 metri e largo 80, con un volume interno di 650.000 metri cubi nonché alcune delle ciminiere più alte che si fossero mai viste fino ad allora, fosse un’operazione predisposta ad essere presa alla leggera. Così che il cantiere destinato a richiedere svariati anni di lavoro (guardando i dati reperibili su Internet, nessuno sembrerebbe aver tenuto il conto) avrebbe cominciato dal posizionamento di svettanti pali verticali nel suolo semi-solido del fronte cittadino. Ove gradualmente, molti mattoni rossi alla volta e con le sue caratteristiche finestre verticali, sarebbe sorto un rappresentativo esempio di architettura industriale in attraente stile Art Déco. Espressionismo dei metodi costruttivi a parte, tuttavia, ogni singolo aspetto della H. Generating Station era stato concepito per assolvere ad una sola ed utile funzione pratica: annerire i cieli di Toronto, mentre illuminava in modo ininterrotto le sue residenze, le gremite fabbriche, gli opifici…

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Un pilone può essere abbastanza, per il ponte che costituisce il sogno astrale di Bratislava

Rivolgendo lo sguardo direttamente verso il cielo, tutte le città del mondo tendono ad assomigliarsi: le pareti geometriche degli edifici, sormontate da tetti angolari; il profilo molto spesso impressionante dei grattacieli; l’occasionale torre aguzza che sormonta una chiesa. E quando si lasciano le sponde del fiume metropolitano d’ordinanza, da un lato all’altro della stretta striscia creata per le automobili, lampioni, piloni, cartelloni. Soltanto qui nella maggiore città di Slovenia, che ne costituisce non per caso la capitale, l’utilizzatore può contare sulla tipica esperienza di un qualcosa che viene comunemente definito eccezionale. Facciamolo assieme: ecco profilarsi un cerchio sospeso, del tutto corrispondente allo stereotipo dell’UFO, ciò che viene in altri casi detto un disco volante. Notevole, senz’altro. Ed altrettanto inaspettato. Dopo tutto, quanti architetti ed urbanisti hanno mai ritenuto di dover rendere omaggio ai tradizionali film di fantascienza, evocando in qualità di ornamento una delle presenze più terribili e inquietanti di quegli antichi racconti? Ancorché si tratti di una mera coincidenza, va pur detto che nessun creativo è totalmente inconsapevole delle indirette implicazioni della sua arte. Ivi incluso il relativamente sconosciuto Jozef Lacko, che nel 1965 assieme a un gruppo di colleghi della Slovak University of Technology (STU) e l’ingegnere strutturale Arpád Tesár riuscì a classificarsi da principio terzo in un concorso per costruire il secondo e urgentemente necessario sentiero di collegamento da un lato all’altro dell’azzurro Danubio. Scegliendo di farlo, com’era in voga in quegli anni di tumulti politici e sociali che avevano portato il Partito Comunista al potere in Cecoslovacchia, parlando la lingua straordinariamente ambiziosa del modernismo. In un dialetto che non molti, da quelle parti, avevano ancora avuto modo di sperimentare direttamente. Ci furono dispute dunque, tra coloro che tenevano realmente in mano il bastone decisionale, e scelte non del tutto prive di rimorsi. L’effettiva costruzione di un tale gigante, che avrebbe avuto lunghezza di 430 metri, avrebbe richiesto la demolizione di un intero quartiere, il ghetto ebraico Podhradie sopravvissuto, miracolosamente, all’occupazione tedesca della seconda guerra mondiale. Eppur nessuno si frappose tra il governo ed una decisione ormai approvata alle più alte sfere, che non si arrestò neppure innanzi alla presenza in situ di una significativa sinagoga riformata risalente al XIX secolo. Così colato il calcestruzzo per le rampe di collegamento, e liberata l’area necessaria per le fondamenta, iniziò a sorgere a lato del fiume qualcosa che non tutti si sarebbero aspettati. Una torre a forma di lettera “A” dell’altezza di 84,60 metri, da cui sarebbero partiti i cavi di sostegno per la più notevole delle infrastrutture cittadine. L’attraversamento strallato, ovvero facente capo ad un singolo, strategico punto di ancoraggio sopraelevato…

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Il peso della storia di Johannesburg sul grattacielo della polvere e della rovina

Verso l’inizio degli anni 2000 iniziò ad essere fatta circolare una nozione su articoli e telegiornali sudafricani. Il succo del discorso, enfaticamente reiterato, era che la gigantesca torre di Ponte City ad Hillbrow, il quartiere degli affari di Johannesburg, stava iniziando a risalire quella china deleteria che l’aveva condotta, nel corso dell’ultimo decennio, a trasformarsi in una valida approssimazione dell’inferno urbano immaginato da generazioni di creativi della fantascienza cinematografica e cyberpunk. “Se cercate un appartamento in centro, vi basterà visitarla (operazione possibile se accompagnati da un residente o l’agenzia immobiliare) per sentirvi trasportati in un futuristico edificio del tipo mostrato in Blade Runner.” Già… Come se fosse una cosa buona. E forse non è poi così male, quando si considera l’alternativa. Un tempo in cui l’interno dell’edificio era colmo di spazzatura fino al quattordicesimo piano. E le terrificanti grida dei suicidi risuonavano, in maniera ricorrente, nell’immenso spazio cavo che costituisce il suo volume interno.
Concettualmente parlando l’edificio di 173 metri e 55 piani, il cui nome parzialmente in latino voleva alludere ad un “ponte” tra la terra ed il cielo, fu in effetti concepito verso l’inizio degli anni ’70 per rispondere ad esigenze specifiche ed il maggior numero possibile di codici architettonici vigenti. Il che significava offrire finestre aperte su ambo i lati degli appartamenti, per garantire la circolazione d’aria per cucine e bagni. Dovette sembrare a questo punto totalmente logico, agli architetti Feldman, Hermer e Grosskopf, concepirlo come un sigaro cavo all’interno, di gran lunga il più alto edificio d’Africa ed almeno in parte ispirato dal caratteristico Marina City della città di Chicago. Luogo ameno contenente, oltre agli appartamenti, negozi, palestre, piscine ed ogni altro servizio immaginabile, il palazzo inaugurato nel ’75 vide dunque la sua immagine descritta come quella di un luogo di lusso estremo, con suite multipiano nella propria parte superiore e spazi interni dalla massima eleganza. Ciò che fin da subito caratterizzò la propria modalità d’impiego, tuttavia, fu la drammatica situazione sociale di quell’epoca nel suo paese d’appartenenza. Da ormai oltre un ventennio, tragicamente, in Sudafrica vigeva la dura legge dell’apartheid, il che significava che soltanto gli appartenenti ad etnia caucasica potevano legalmente risiedere nell’intera Hillbrow e lo stesso Ponte City, fatta eccezione per una serie di anguste residenze per la servitù, collocate nei più elevati locali “tecnici” del grattacielo e rigorosamente prive di finestre ad altezza occhi, così da scoraggiare l’osservazione del (magnifico) panorama cittadino antistante. Questa tipologia di discrepanze e contraddizioni su base etnica tuttavia, lungi dal preservare le grandi città dal crimine e l’illegalità, con il proseguire delle decadi condussero a situazioni tanto estreme da servire, paradossalmente, come prova dimostrativa del fallimento della segregazione umana. E sarebbe stato assai difficile, a partire dagli anni ’90, immaginare un esempio più lampante di questo della straordinaria torre di Johannesburg e coloro che, loro malgrado, continuarono ostinatamente a chiamarla casa…

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Sfera, sfera di questo reame. Riporta il Canada oltre il corso del fiume

In un momento mistico dell’esistenza del grande architetto, designer e inventore Buckminster Fuller, dopo che sua figlia era morta per la poliomelite e lui sprofondato nell’alcolismo e la disperazione, una forza misteriosa gli apparve in sogno avvolgendolo in una grande luce. “Tu non ti appartieni. Da questo momento dedicherai la tua vita all’Universo. Confiderai che ogni tua azione sia compiuta nell’interesse degli altri.” Positivista, innovatore, convinto sostenitore delle soluzioni complesse ai problemi di questo mondo, egli avrebbe da quel momento elaborato un metodo creativo finalizzato a migliorare il concetto di abitazione umana. Mediante l’impiego reiterato ed intelligente di una forma destinata a rimanere perennemente associata al suo nome: la sfera geodetica. Struttura reticolare basata su un poliedro fatto di elementi triangolari. In multiple fogge, forme e dimensioni. E con un particolare esempio, soprattutto, più imponente e magnifico di qualsiasi altro.
Il celebre nome venne dunque coinvolto dalla commissione statunitense alla chiamata del sindaco di Montreal Jean Drapeau del 1962, per l’organizzazione di un expo mondiale destinato a rimanere negli annali di questo tipo di eventi. Iniziativa a stretto giro di organizzazione, causa la recente cancellazione dell’impegno precedentemente preso dai sovietici a Mosca per l’anno 1967. Con un tempo così breve e molti detrattori dell’iniziativa nella sua amministrazione, causa mancanza delle risorse operative necessaria, la città si dimostrò tuttavia fin da subito determinata a dare il massimo, giungendo al punto di deviare il corso del proprio fiume principale per l’ampliamento dello spazio a disposizione. Fu proprio di Drapeau dunque l’iniziativa di prendere il suolo rimosso per la costruzione della linea metropolitana e trasportarlo a ridosso delle isole di Notre Dame e Sant’Elena lungo il corso metropolitano del Lawrence. Ed ampliarle esponenzialmente, facendone un letterale palcoscenico per alcune delle strutture più sorprendenti che la collettività potesse riuscire ad immaginare. L’eclettico Buckminster, che in quel periodo aveva iniziato a lavorare con il suo ex-studente e collega Shoji Sadao in uno studio dai molteplici progetti internazionali, intervenne dunque con i cantieri già avviati, e la proposta di quello che in molti sarebbero giunti a considerare il suo capolavoro: 76 metri di diametro e 62 di altezza, entro cui i visitatori avrebbero potuto ascendere mediante l’utilizzo della scala mobile sospesa più lunga del mondo…

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