Fuoco e fiamme del martello che pulisce i crogioli da fonderia

Diffusa è la percezione pubblica che per quanto concerne gli strumenti da percussione, nessuno possa superare il mitico martello del dio Thor. Il cui rombo è quello della tempesta, mentre incontra il tipo di superficie che suo malgrado, fa il possibile per contrapporsi al libero passaggio di una massa tanto solida e devastante. Andando incontro alla frantumazione sistematica, nonché totale. Ma la verità dei fatti, a ben pensarci, è che l’arma meno utile di questo mondo è proprio quella che può essere impugnata da un individuo soltanto: poiché una volta assolta alla necessità fondamentale, di annientare le forze del percepito male, ciò che si troverà a lasciare irrisolti sono i compiti per così dire più prosaici, quei mestieri e quei doveri che pur non venendo ammirati convenzionalmente dagli autori di fumetti o altre forme di mitologia moderna, permettono in qualche maniera al mondo di continuare le sue rotazioni attraverso il cosmo del presente e del futuro. È forse proprio per questo, che ad oggi il mondo può contare sull’aiuto del Fractum (modelli: 80, 100, 200 e 250) concepiti per essere utilizzati con una gru o carrello elevatore di tipo assolutamente convenzionale, da parte di chiunque possa averne l’interesse o la necessità. Il che si riferisce, nella maggior parte dei casi, agli operai più fortunati di quel tipo di fabbrica metallurgica, la quale ricevendo grandi carichi dalle miniere prossime o lontane, inizia quel processo di trasformazione che conduce, senza falla, alla materia prima. Ferro, per così dire, ma anche piombo, zinco, alluminio, rame, argento, oro, vanadio, tantalite/vermiculite… Tutto quello, insomma che fuoriuscendo dalle viscere della Terra, necessita generalmente di un preciso processo di raffinazione, per separare il buono dal cattivo, l’utile dall’inutile, il significativo dal collaterale. In altri termini, buttare tutto in pentola, per dare inizio alla cottura.
Chiunque abbia mai avuto modo di osservare, anche a distanza, il processo usato al fine di processare il minerale grezzo a caldo, conosce la sua somiglianza alla ricetta tipica del chili messicano: si prende l’agglomerato minerario contenente una variabile percentuale del tesoro da noi ricercato, quindi lo si inserisce all’interno di una pentola (crogiolo) portata rapidamente a temperatura di fusione. All’interno di quel brodo risultante, senza alcuna esitazione, viene quindi aggiunto l’ingrediente segreto, sostanzialmente una miscela di sostanze scelte per la loro capacità di ossidare i legami cristallini tra i diversi tipi di metalli o pietra. Con un poderoso rimescolamento, a questo punto, il metallo ragionevolmente puro può essere rovesciato in altri recipienti, verso i successivi passaggi della sua processazione. Mentre ciò che rimane all’interno del magico pentolone, creando una serie di problematiche largamente note, è il cosiddetto slag, il “brodo” delle scorie, mescolanza vetrosa di ossidi e silicio parzialmente solidificati con una forma cava convenzionalmente associata in lingua inglese al concetto di un “cranio”. La cui rimozione (deskulling) il più delle volte, risulta essere di un’estrema semplicità: basta rovesciarlo a terra. Ed è lì che iniziano le grane, quelle vere…
Un teschio da forgia, per quanto possiamo desumere da video dimostrativi come quello qui sopra riportato, assume l’aspetto di un ammasso scuro e solido, del tutto inamovibile e tremendamente pericoloso. Questo perché al suo interno, per molte ore dopo il termine della lavorazione, il calor rosso continua ad ardere con temperature che possono raggiungere facilmente le svariate migliaia di gradi. Il che, nel tipo di stabilimento che può arrivare a produrne svariate dozzine l’ora, non può che causare un senso spontaneo di fastidio e rabbia. E come dice il celebre proverbio: “La rabbia non fa bene a Hulk!” Energumeno color smeraldo dalla nota e comprensibile incapacità di sollevare il succitato martello (dopo tutto, restava pur sempre “magico”). Non che ne avesse in alcun modo bisogno, per frantumare tutto ciò che avesse l’arroganza d’interporsi sul suo sentiero!

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È possibile usare un paio di pattini nella foresta?

Quando si osserva la catena sportiva dei possibili controsensi, appare evidente che asfalto e Rollerblade costituiscono una coppia di concetti inscindibili, per cui l’uno perpetra l’altro, permettendo il realizzarsi dell’energia contenuta in ciascuna singola falcata dell’utilizzatore di turno. Eppure, tutto questo non può essere soltanto un effetto speciale: Dustin Werbeski, lo skater canadese di ritorno dopo tanti anni dall’epoca della sua nascita professionale in Spagna, che esplora i densi boschi circostanti la città natìa di Vancouver, Canada. E per farlo sceglie di utilizzare, neanche a dirlo, le mercuriali scarpe che hanno contribuito a renderlo famoso, prima come fotografo e regista dell’operato altrui, poi in prima persona, a seguito della realizzazione che in effetti, poteva fare persino di meglio. Il mondo di quelli che oggi vengono definiti “sport d’azione”, come è noto, costituisce un ambiente estremamente competitivo. Dove per emergere, la strada migliore va ricercata nella propria stessa capacità d’innovare e se possibile, sorprendere gli spettatori; il che comporta, il più delle volte, il tentativo riuscito di cavalcare l’onda di un qualche progresso tecnologico e funzionale. Come quello, largamente sconosciuto al di fuori di un pubblico di appassionati, del pattinaggio in linea off-road.
Lo sportivo racconta di aver conosciuto per la prima volta questa disciplina il giorno stesso del suo arrivo a Barcellona, intorno al 2012, quando l’azienda Powerslide di Bindlach, in Baviera, aveva iniziato da poco il revival di un concetto che aveva in realtà già vissuto un’epoca d’oro negli anni ’90, grazie all’opera della stessa antonomasia di settore, la Rollerblade. Chiamati in gergo big wheel bladers, questi pattini particolari facenti parte della collezione dell’amico Oli Benet presentavano prestazioni tecniche decisamente al di sopra della media, con una struttura solida e ammortizzata, allacci estremamente rigidi e un punto particolare di rottura rispetto alla tradizione: tre ruote, invece di quattro, dal diametro quasi raddoppiato. Ora la dimensione di queste ultime, generalmente, costituisce nei pattini in linea un importante tratto di distinzione: poiché fin da quando Scott e Brenan Olson, i due giocatori di hockey del Minnesota che avevano trovato un modo per fare pratica in estate sostituendo le lame da ghiaccio della propria disciplina di provenienza, riuscirono a vendere la propria idea alla multinazionale di articoli sportivi italiana Roces nei primi anni ’80, fu estremamente chiaro il concetto secondo cui ruote maggiorate comportassero una velocità raggiungibile superiore, ma anche maggiori difficoltà nelle curve e al momento in cui diventava necessario fermarsi senza un significativo preavviso. Eppure col trascorrere degli anni ciò che appariva adatto soltanto a dei veri professionisti diventò, gradualmente, lo standard accettato, facendo figurare pattini con diametri da 70 e 80 mm nei cataloghi ad uso generalista, laddove in origine venivano considerati l’ideale soltanto per il freestyle, le gare di velocità e lo slalom. Mentre in questi ultimi prendevano piede i più moderni modelli da 100. E qualcuno sceglieva, di sua personale iniziativa, d’indossare qualcosa di ancora diverso. Ruote ai piedi capaci di superare abbondantemente i 125 mm per unità, ritrovando in un certo senso quello che aveva costituito, ancor prima dell’epoca contemporanea, il significato stesso del mettersi i pattini ai piedi: scappare via dal chaos inquinato della città, oltre i confini stessi dell’asfalto. Per immergersi, attraverso la forza delle proprie stesse falcate energiche, nel regno selvaggio e incontaminato della natura.

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L’orologio concepito per terrorizzare gabbiani, corvi e piccioni

“È di nuovo lui, è di nuovo l’uomo con la pistola.” Un mistero che riecheggia nel silenzio della campagna inglese, tra verdeggianti siepi ed alberi che ondeggiano nel vento. Chi ha sparato? E chi ha sparato ancora per un certo numero di volte, a intervalli regolari lungo l’arco disegnato dalla lancetta delle ore sul quadrante dell’orologio? Perché la ragione in questo placido 1902, di sicuro, non può essere un segreto: tutti conoscono presso il rurale Cumbereland il più gran dilemma dell’agricoltore. Come fare, per proteggere i suoi campi dal passaggio di visitatori ingrati… Mangiatori alati. Di tutti quei semi e teneri virgulti, ovvero il massimo tesoro, in fieri, del mezzo di sostentamento di costui. Ed hai voglia a mettere spaventapasseri, ghirlande che si muovono nel vento e figure di rapaci sopra i piedistalli, attentamente ricavate da un singolo pezzo di legno. Ci sono uccelli che semplicemente non capiscono il pericolo, o hanno scelto che nel corso della vita esistono questioni più importanti. D’altra parte, esistono segnali di minaccia che semplicemente nessuno, non importano le dimensioni delle sue meningi, può sforzarsi fino a fondo d’ignorare. Ed è proprio sul sentiero di una simile mansione, perseguendo la necessità di preservare il frutto potenziale della propria terra, che il contadino di quei tempi poteva ritrovarsi ad impugnare il pratico moschetto di suo nonno, o addirittura l’archibugio del bisnonno, per dar voce roboante all’esasperazione. Chiunque avesse mai tenuto conto cronologicamente, nel procedere di questi primi pomeriggi, l’intervallo esatto del tuono distante, si sarebbe presto reso conto di una strana regolarità: quasi come se l’autore del frastuono, nel suo tentativo di fare la guerra agli animali, avesse scelto di seguire uno scientifico regime scritto nelle pagine di un’enciclopedia. O stesse utilizzando un qualche tipo di apparato…Ad orologeria.
Nella celebre e sempre accurata serie di trattazioni prodotte dall’esperto storico Ian McCollum per il suo popolare canale di YouTube, Forgotten Weapons (Armi Dimenticate) è passato praticamente di tutto: pistole rare, fucili per usi altamente specializzati, attrezzatura discreta concepita per le spie, implementi costruiti in casa da parte di membri delle gang… Tanto che, al giorno d’oggi, risulta estremamente difficile vederlo alzare un sopracciglio, di fronte ad un qualcosa che neppure lui aveva mai avuto modo di conoscere o sentir nominare. Eppure leggendo il primo paragrafo del brevetto concesso all’inizio del secolo scorso per l’orologio che prende il nome del suo creatore John Hall, si percepisce qualcosa di fondamentalmente inaspettato: che non soltanto l’oggetto fosse stato concepito per essere prodotto in serie, ma che rappresentasse addirittura, grazie all’ingegno del suo creatore, un sensibile miglioramento di un approccio meccanico al problema che già aveva trovato applicazione pratica, sebbene in modo saltuario e privo di un’ampia diffusione sul territorio inglese. Un dispositivo per segnare il tempo in maniera udibile che invece che ricorrere al suono di una campanella o la fuoriuscita di un uccellino in legno, faceva qualcosa di potenzialmente utile allo scopo: sparare un colpo di fucile. Ma era veramente tanto rivoluzionario, almeno nel suo campo dall’alto grado di specificità, il metodo concepito grazie a un ingegno degno del più famoso coyote dei cartoons?

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Svelato per la prima volta l’aereo senza limiti di autonomia

Se dobbiamo basarci sulle esperienze pregresse del settore, succederà in un momento ancora imprecisato di questo imminente inizio del 2019: in una giornata il più possibile priva di nubi, presso l’aeroporto di Manassas in Virginia, quartier generale della Aurora Flight Sciences, una certa quantità di persone (almeno dieci) si metterà a correre sulla pista di decollo con le braccia alzate verticalmente verso il cielo. E le mani ben strette, a sorreggere un oggetto largo quanto un Jumbo Jet ma non più pesante di un’automobile Smart. Raggiunto il massimo della velocità consentita dalle loro gambe umane, anche considerato il carico non propriamente usuale, al sopraggiungere di un segnale udibile lasceranno andare il principale portatore delle loro speranze. Affinché possa procedere verso l’orizzonte del futuro, sfruttando la forza di sei motori elettrici, capaci di trarre l’energia direttamente dall’astro solare. Questo perché collegati, attraverso la struttura in fibra di carbonio e il tessuto a base di polivinilfluoruro noto come Tedlar, alla più impressionante serie di pannelli solari montata su un velivolo nell’intera storia del volo. Oppure perché no, la stessa mansione potrà essere svolta da un apposito carrello, rigorosamente destinato a rimanere a terra dopo che l’aereo privo di pilota sarà stato in grado d’iniziare il suo viaggio per contenere il peso. Dopo tutto, qualcosa di simile compare nei primi secondi dell’ennesimo rendering, pubblicato online da una delle molte compagnie che hanno scelto di lasciare la propria firma nel campo innovativo degli HAPS (High Altitude Platform Stations) apparecchi concepiti per restare in volo ad alta quota a tempo indeterminato. Possiamo già immaginare dunque, in perlustrazione stazionaria sopra i monti Appalachi o la Sierra Nevada, un lontano erede di questo vasto ed aggraziato prototipo di nome Odysseus, che per settimane, mesi o persino anni sorveglierà l’evolversi delle stagioni, fornendo un tipo di servizio destinato ad essere determinato in base alle necessità del caso. Il che significa, in altri termini, che il potenziale di una simile invenzione può essere quantificato in chilogrammi: 25 per essere precisi, sufficienti a sostenere una quantità e varietà di strumentazione scientifica del tutto paragonabile a quella di un piccolo satellite ad uso commerciale. Con una spesa, per il committente, di una mera frazione dell’alternativa tradizionale, nonostante i risultati raggiungibili possano soddisfare la stessa classe di aspettative.
Pensate, a tal proposito, alla tipica metafora usata per descrivere il volo orbitale: un virtuale proiettile sparato da un punto preciso del pianeta, abbastanza lontano perché la sua traiettoria lo porti a superare la curvatura dello stesso, tornando a precipitare con un arco che interseca soltanto momentaneamente gli strati superiori dell’atmosfera. E poi ancora e ancora, sfuggendo alle conseguenze normalmente inevitabili dell’attrazione gravitazionale. Che dire, invece, di un aeroplano di carta? Qualcosa che semplicemente fluttua indefinitamente a una posizione meno elevata. Avendo scoperto, per il tramite dei propri costruttori umani, il segreto letterale del volo eterno. Si tratta di una sorta di Santo Graal della tecnologia aeronautica moderna, perseguito a turno da svariate aziende di telecomunicazioni e informatica, tra cui in epoca recente le stesse Google e Facebook; questo, nel caso in cui la succitata equivalenza in Kg di un bancale di bottiglie d’acqua possa essere occupata da ripetitori di segnale, ricevitori Wi-Fi o altre amenità capaci di contrastare in qualche modo il sempre problematico cartello dei gestori telefonici sul territorio statunitense. Ma c’è qualcosa di specifico che Odysseus potrebbe fare, nei fatti, molto meglio di qualsiasi apparato veicolare abbastanza in alto da risultare invisibile a occhio nudo: monitorare il territorio e le nubi, per periodi estremamente prolungati, al fine di presentare dati scientifici validi a confermare la situazione del mutamento climatico che pesa sul nostro immediato domani. E di certo, allora, nessun politico potrà continuare a negarne l’esistenza…

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