L’immutabile atmosfera della Loira concentrata nel capolavoro abbandonato di Ligny-le-Ribault

Quali meriti ci sono nell’arrivare primi, quali nell’essere gli ultimi di una lunga serie? Nell’aver saputo ereditare, intatta ed invariata, la preziosa tradizione di un particolare modo di fare le cose. Uno stile di vita, un modo di relazionarsi con il territorio e l’architettura. In cui la pesante mano dell’uomo, piuttosto che depositare i suoi mattoni fiducioso nella pari opera del suo vicino, edificava i propri sogni all’interno di una vastità equamente sgombra fatta l’eccezione per viali, parchi e giardini. Così come nel Medioevo succedeva a quei castelli, roccaforti solitarie ed incombenti, concepite per rendere impossibile l’avvicinamento senza dare nell’occhio. Ed ancora successivamente all’Era del Rinascimento, mantenendo un certo stile se anche privo delle originarie logiche, in un luogo ameno e al tempo stesso assai distante da quei difficili conflitti delle terre ai confini. In quel dipartimento della Loiret, a soli 100 Km da Parigi, diventato un polo delle abitazioni nobiliari, concentrate tutte in una stessa zona già molti anni prima della costruzione di Versailles. E che dopo gli anni dell’austerità, causata dalla fine dell’Ancien Régime, sarebbe ritornato tra i più ambìti ad essere del tutto privi di un piano regolatore, ovvero funzionale alla creazione di un proprio conglomerato di mura fiabesche e fantomatici torrioni. La fiaba scritta nella lingua non del tutto universale dell’architettura, figlia di un linguaggio endemico che soprattutto in Francia, allora come adesso, diventava molto più che un mero esercizio di stile. Qui giunse dunque, nell’ultimo terzo del XIX secolo, il ricco consigliere politico e poi sindaco del villaggio adiacente di Ligny-le-Ribault. Il suo nome era Georges Dupré de Saint Maur e l’idea, per niente originale, quella di costruirsi una speciale residenza derivante in via diretta dai più grandi e celebrati castelli lungo il corso della Loira, come Chenonceau, Chambord o Azay-le-Rideau. Con le stesse torri appuntite, i tetti in ardesia nera contrastanti con le pallide mura, la facciata in stile storicista dalle plurime finestre sovrapposte, coadiuvate da un maestoso colonato. Ma il tutto tradotto in una dimensione più compatta e personale, perché sostanzialmente questo doveva essere lo Château de Bon Hotel in base al progetto dei rinomati architetti parigini Clément e Louis Parent: non un luogo di rappresentanza nazionale e tanto meno istituito per l’onore di una grande casata. Bensì il punto focale del sublime desiderio di essere, ancor prima che mostrare. Un sogno abitativo conseguente dalle discendenza di ciò che è stato…

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L’alveare sovrano delle 953 finestre, strano palazzo che sorveglia la vivace Jaipur

Il possesso di una salda capitale è fondamentale per la fondazione di un regno, così come Sawai Jai Singh sapeva nel momento in cui, finalmente, il potere dei Mughal iniziava ad affievolirsi. Vassallo del preponderante impero islamico fin dal 1699, anno del suo accesso al trono, il Rajput del regno di Amber si trovò investito dell’ardua mansione di tenersi in equilibrio, tra le minacce militari degli stati induisti settentrionali e le continue richieste di fondi e forza lavoro da parte di Aurangzeb I. Con la morte di quest’ultimo all’età di quasi 90 anni tuttavia, e l’accesso al trono di una lunga serie di governanti privi delle stesse capacità diplomatiche e amministrative, l’integrità del territorio apparve sottoposta ad un forte impulso di frammentazione. Alleatosi perciò mediante un matrimonio col vicino Rajput di Mewar, Jai Singh acquisì un potere militare e indipendenza politica tali da poter riuscire a realizzare la sua aspirazione principale: spostare la corte, le residenze reali e i simboli del potere verso una nuova città-fortezza, dotata di mura sufficientemente alte da mantenere all’esterno gli ultimi colpi di coda del serpente che condizionava alla sconfitta del suo sguardo ipnotico la formazione di un nuovo gruppo identitario dell’India unificata. Giunse perciò il 1727 e assieme ad esso la nascita di Jaipur, insediamento nell’odierna regione del Rajasthan, dove a seguito di un triplo sacrificio rituale Aśvamedha, il sovrano decretò che venisse costruito il suo palazzo reale. Costruito grazie all’ampliamento di una loggia di caccia, inglobata nella parte nord-est del nuovo centro cittadino in base alla precisa scienza urbanistica del Shilpa Shastra, l’imponente edificio si sarebbe dunque arricchito nel susseguirsi dei diversi dinasti di un massiccio portone monumentale, l’ornata sala delle udienze Sabha Niwas, il distintivo Sarvato Bhadra, spazio aperto sotto una tettoia per ricevere ed intrattenere i dignitari provenienti da fuori… Ma ciò che maggiormente caratterizza ancora oggi il magnifico complesso, a partire dal 1799, sarebbe stata l’aggiunta che il nipote di Jai Singh, Pratap Singh, fece costruire a estemporaneo beneficio delle sue consorti e numerose ancelle situate negli appartamenti dove, in base alla severa legge del Purdah, l’intera metà femminile della corte avrebbe avuto l’appannaggio limitante ed al tempo stesso esclusivo. Tale ambiente denominato zenana infatti, così come nell’harem di matrice araba, prevedeva l’assoluta segregazione delle sue occupanti che potevano uscire soltanto con il volto ed il corpo interamente coperti. Il che gli avrebbe totalmente impedito, paradossalmente, di presenziare ai molti riti e processioni previste dall’iconografia del potere in base al criterio della religione induista. Da qui l’idea, concretizzata grazie all’assistenza del rinomato architetto dell’epoca Lal Chand Ustad, di costruire una facciata sul fronte del perimetro dotata di caratteristiche intrinsecamente particolari, capaci di rendere possibile l’osservazione senza essere visti a propria volta e farlo mantenendo nel contempo elevati standard di lusso e confortevolezza situazionale. Includendo nel fiabesco Hawa Mahal, come prerogativa fortemente avanzata, una versione completamente automatica di quella che potremmo definire l’aria condizionata dei tempi odierni…

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La labirintica magione che sarebbe diventata il simbolo dell’opulenza statunitense

Una parte significativa del successo economico per la confederazione di stati all’altro lato dell’Atlantico ha radici chiaramente definite da un punto di vista cronologico e organizzativo. Situate, con coerenza, nel periodo al termine dell’Era Vittoriana, quando il progresso tecnologico e infrastrutturale avrebbe finalmente permesso il sopraggiungere delle anelate condizioni, valide a sfruttare, collegare, rendere mansueto parte di un selvaggio territorio attraverso una manciata di generazioni, in modo non dissimile da quanto aveva avuto modo di verificarsi lungo il corso di secoli, e millenni, nella vecchia Europa. Fu del tutto imprescindibile a questo punto, nel corso della cosiddetta Gilded Age, che alcune insigni menti imprenditoriali potessero riuscire a trarne significativi profitti. Fu la nascita dei primi miliardari moderni, vista con sospetto dallo stesso scrittore che inventò quel termine, Mark Twain, il quale volle farne soprattutto un uso (è importante sottolinearlo) di tipo satirico e denigratorio. Così potenti, pieni d’influenza sul piano politico e al tempo stesso disinteressati alle traversie della gente comune, il che non significa che non avessero quantità ingenti alle proprie dipendenze, risultando inclini a condividere una parte significativa della propria quotidianità con i membri del proletariato. In qualità di servi, s’intende, delle proprie pantagrueliche residenze, spesso collocate nei quartieri di maggior prestigio di città come Boston, Santa Fe, New York. E qualche volta in luoghi molto più remoti, destinati ad essere abbinati al sostanziale prototipo di quella che sarebbe stata definita in seguito una company town.
Poiché c’è molto di simile nella gestione di un villa come questa, ad una vasta e stratificata azienda, così composta di 250 stanze, 43 bagni 65 caminetti al posto di opifici o capannoni dei macchinari. Costruita in mezzo ai monti della contea Asheville in North Carolina, per assecondare i piacevoli ricordi e le vigenti aspirazioni di un singolo depositario del potere economico supremo. George Washington Vanderbilt II, esponente più giovane della seconda generazione dopo il “Commodoro” Cornelius, provenuto dall’Olanda per costruire il proprio impero ferroviario capace di estendersi da una costa all’altra del Nuovo Mondo. Tanto da garantire ai suoi rampolli, e i successivi discendenti, non soltanto sicurezza imperitura dal punto di vista economico, ma tutto il tempo e le risorse per perseguire le proprie ambizioni maggiormente caratterizzanti dal punto di vista personale. Che nel caso di costui sarebbero giunte ad includere, guarda caso, la costruzione previa acquisizione di un terreno di 125.000 acri della più vasta residenza personale nella nazione destinata a ricevere il saliente soprannome, possibilmente a sproposito, di “Versailles Americana”. La proprietà (trad. estate) di Biltmore, il cui stesso nome in lingua sembra suggerire: [we] built more! Abbiamo costruito di più… More & more

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Le case nate dalla pietra del Mediterraneo e dai primordi della Corsica meridionale

Invadere militarmente un’isola non è sempre o necessariamente un’impresa facile, soprattutto quando è ricoperta da una fitta vegetazione di 2.500 specie vegetali differenti, offrendo innumerevoli recessi per nascondersi a forze popolari motivate a mantenere l’indipendenza. Lo scoprì molto presto la Francia, dopo l’acquisizione nominale della Corsica a seguito del trattato di Versailles del 1768, come pagamento dei debiti contratti dalla Repubblica di Genova, ormai da molti anni in declino. Ma soprattutto, prima della decisiva e inevitabile battaglia di Ponte Novu dell’anno successivo, il superiore, più attrezzato esercito dell’Europa continentale si sarebbe scontrato con l’intraprendenza della milizia messa assieme dal Padre della Nazione e generale Pasquale Paoli, lo statista corso, patriota ed avvocato che aveva costruito verso la metà del XVIII secolo una delle costituzioni più democratiche e progressiste di tutta Europa, liberamente basata su quella Inglese. Ma la guerra nelle decadi a venire, secondo molti abitanti del posto, non sarebbe mai finita, mentre conducevano scorribande e attacchi con tecniche di guerriglia a partire dalle loro basi nascoste tra i rilievi dell’entroterra. All’interno di fattorie, caverne e la perfetta via di mezzo tra le due cose: l’abitazione tradizionale, di manifattura preistorica ma migliorata ed attrezzata proprio alle soglie del secondo secolo Moderno, nota localmente come oriu; una visione che potrebbe aver ispirato de Lo Hobbit tolkeniano, le rivedute leggende fantastiche sugli gnomi o ancora l’invenzione successiva dei Puffi, da parte del fumettista francofono Peyo. Principalmente concentrate nella parte meridionale del territorio isolano, come potenziali resti di una società del paleolitico di cui sappiamo poco o nulla, queste costruzioni (al plurale, orii) costituiscono l’esempio di uno sfruttamento di condizioni geologiche particolari, quelle in grado di condurre al processo noto per antonomasia come “tafonizzazione”. Un’erosione a nido d’ape di corpi rocciosi indivisi, in cui l’effetto combinato di vento, pioggia e la penetrazione delle acque all’interno di microscopiche fessure causa l’erosione di pietre come il calcare a partire da singoli fori che si allargano, costituendo l’equivalenza paesaggistica del formaggio svizzero Emmentaler. Offrendo cavità che agevolmente lavorate, grazie all’impiego degli attrezzi in selce dell’Era tecnologica clactoniana, potevano essere ingrandite e trasformate in accoglienti spazi ove trovare un qualche tipo di rifugio dagli elementi, o mettere al sicuro i propri beni maggiormente preziosi. Da cui l’etimologia ritenuta maggiormente probabile per il termine sopracitato, che potrebbe provenire dal latino horeum – granaio. Una funzione ormai da lungo tempo dimenticata ai tempi dell’irredentismo corso, quando la maggior parte degli orii era impiegato come rifugio dalla nuova società pastorale. E quando necessario, base operativa per coloro che intendevano difendere con la spada e le armi da fuoco i meriti di quell’ideale stile di vita…

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