Cumdach, reliquie di un’epoca i cui libri dominavano dall’alto i campi di battaglia d’Irlanda

In una leggenda del VI secolo connessa ai viaggi di evangelizzazione del missionario San Gallo, successivamente all’esilio dei monaci dal regno dei Franchi per una disputa con la sovrana Brunechilde, egli si trovò ad un certo punto accampato in prossimità delle Alpi svizzere, assieme al compagno di viaggi Hiltibod. Nel mentre in cui quest’ultimo dormiva, tuttavia, un pericolo mortale si trovò ad emergere dal bosco antistante: la figura imponente di un orso, attirato dall’odore delle provviste. Senza perdersi d’animo a quel punto, il santo si fece il segno della croce e declamò all’indirizzo della belva: “Nel nome dell’Altissimo, fermati e raccogli quel ramo da terra. Quindi gettalo nel fuoco.” Nel mentre in cui l’ordine veniva eseguito, egli prese dunque una pagnotta dalle sue bisacce, e con fare magnanimo la porse all’animale. “Accetta questo cibo, orso, di cui ti faccio dono. A patto che non tornerai mai più.” Hiltibod, che nel frattempo si era svegliato restando paralizzato dal terrore, giunse allora le sue mani in segno di preghiera, pronunciando un silenzioso giuramento. Che le gesta del suo amico fossero per sempre ricordate, in una serie di memorie per iscritto le quali, di volta in volta, sarebbero state mostrate e declamate alle comunità destinate ad essere oggetto dei propri enfatici tentativi di salvare anime ed espandere la cognizione del sacro. Simili parole, d’altra parte, meritavano l’impiego di un sistema di protezione dalla pioggia, le intemperie e le difficoltà del viaggio…
Tre secoli dopo nel suo paese d’origine, all’apice del periodo dei monasteri d’Irlanda, gli antenati dei futuri clan che si sarebbero spartiti il potere temporale di quell’isola lussureggiante erano soliti vantare il possesso di particolari oggetti infusi di poteri sovrannaturali o totemici, tra cui figuravano i ponderosi messali manoscritti redatti nell’elegante grafia insulare, oltre alle storie dei santi che in epoche antecedenti avevano seguìto l’esempio di personalità come San Gallo e l’ancor più celebre collega, San Colombano. Una delle caratteristiche esteriori maggiormente caratterizzanti per tali reliquie, archeologicamente attestata soltanto di questo particolare periodo e contesto geografico della storia umana, erano i cumdach, libri “corazzati” da un’involucro di bronzo ed argento, la cui caratteristica era quella di essere completamente sigillati all’interno. Affinché potessero venire mostrati senza rischio al popolo durante le più significative ricorrenze, usati come talismano per benedire o guarire i malati e nei casi in cui dovesse rendersi effettivamente necessario, trasportati addirittura in battaglia. Dalla figura specializzata di un chierico ereditario, custode armato di una verga pastorale, sulla cima del quale tali scrigni a forma di rettangolo venivano impiegati come uno stendardo per fare coraggio agli uomini, e nel contempo gettare lo sconforto nel cuore dei nemici. Giacché non esisteva sortilegio al mondo, che fosse più potente nel proteggere i sinceramente devoti di un sincero e imperituro atto di Fede…

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Scovato tra rovine peruviane l’intrigante cerchio di un altare per le offerte al dio del fuoco primordiale

Nella metà del giorno indicato nei sacri calendari come il più bollente e al tempo stesso critico del ciclo annuale, il responsabile dei riti e il sommo sacerdote del distretto alto s’incontrarono nel centro esatto della grande piazza sotto la piramide del Sole. In una breve cerimonia al cospetto dei capi clan delle maggiori casate, lungamente definita ma non troppo stessa ripetuta, essi disegnarono con i bastoni la precisa posizione delle stelle direttive, confermando il sopraggiungere dell’allineamento supremo. Allorché una breve danza condotta lungo il perimetro del cerchio, accompagnata dal suono di musici provenienti dalle sette province dell’Incomparabile Impero, dava il segno di dare inizio ai festeggiamenti. Presto strisce di eleganti stoffe colorate, assieme a svolazzanti corde rituali, sarebbero state esposte alle finestre dei gremiti edifici centrali. Mentre schiere d’animali sacri avrebbero marciato entro i confini della capitale, Caral. Mentre il vero punto cardine delle fondamentali cerimonie, il momento esatto in cui sarebbe stata resa manifesta nei confronti degli Spiriti superni l’esigenza di accelerare l’arrivo delle prime piogge autunnali, sarebbe giunta solamente verso l’ora del tramonto, quando una percentuale dei pregiati lama ed alpaca, ma anche un certo numero di cavie catturate nella giungla dai membri del popolo per l’occasione, avrebbero raggiunto finalmente le case circolari di venerazione degli Elementi.
Ritornato dunque alle avite dimore, in base ai codici coerentemente riportati nelle collane di corda che costituivano la scrittura del suo popolo, lo sciamano che parlava con la voce dell’astro del mattino si apprestò ad avvicinarsi a quella scala proibita, in fondo a cui una cupola sorgeva, dal cui foro strategico una fumata dichiarava il sopraggiungere dell’atteso momento. “Per ordine del nostro benevolo sovrano, sia dato inizio ai sacrifici.” Egli declamò solennemente. Animato di una propria volontà apparente, l’uscio del santuario venne aperto dai suoi giovani aiutanti nascosti. Quindi con gestualità magnifica, estese il proprio invito verso il fuoco eterno alle creature derelitte destinate, in quel giorno propizio, ad ascendere in mezzo agli strati di quel cielo sommamente posseduto da un potente senso d’aspettativa. Per fortuna, quest’anno la cerimonia è caduta un giorno straordinariamente propizio, pensava quietamente tra se e se. Neppure un singolo bambino umano avrebbe ricevuto l’onore fatale di raggiungere, nel contempo, le grandi sale degli antenati. Per una volta l’arcano Protettore dei caraliani si sarebbe ritenuto sazio di quel sangue e quelle vettovaglie, generosamente ed imprescindibilmente offerte dalle genti del grande Impero.
Quali tradizioni, che ritualità codificata, pronunciando quali nomi le pacifiche persone dell’antica America Meridionale avrebbero istantaneamente collegato all’ingresso periodico nel probabile centro sacro di Era de Pando, situato pochi chilometri a settentrione della città più vasta che l’intero continente avesse mai conosciuto? Ecco, se mai ce n’è stata una, la domanda che diventa difficile quando il periodo preso in esame trova collocazione esattamente all’apice di 5 millenni prima della corrente data…

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Bianco è il tempio dove Predator alberga tra gli spiriti materialisti del Buddhismo Theravada

Non ci furono particolari dubbi, nel momento in cui Arnold Schwarzenegger pronunciò nel 1987 l’iconica battuta “Get to the chopper!/Presto, all’elicottero!” nel film destinato a diventare un cult di John McTiernan, sull’orgoglioso cacciatore alieno di esseri umani, egli interpretasse un commando che era “Dutch” (olandese) di nome e non di fatto, visto la caratteristica e marcata inflessione tedesca del suo eloquio. La stessa che sarebbe stata, per le decadi ulteriori, resa in uno scherzo ricorrente o meme con la trascrizione semi-seria del termine finale in choppa, ancorché nessuno avrebbe mai potuto interpretarla come ubosot. Peccato! Un’occasione persa di profetizzare, in qualche modo, l’apertura ai visitatori esattamente 10 anni dopo di quella che sarebbe diventata una delle strutture più famose di Chiang Rai, città di 77.000 abitanti nell’estrema parte settentrionale della Thailandia. Molti dei quali devoti ai valori tradizionali di quel paese, con particolare attenzione nei confronti del sovrano e del Buddha che salvaguardia il ciclo karmiko dell’umanità. Assediata da ogni lato, un po’ come nel salmo 23:4 reso celebre dall’altro film Pulp Fiction, dalle insidie e i mali del mondo che innumerevoli culti, religioni e discipline hanno saputo identificare con tipologie di volti e aspetti divergenti. Visione cosmologica, quest’ultima, efficacemente al centro del comparto visuale ricercato con il Wat Rong Khun o “tempio bianco” secondo alcuni una vistosa trappola per turisti, nell’opinione di altri un simbolo della sapienza e devozione di Chalermchai Kositpipat, il rinomato pittore, scultore e progettista nato nel 1955 per diventare probabilmente una delle voci più influenti dell’arte moderna di quel paese. Fino all’accumulo di un prestigio e risorse sufficienti al fine d’intraprendere, a seguito di un sogno, la costruzione di quello che dovrà costituire il suo più duraturo lascito a vantaggio delle generazioni future.
Ben lontano dal vantare, sia questo immediatamente chiaro, la configurazione tipica di un qualsivoglia luogo di culto dell’Asia sud-orientale, vantando in primo luogo pareti esterne di un bianco brillante simile alla porcellana, grazie all’inclusione di specchietti e pezzi di vetro nell’impasto dell’intonaco candido come la neve. Sotto tetti ornati fino all’inverosimile, sormontati da statue e figure simboliche che affollano il terreno del complesso di edifici. Come l’impressionante gruppo scultoreo delle mani protese che fuoriescono dal sottosuolo, ai due lati della passerella principale per accedere all’ubosot (sala di preghiera centrale) tra cui figurano tra gli altri dei teschi dalla forma non immediatamente attribuibile ad alcun tipo di creatura terrestre. Almeno finché non si scorge, a poca distanza, la sagoma semisepolta di un realistico yautja (cacciatore) il feroce nemico umanoide di Dutch e gli altri protagonisti del vetusto leggendario cinematico titolare. La metafora, naturalmente, risulta essere piuttosto chiara: gli spettri dell’intrattenimento americano cercano di spaventarci tramite iconografie potentemente subdole nella propria fondamentale mancanza di realismo. Mentre soltanto Buddha al termine di quel doloroso cammino può effettivamente dirsi, a tutti gli effetti, reale…

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Profezie del tetto d’Africa: mille metri sull’abisso che divide le pianure della Namibia

Rappresenta una costante nella storia della religione umana, il modo in cui venire al mondo in determinati territori, tanto magnifici e distintivi, può ispirare il tipo di pensiero filosofico capace di costituire il fondamento di un di una consapevolezza del tutto nuova. Così il Tibet per le scuole del Buddhismo ed allo stesso modo, quella massa di rilievi non meno imponenti al tempo del super-continente Gondwana, che ancora oggi costituiscono le alture niente affatto trascurabili della regione dell’Angola. Come l’orlo di una vasta piattaforma africana, che improvvisamente s’interrompe per incombere sopra i territori del remoto meridione, molto più vicini al livello del mare. Qui nacque nel XVII secolo, a poca distanza dal fossato nella cittadina di Kibangu in quello che costituiva all’epoca l’impero coloniale del Kongo, la celebrata predicatrice dell’unità Africana, nonché fondatrice dell’eresia antoniana, Kimpa Vita, alias Doña Beatriz. Capace di fondare la sua disciplina teologica su due dialoghi fondamentali: quello nei suoi sogni con l’egiziano Sant’Antonio il Grande, ed uno più diretto e quotidiano, con l’anziana profetessa di Monte de Kibangu, Apollonia Mafuta. La quale riteneva che il Dio cristiano fosse infuriato con il re del Kongo, per aver abbandonato il suo popolo, e nel momento in cui la cultura originaria del suo popolo fosse andata totalmente perduta, una colossale montagna avrebbe preso fuoco, conducendo il mondo all’Apocalisse. Il nome di questo rilievo: Serra da Leba, oggi celebre per la presenza di una caratteristica geologica nota come fenditura di Tundavala. Un passo montano raggiungibile mediante irti sentieri all’altitudine di 2.200 metri, affacciato sopra un vuoto colossale non più alto di 1.000. L’ideale rampa di lancio per generazioni d’internazionali praticanti della nobile arte del base jumping, se soltanto non fosse tanto remoto e relativamente sconosciuto ai turisti. Non che manchino su Instagram le occasionali foto ricordo scattate dagli escursionisti, in cui è precario il modo in cui si resta penzolanti da una roccia che la prospettiva sembra rendere sospesa sopra il grande vuoto, pur trovandosi nella realtà dei fatti a pochi metri da terra.
Molto prima che ciò fosse possibile in qualunque modo percepito come necessario, la fenditura fu piuttosto celebre per una triste usanza locale, che anticipò largamente la venuta dei portoghesi e conseguente guerra tra fazioni contrapposte interne. Ovvero il modo in cui chiunque si ribellasse all’autorità del sovrano di turno, fosse solennemente condotto fino all’orlo dell’abisso, per scrutare un’ultima volta quel magnifico paesaggio erboso. E quindi spinto innanzi, senza remore o rimorsi, per lasciare il mondo dei viventi e fare il proprio ingresso nell’immensità…

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