In un repertorio ricco come quello di YouTube che verte sul tema d’imprese individuali, prove di coraggio, avventure temerarie totalmente fuori dal comune, capita piuttosto raramente di trovare qualcosa di assolutamente nuovo ed inusitato. Eppure sono pochi quelli che possano dire di aver visto, o addirittura effettuato, un’esperienza di così notevole ed al tempo stesso insolita natura. Pedalare a gran velocità tra le aspre rocce e i cavernosi ambienti di quella che può essere soltanto descritta come una miniera abbandonata. Luogo da esplorare, normalmente, con un occhio di riguardo per la sicurezza e il ritmo cadenzato di chi pratica in maniera assidua la speleologia. Molte volte, ma non oggi. In vari luoghi ma non questo: Podzemlje Pece, l’antica fonte di sostentamento della cittadina slovena settentrionale di Meznica, non troppo lontano dal confine austriaco. Dove per tre secoli si è lavorato assiduamente, per estrarre il contenuto di uno dei più significativi giacimenti di piombo e zinco nell’Europa continentale. Finché nel 1993 tale proposito ha finito per diventare economicamente non più redditizio. Lasciando le spaziose cattedrali sotterranee interconnesse per la prima volta in silenzio. E del tutto disponibili per nuovi tipi di attività in attesa di essere create dall’inesauribile ingegno umano.
Ciò che lascia tuttavia sorpresi al primo approfondimento della questione, tuttavia, è il fatto che gli esperti utilizzatori di BMX protagonisti di tali e tante sequenze, tutte indifferentemente provenienti da questo luogo, non siano poi così rari né realmente degli spericolati senza un vero senso di riguardo nei confronti della propria incolumità individuale. Non più, almeno, di chiunque altro pratichi questa tipologia di sport. Questo perché l’effettivo percorso sotto la montagna di Pece, ad uno studio maggiormente approfondito, risulta libero d’ostacoli, dotato di evidente segnaletica, persino protetto dalla presenza di reti anti-caduta nei suoi punti maggiormente precari. Andando ben oltre le comuni precauzioni che possono essere state installate in modo autonomo dai precedenti visitatori. Già, perché le prime impressioni ingannano e questo né costituisce un esempio tra i più carichi d’implicazioni accessorie: il Black Hole Trail o “Sentiero del Buco Nero”, come viene chiamato internazionalmente, è una legittima attrazione, creata a e gestita dall’ente turistico della regione di Jamnica. Approntata per la prima volta all’inizio degli anni 2000 sfruttando il tragitto della dismessa ferrovia sotterranea della miniera. E successivamente perfezionata, mediante l’aggiunta nel 2018 di un legittimo percorso enduro all’interno degli snodi più sinuosi e dunque affascinanti della complessa rete sotterranea precedentemente sconosciuta ai non addetti ai lavori. Dietro il pagamento di un biglietto ragionevole d’ingresso, s’intende…
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L’oblunga crepa che divide il territorio arido nel parco nazionale delle Canyonlands
Chiaramente nota tra i pochi cervi del distretto, in mezzo a lievi dislivelli e rocce che compongono un paesaggio brullo e caratterizzante, la linea divisoria ha molto lungamente costituito il “bordo della mappa” per innumerevoli abitanti, forme di vita, creature non fornite della pratica capacità di sollevarsi per andare oltre. Un luogo noto per il modo in cui la luce non riesce a penetrare, tanto da essere chiamato sulle guide o i materiali di supporto: the Black Crack, la Spaccatura Nera. Insolita persino nel territorio dall’orogenesi complessa di un luogo come il parco delle Canyonlands, nella parte meridionale dello Utah non troppo lontano da Moab. Lungo l’arduo tragitto stradale della White Rim Road, per cui si richiedono veicoli speciali ed ancor più rari permessi ottenuti dalla contea. Il che non sembrerebbe aver precluso, a generazioni successive d’escursionisti, l’opportunità di scorgere coi propri occhi l’incredibile caratteristica del paesaggio, diventata celebre negli ultimi tempi per il meme internettiano che tenta d’identificarla come niente meno che la faglia di Sant’Andrea. Accompagnata da didascalie evidentemente fasulle, che parlerebbero di 132 Km di lunghezza e 32 di profondità. Laddove l’effettiva crepa, benché significativa in termini universali, non supera in profondità i 20-30 metri ed ha un’estensione di circa un centinaio nonostante la larghezza sia talvolta inferiore al metro. In molti modi più che sufficiente a creare nell’escursionista tipico quel senso di surreale straniamento, per cui siamo ricorsivamente indotti a confrontarci con le anomalie dei luoghi più quotati o fraintesi al mondo.
Trattasi dunque dell’equivalenza in termini di proporzioni, come ben pochi sono attenti a far notare, del crepaccio glaciale di una zona soggetta a strati di permafrost, il che può risulta senza dubbio rilevante alla questione, considerate le origini sostanzialmente non troppo lontane dovute ad escursioni termiche potenti e reiterate. Sebbene in questo caso, verificatosi lungo l’arco di possibili migliaia di anni sul terreno duro d’arenaria, tanto caratteristico delle regioni del parco. E coadiuvate da forze d’erosione come l’infiltrazione idrica ed il soffio instancabile del vento. Egualmente responsabili, di loro conto, per sculture svettanti come l’iconica Isola del Cielo, il Labirinto e gli Aghi. Benché sia difficile negare il fascino di un tale buco, tanto umile nelle caratteristiche quanto funzionale a generare un ricco repertorio di fantasie. Sulla falsariga di: quanti cadaveri si troveranno là sotto? Quanta spazzatura? Quali creature striscianti ed infinitesimali, come bachi fatti prosperare sui confini di uno squarcio sanguinante, intenti a rimuovere i batteri dalla ferita della Terra stessa…
Il ponte super-solido situato sopra il balzo fragoroso del grande fiume Iguazu
Chiunque abbia frequentato per un tempo sufficientemente lungo certi distretti di Internet avrà familiarità intrinseca con la coscienza videografica, pulsione collettiva che allontana l’istintiva percezione del pericolo ogni qual volta si stringe saldamente in mano il cellulare, puntando l’obiettivo della videocamera verso qualcosa di unico, meraviglioso e dunque memorabile per chiunque potrà osservarlo in differita, sui social o altrove. È il segreto pretesto dietro al tipico comportamento di coloro che scavalcano i parapetti del Grand Canyon, o si sdraiano agli estremi margini della Trolltunga, pietra norvegese in bilico sopra l’ondoso abisso del fiordo antistante. Eppure esistono dei luoghi, presso alcuni dei siti turistici potenzialmente più pericolosi al mondo, dove simili comportamenti vengono sapientemente veicolati. Tramite l’installazione d’infrastrutture che paiono soltanto all’ultimo stadio di precarietà evidente; ma costituiscono, in ogni loro singola parte, l’espressione di uno studio ingegneristico davvero approfondito. Offrendo il massimo della sicurezza possibile, considerato un contesto come il colossale ferro di cavallo scrosciante di Iguazu, al confine esatto tra Brasile e Argentina. Per coloro che, atterrati al vicino aeroporto eponimo e saliti sopra il treno dei visitatori che accompagna le persone all’ottava cascata del mondo per flusso idrico complessivo (e certamente una delle più spettacolari, assieme a Niagara e Victoria) ogni predisposizione all’effettivo sdegno del pericolo parrebbe allora realizzarsi, nel momento in cui mettono il primo piede sul cosiddetto Circuito Superiore, una rete d’interconnesse passerelle, costruite primariamente sul lato di Buenos Aires, capaci di condurli a pochissima distanza da un balzo di 40 metri giù nel colossale inferno bianco di schizzi e gorghi fluviali. E fin qui nulla di strano, finché non si guarda verso il basso per prendere atto del flusso medio di 1746 metri cubi al secondo, che in determinati momenti parrebbe concentrato concentrato in buona parte contro quei piloni ben piantati nel suolo basaltico sottostante. Soprattutto quando nel periodo della stagione delle piogge, il livello delle acque s’innalza ulteriormente, evocando l’immagine esecrabile degli abitanti di un centro abitato, che si affollano per raggiungere attraverso un battistrada instabile l’altro lato di un precario attraversamento prossimo alla chiusura. Nulla di più diverso potrebbe d’altronde costituire la realtà, vista la lunga storia ed i trascorsi di acclarata sicurezza degli stretti corridoi, esistenti ormai in diverse iterazioni da un periodo di quasi cent’anni a questa parte…
L’incerto metodo e ragione di un castello rosa come ornata magione
Classe, semplicità, eleganza e un senso di rispetto nel mantenimento dei valori estetici di un tempo. Questi sono i meriti, più di ogni altro, che individuiamo come validi nel metodo impiegato per ripristinare i fasti di un’antica dimora, specie se si tratta di un castello. Simbolo per eccellenza del potere assoluto, su un territorio che può estendersi ben oltre i limiti spioventi del suo fossato. Ed ancor più quando è mancante quel particolare elemento, venuto meno l’originario scopo difensivo di tali alte mura, trasformate dalle circostanze in alternativa più rurale del grattacielo. Non è forse vero che l’odierno capitalista, in questo vigente periodo della storia, può diventare il possessore di un’autorità distinta e trasversale, soprattutto quando messo a confronto con coloro che devono chiedere il permesso, anche soltanto per cambiare il colore dell’uscio di casa propria? Ce lo dimostra l’insolita ed impressionante vicenda dello chateau La Stelsia (già Lalande) costruito nel distretto di Lot-et-Garonne nel Sud-Ovest della Francia, a quanto affermano le poche fonti attorno al XIII secolo come parte della linea difensiva contro eventuali scorribande da parte degli Inglesi. Il cui approfondimento diviene relativamente più semplice a partire dal XVII secolo, quando membri non meglio definiti dell’aristocrazia locale ne fecero una fattoria fortificata, quindi l’elegante dimora che possiamo vedere tutt’ora. Se ci riesce di scrutare oltre la sottile scorza di quella vernice variopinta che oggi offusca i crismi architettonici che tenderemmo a dare per scontati.
Questa l’idea e tale la realizzazione ad opera di Philippe Ginestet, l’imprenditore ed uomo d’affari natìo proprio di un paese a pochi chilometri da qui, che avendo guadagnato una fortuna non indifferente grazie alla catena di negozi per la casa Gifi ha scelto di acquistare quasi quindici anni fa l’imponente struttura da 31 camere e 40 bagni, ormai da tempo adibita ad hotel ma ormai prossima al fallimento. Impegnandosi a restaurarla completamente a patto che: 1 – Potesse avere i permessi di rinnovare il business per riuscire a renderlo redditizio. 2 – La colorazione esterna dell’edificio restasse totalmente a sua esclusiva e indisputabile discrezione. Il che, vista l’alternativa per un posto che sembrava già destinato a cadere in rovina, non lasciò materialmente grandi alternative alla commissione per i beni culturali del dipartimento…