Nuovo approccio esplicativo ai grandi buchi che si formano nel Polo Sud

Per lungo tempo l’uomo ha tralasciato d’interrogarsi in merito alle precise dinamiche che condizionano, come il transito dell’alta e bassa pressione atmosferica, le vaste trasformazioni degli oceani terrestri. Questo perché in fondo, cosa importa di quello che non può influenzare l’interminabile traffico dei commerci, se non in maniera indiretta, poiché la meteorologia si è lungamente dimostrata capace, in modo altrettanto valido, di determinare il corso e il flusso delle tempeste… Almeno finché nell’inverno del 1973, una delle coraggiose navi dallo scafo tagliente spedite ad esplorare le più gelide propaggini dell’emisfero australe, non raggiunse quella zona geografica nota come “mare” di Weddel, dove le leggi di natura avevano insegnato quanto il ghiaccio imperituro fosse in grado di sostituirsi, senza limiti né interruzione, ai flussi d’acqua senza nome o un continente propriamente definito. L’anno, la decade e il secolo precedente ma non quel giorno: poiché innanzi agli occhi dell’equipaggio atterrito, la scorza solida e indivisa iniziò a presentare una fessura. Che un’onda dopo l’altra e ad ogni giorno di navigazione, sembrò tendere ad allargarsi progressivamente, fino a diventare un’apertura priva confini. O per meglio dire, vasta quanto le 36 contee dello stato dell’Oregon, corrispondenti a circa 255.000 Km complessivi. La terminologia scelta come appellativo per un tale fenomeno fu, quindi, di derivazione russa: polynya ovvero letteralmente полынья “buco nel ghiaccio” benché nessuno a conti fatti fosse in grado di farsene una ragione. Né trovarne, soprattutto, l’origine remota o prossima, nel vasto catalogo delle possibili ipotesi valutate per il suo verificarsi.
Ora se un tale fenomeno fosse stato una-tantum, senza ulteriori occasioni di studio ed approfondimento, la questione sarebbe assai probabilmente terminata lì. Difficilmente del resto, in un’epoca tecnologica risalente ad oltre 45 anni fa avremmo potuto disporre degli strumenti adeguati per tentare di comprendere, o approfondire, un simile mistero dell’Universo. E benché polynye di natura molto più ridotta abbiano avuto modo di verificarsi in altre zone ancora congelate dell’Antartide, nessuna di queste sembrò avere rilevanza o vastità anche soltanto paragonabili a quell’originale e impressionante registrazione storica pregressa. Almeno finché nel 2016, in maniera totalmente inaspettata, il satellite meteorologico della NASA Nimbus-5 non si trovò a rilevare, con il suo radiometro a microonde (ESMR) l’inusitato ripresentarsi primaverile della familiare voragine di Weddel: certo, questa volta con dimensioni complessive di “appena” 80.000 Km, comunque più che sufficienti a fuoriuscire dalle normali variazioni stagionali delle trasformazioni glaciali stagionali dei mari del Sud. E soprattutto con ottimi presupposti reiterativi, visto come pur chiudendosi al sopraggiungere dei mesi invernali, la polynya si sarebbe riformata ancora l’anno successivo, dimostrando una casualità reiterativa così poco riconducibile al normale flusso degli eventi. Abbastanza per giustificare nuovi approcci di ricerca, tra cui quello in grado di affidarsi all’assistenza di un nostro particolare, uggiolante amico. O forse sarebbe meglio chiamarlo “conoscente”. Dopo tutto, non sto certo parlando del cane…

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Geniale scienziata trova un modo per creare la plastica dai fichi d’India

Immaginate le possibilità offerte da un materiale straordinariamente resistente all’usura, impervio alla forza degli elementi, totalmente non permeabile e del tutto incapace di contaminare il cibo. Non c’è bisogno di fare particolari sforzi, dato che già esiste: si tratta della plastica, uno dei miracoli tecnologici del XX secolo, capace d’indurre significativi cambiamenti nella struttura e metodologie operative della società umana. Provate a pensare adesso solamente per un attimo al destino di quest’ultima, in un’epoca durante cui simili sostanze, estremamente economiche e immediate da produrre, dovessero risultare al tempo stesso difficili da riciclare, smaltire o far sparire in altro modo dal ciclo ricorsivo della natura. Di nuovo, a entrare in gioco non sarà la vostra fantasia, bensì il senso critico di chi è capace di guardarsi intorno ed osservare il mondo per quello che realmente è. Sulla base di dove siamo, e la direzione verso cui ci sta portando la deriva degli irrimediabili eventi. È stato calcolato, a tal proposito, come la quantità di plastica prodotta a partire dagli anni ’50 abbia raggiunto le 8.300 tonnellate complessive, di cui soltanto il 9% è stato riutilizzato, mentre la rimanente parte è finita negli oceani, sottoterra, nelle discariche o bruciato, con conseguente contributo all’accumulo di gas venefici nell’atmosfera del nostro pianeta. Il che sottintende ormai da molto tempo, nell’opinione di molti, la ricerca di un valido approccio per contenere, o quanto meno ridurre la rapidità peggiorativa del problema.
Un proposito, questo, alla base del progetto di ricerca autogestito indetto nel corso del 2018 dalla Prof.ssa Sandra Pascoe, ricercatrice di Biotecnologia presso l’Università del Valle de Atemajac a Zapoata, Messico, capace di coinvolgere una buona parte dei suoi studenti ed alcuni colleghi, per la creazione di un nuovo materiale che sia al tempo stesso economico e in qualche modo meno “perfetto” dei polimeri attualmente in uso, svanendo se lasciato esposto alle intemperie o l’acqua nel giro di pochi giorni o al massimo qualche settimana. Idea nata, originariamente, grazie all’osservazione della naturale viscosità di una sostanza tutt’altro che rara nel suo paese d’appartenenza: il cosiddetto succo di nopal, ovvero l’estratto commestibile di piante appartenenti al genere Opuntia, comunemente identificate in Italia con il termine omnicomprensivo di fico d’India. E questo nonostante si tratti, effettivamente, di un tipo di piante provenienti proprio dal continente americano, già coltivata in modo sistematico dalla civiltà degli Aztechi. La specie più comune dell’O. ficus-indica in particolare è nota per la sua capacità, spesso problematica, di crescere pressoché dovunque in Messico e l’intera parte meridionale degli Stati Uniti, invadendo spietatamente parchi pubblici, giardini e i dintorni urbani, causando non pochi problemi a chiunque ami fare scampagnate, particolarmente se accompagnato dal proprio incauto amico a quattro zampe, l’imprudente cane. Ed ecco la ragione per cui negli scorsi mesi, proprio i cladodi (foglie carnose/spinose) di tale pianta sono stati sistematicamente spremuti e messi ad asciugare nel laboratorio dell’università, prima di essere modificati tramite l’aggiunta di vari tipi di sostanze e additivi, finché stanchi di attendere un risultato che sembrava non avvicinarsi, le plurime menti coinvolte sono prevedibilmente passate ad altro. Tutte ma non lei, la Prof.ssa Pascoe , che lungi dal lasciar sfuggire il fulmine dell’intuizione di partenza, ha continuato stolidamente ad impegnarsi verso il raggiungimento di quella bottiglia metaforica capace d’intrappolarlo per il misurabile vantaggio di tutti. Finché al suo ritorno dopo la manciata di giorni previsti per mettere alla prova l’ennesima miscela, non è andata a sollevare ancora una volta il grumo disposto sul suo tavolo. Per vederlo rimaner compatto, seguendo con modalità indivisa il ben preciso movimento indotto dalla sua mano…

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Enrico Fermi e la maledizione atomica della terza sfera

Un uomo muore di attacco cardiaco a 55 anni, nel 1966. Patologia ereditat da suo padre, oppure…? Un altro di leucemia mieloide acuta sul finire del 1965. Mentre il terzo, incorre in complicazioni fatali dell’aplasia midollare al volgere del 1973. Fu piuttosto fortunato: aveva 83 anni. Eventi all’apparenza del tutto scollegati tra di loro, se non per il fatto che costoro, in un preciso momento dell’anno successivo al termine della seconda guerra mondiale, si trovavano tutti nella stessa stanza. Assistendo all’evento estremamente rapido che avrebbe portato all’avvelenamento letale da radiazioni del loro stimato collega canadese Louis Alexander Slotin, abbastanza sicuro di se, o folle, da “infastidire ripetutamente la coda del dragone” con lo strumento inadatto di un cacciavite. Nonostante una simile bestia avesse, nei fatti, già fagocitato la vita del suo esimio predecessore.
Terribilmente delicata risulta essere la chiara cognizione secondo cui l’essere umano, come creatura pensante che abita questo pianeta, sia fondamentalmente una presenza ragionevole, o prudente. Poiché una tale posizione filosofica avrebbe la necessità di radicarsi nell’acquisita, o in qualche modo giustificabile certezza, che ogni particolare errore, qualora sufficientemente grave, non venga commesso più di una singola volta. E che ogni morte evitabile venga, a seguito del suo verificarsi, inserita nel catalogo di quelle che saranno a partire da quel momento evitate. Risulterebbe allora assai difficile, per chiunque abbia un’opinione critica della storia, giustificare una duplice tragedia come quelle di Hiroshima e Nagasaki. Subìte da un paese nemico in guerra già fiaccato ed incapace di combattere benché, nell’opinione presunta dallo stato maggiore americano, avesse l’intenzione di sacrificare fino all’ultimo uomo in uniforme. Molto meglio provvedere, quindi, all’annientamento eclatante di una parte considerazione della sua popolazione civile residua, no? Del resto, fu successivamente ricercata come giustificazione, nessuno conosceva “l’orrida potenza” di un “terribile ordigno” capace di scatenare l’energia incalcolabile della fissione atomica, alla compressione del suo nucleo di plutonio ricavato da pericolosi impianti di raffinazione del minerale. E per quanto riguarda la seconda volta, beh, probabilmente non c’era stato abbastanza tempo per rendersene conto…
Vi sembra un’affermazione credibile? Forse non a tutti i possibili livelli. Ma almeno ad uno, di certo: quello degli scienziati direttamente coinvolti nel progetto Manhattan. Coloro che per vie molto diverse tra loro, a seguito della fatidica lettera di Albert Einstein e il fisico di origini ungheresi Leo Szilard al presidente Franklin D. Roosevelt (1939: “Investi nella ricerca atomica, o la guerra sarà perduta”) si ritrovarono a lavorare nell’impianto top secret di Los Alamos, guardati a vista da sorveglianti armati, per tentare di comprendere il segreto che avrebbe condotto alla realizzazione dell’arma più potente dell’intero Sistema Solare, per lo meno a quanto ci è dato di sapere fino al momento corrente. Si trattava di un gruppo eterogeneo, composto in egual misura da stimate figure del mondo accademico, statunitensi per nascita o naturalizzate tali, professori universitari ed ogni sorta di esperto di quel campo vertiginosamente innovativo che era lo studio dell’energia nucleare. Ma molti di loro erano giovani, il che tendeva a renderli spregiudicati e proprio per questo, inconsciamente convinti della propria sostanziale immortalità. Figure come l’armeno-americano Harry Daghlian, che dopo essere cresciuto a in un piccolo paese del Connecticut con la sorella ed il fratello, si dimostrò sufficientemente geniale da accedere alla prestigiosa istituzione del MIT a soli 17 anni, per laurearsi in scienze e iniziare a lavorare sui ciclotroni nel 1942. E da lì all’installazione nel deserto del Nuovo Messico, come accennato nel nostro racconto, il passo fu breve. Portandoci al drammatico antefatto della nostra vicenda principale: il brillante scienziato, dell’età di appena 24 anni, che successivamente al concludersi dell’orario di lavoro maneggia una serie di sfolgoranti mattoncini di metallo alla tenue luce del laboratorio e sotto lo sguardo attento della guardia che gli era stata assegnata. In mezzo ai quali, in maniera alquanto sorprendente, figura una sfera. Si tratta del terribile oggetto che fin troppo presto, sarebbe passato alla storia con il nome inquietante di Demon Core (il Nucleo, o Nocciolo Demoniaco).

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L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

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