Volti che riemergono dal vetro sotto i colpi di martello. Firmato: Simon Berger

La mano dell’artista è intrisa dell’azione pratica del costruttore dei mondi. Ancorché come nel mito rigenerativo della Trimurti, non sia possibile accampare un meccanismo sistematico come le regole di un segmento di materia, senza prima fargli spazio, disperdendo, annientando, ricombinando gli atomi di ciò che persisteva precedentemente. Il quantum che si trova in equilibrio tra il principio di creazione, mantenimento e distruzione può perciò costituire, nella sussistenza delle giuste circostanze (siano queste fisse, oppure transitorie) la caratteristica fondamentale per riuscire a definire che pulsioni, quale sentimento o tipo di ambizione, guidi il gesto quotidiano di colui o colei che genera la fonte di una simile creatività situazionale. Shiva è, nel suo profondo, la divinità che ispira il modo in cui il pluri-premiato produttore visuale svizzero, Simon Berger, riesce a dare vita alle figure che campeggiano nel centro della sua mente. Volti di donna, principalmente, ma anche teschi, animali, figure storiche della cultura, riproduzioni di celebri opere della storia dell’Arte. Tutto monocromaticamente riprodotto in un tripudio di linee interconnesse e sovrapposte tra loro. Poiché non usa lui un pennello, una matita, penna o altro simile implemento calibrato per il disegno. Ma un qualcosa di assai meno preciso, almeno in linea di principio: una MAZZA, sopra il VETRO. Che percuote con metodica insistenza, un colpo dopo l’altro, per minuti, ore o il susseguirsi di molteplici sessioni, l’una dopo l’altra. Fino alla trasformazione di una singola superficie liscia ed uniforme in un qualcosa degno di essere per lungo tempo preservato.
Ah, figure sfolgoranti che riescono a venire amplificate dalle luci fisse della galleria! Non è difficile comprendere il successo che ha ottenuto questo ingegnoso individuo, che perfezionando il proprio metodo attraverso ormai una mezza decade, ha deciso d’intrecciare la propria carriera in modo indissolubile con questo medium, che comunemente viene utilizzato per il parabrezza dei veicoli su strada. Già perché il vetro usato da Berger, lungi dall’essere il comune velo cristallino delle finestre nostrane, è del tipo laminato che si trova ai rispettivi lati di una singola pellicola impossibile da “frantumare”. Ecco perché un colpo dopo l’altro, esso riesce a mantenere nonostante tutto una saliente integrità nel suo complesso, mentre chilogrammi di frammenti vengono rimossi, uno dopo l’altro, dall’ineccepibile figura del quadro finale. Spesso in gremite ed entusiastiche circostanze performative. A rischio inevitabile, per quanto lieve, degli occhi, delle orecchie e dei polmoni dei presenti…

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La variopinta parabola pacifista del Mig coperto di perline sudafricane

Un silenzio quasi reverenziale calò nel capannone di Johannesburg, temporaneamente adibito ad hangar pur trovandosi distante da qualsiasi pista di manovra, decollo o atterraggio. Le due dozzine di persone venute a vedere il frutto di tanto lavoro e dedizione da parte dei loro parenti ed amici artigiani guardavano con senso d’aspettativa l’artista di fama internazionale, ritornato temporaneamente in patria dalla propria residenza londinese. Erano le prove generali, d’altronde, di un punto di svolta topico nella comunicazione a sfondo pacifista veicolata tramite uno stile comunicativo prettamente rappresentativo del più antico dei continenti: l’Africa. E poco importava, in quel contesto, che a idearlo fosse stato un individuo di etnia caucasica, quello stesso Ralph Ziman che potreste già conoscere per il premiato film Jerusalema (2008) ambientato tra i capi criminali che gestirono per lunghe decadi le proprietà immobiliari del quartiere di Hillbrow, in quella stessa vasta città, terza più grande del paese. Un uomo nato nel 1963 e che pur avendo vissuto l’apartheid dalla parte favorita, né restò segnato al punto da decidere di trasferirsi altrove, essendosi necessariamente arreso alle ingiustizie di un sistema che non voleva riconoscere né consentire l’eguaglianza tra i popoli nativi e i detentori degli ingiusti privilegi. Regista, fotografo, comunicatore e adesso…
Le luci si accendono all’unisono, il suono indistinto della collettività che prende fiato. Un telo viene tolto dall’oggetto voluminoso che si rivela essere, colmando le aspettative dei presenti, un vero e proprio jet da guerra supersonico Mikoyan-Gurevich MiG-21. 14,77 metri di lunghezza per 7,16 di apertura alare, ma completamente ricoperto di quelle che in molti dubiterebbero in prima battuta essere (non conoscendo i precedenti) delle sfavillanti perline, dalla contrastante disposizione geometrica verde, rossa, gialla, blu ed arancione… Proprio come il jingosha e gli altri ornamenti dei capi delle tribù dei Thembu, successivamente al XVI secolo adottato grazie alle importazioni come uno status symbol da una significativa parte dei popoli della parte meridionale del continente. Ma qui trasferito a dimensioni largamente più impressionanti, mantenendo le soddisfacenti fantasie di rombi, linee diagonali e rettangoli, perfettamente incorporati nelle linee dell’aereo da combattimento. Che già molti anni prima di quel fatidico momento, aveva smesso di sparare per sempre. Ed oramai non l’avrebbe più fatto. Se soltanto si potesse dire lo stesso degli altri 11.495 assemblati lungo l’intero periodo della guerra fredda…

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Maestro di fotografia desueta imprime il transito del sole in una mera lattina usata

Se nel corso di una passeggiata in mezzo alla natura, vi capita di scorgere incastrata tra le rocce o i rami un semplice cilindro di metallo, con il logo di una bibita frizzante, aspettate prima di raccoglierla per trasportarla fino al cassonetto più vicino. Osservate, prima, se c’è un buco. E in che direzione è rivolto quest’ultimo, poiché se innanzi c’è un paesaggio, monumento o altra meraviglia inamovibile del territorio, allora caro escursionisti, ciò che state osservando è l’arte in corso di creazione. Per il tramite di uno strumento al tempo stesso semplice, e moderno: una camera oscura portatile, del tipo normalmente usato (?) ai fini concreti della solarigrafia. Ce lo spiega tramite i suoi gesti Ian Ruhter, fotografo di South Lake Tahoe (CA) celebre per le sue molte opere premiate e le mostre di portata internazionale. Ma anche gli approcci eclettici che ama descrivere su Internet per i suoi molti seguaci, ivi incluso il furgone dell’UPS che ha acquistato e riconvertito in una fotocamera gigante con laboratorio chimico sul retro, andando in giro per tutti gli Stati Uniti per mettere in pratica l’antico metodo di sviluppo di lastre mediante l’utilizzo del collodio di nitrocellulosa. Passaggio in questo caso totalmente superfluo, viste le notevoli caratteristiche della tecnica che sta impiegando, per come è stata formalmente inventata dai polacchi Kula, Jesionek, Noniewicz e Smołenski alla fine degli anni ’90, consistente nell’impiego diretto di una carta impressionabile all’alogenuro d’argento. Di un tipo non dissimile dal tipico supporto della vecchia fotografia analogica, benché dotata di un grado d’impressionabilità decisamente inferiore alla media. Ragion per cui la lattina in questione, dopo essere stata forata, ricoperta all’interno con un foglio di quel materiale ed attentamente richiusa, è rimasta in posizione per un tempo approssimativo di una settimana. Al tempo stesso il punto debole, nonché la forza di quest’arte insolita, il cui scopo è non soltanto quello di riprodurre una figura invertita del paesaggio in negativo, mediante il sistema del riflesso stenopeico, ma anche i successivi passaggi dell’astro diurno nel cielo antistante. In una sorta di time-lapse dal basso contenuto tecnologico, cionondimeno memorabile sia nei metodi che il risultato finale una volta sottoposto a scansione digitale ed incremento del contrasto tramite l’impiego di programmi di grafica. Nient’altro che l’ennesima, ingegnosa idea, ripresa e in questo modo attualizzata da un esperto utilizzatore di strumenti risalenti agli albori dell’Era contemporanea…

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42 caratteri d’artista: la trasformazione delle vecchie macchine “da disegno”

A distanza ormai di quasi mezza decade dall’inizio degli anni del Covid, è possibile gettare indietro uno sguardo obiettivo, scorgendo assieme ai molti aspetti negativi alcuni risvolti inaspettati, che hanno aperto porte inaspettatamente positive ai processi umani. Nuovi sistemi, nuovi metodi, sentieri verso l’introspezione personale. E nel caso di talune figure creative, un cambio di carriera necessario a illuminare agli occhi della collettività i meriti notevoli della loro arte. Tra le schiere di costoro può naturalmente figurare il millennial James Cook, all’epoca studente di architettura, che ormai da tempo aveva individuato come origine della propria passione non tanto progettare gli edifici, quanto trasferirli tramite un approccio assai particolare su carta. Un tipo di prassi figurativa, il suo, ma ben diverso da quello di Hans Vredeman de Vries, Dirck van Delen o Giambattista Piranesi. Giacché semplicemente disegnare linee rette ed ombreggiarle a dovere avrebbe fatto ben poco per distinguerlo dagli utilizzatori odierni dello strumento informatico e gli approcci fin troppo pratici della digitalizzazione. No, piuttosto qui l’artista guarda indietro e sceglie di farlo tramite l’approccio maggiormente asettico ed impersonale, tra tutti quelli disponibili a partire dalla fine del XIX secolo. Avete mai pensato, a tal proposito, di disegnare usando una sferragliante, metallica, razionalistica macchina da scrivere? Il tipo di strumento che usavano i nostri nonni, per semplificare la scrittura in un mondo in cui ancora gli errori non potevano essere cancellati senza conseguenze, ed il cambio del rullo d’inchiostro era un compito rischioso riservato all’ultimo arrivato dei contesti d’ufficio. Forse non il più pratico degli approcci a disposizione, giungendo a richiedere un minimo di cinque giorni per il completamento di un foglio A4. Ma infuso di un fascino che viene dal più puro e incontrovertibile eclettismo.
Così avreste potuto scorgerlo a partire da quei giorni, in una città di Londra recentemente riaperta e ancora priva delle moltitudini che adesso affollano di nuovo quei quartieri, mentre seduto presso un punto panoramico o all’incrocio di due strade batteva concentrato su quei tasti di bachelite. Più e più volte lo stesso tasto, con l’approccio collaudato d’impiegarne alcuni con finalità specifiche: la “@” per ombreggiare spazi, vista la superiore quantità d’inchiostro nero che contiene; la E maiuscola per fare le finestre; la “O”, sormontata da una “o” più piccola e sostenuta da una “I” strategica, per rendere l’idea di figure umane innanzi ai più celebri palazzi e monumenti. Essi stessi una sapiente commistione di linee, trattini, punteggiatura e anche veri e propri brani testuali…

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