Terrori del folklore slavo e lo spirito mortale del mezzogiorno

“La semina avviene tra marzo ed aprile, tra marzo ed aprile…” Il sacerdote dal cupo abito proveniente dalla Lusazia s’inoltrò nel campo di grano colpito dall’arcana maledizione, la piccola croce d’argento saldamente stretta nella mano destra e gli occhi saldamente chiusi, in una silenziosa preghiera rivolta ai santi della sua terra d’adozione. Nessuna ombra sembrava circondare la sua forma, grazie al potere luminoso dell’astro perfettamente perpendicolare alla scena, come nel quadro surrealista di un maestro dell’Occidente. Ma la violenza pendeva in agguato. La brava gente del voivodato di Podlasie, con zappe, rastrelli e mazzuoli, si era radunata nei pressi del granaio costruito in legno di quercia e per questo protetto dagli spiriti del bosco, in attesa del segnale precedentemente concordato. La madre che aveva recentemente perso il figlio neonato, a fianco di suo marito, era seduta silenziosamente, meditabonda. “120 giorni sono necessari affinché il lino maturi, fino all’ingiallimento delle piante” Continuò il sacerdote, rivolto alla tenue nube evanescente concentrata in un punto perpendicolare alla luce solare, senza il benché minimo segno di alcuna tangibile presenza. Ma un sussurro cigolante, seguìto da sconquassanti rumori metallici, gli fece capire che la sua offerta era stata accettata. Allora egli sollevò le braccia al cielo, lasciando ricadere l’ornamento ecclesiastico legato alla catena sul petto, nel mentre sollevando le palpebre e scrutando intensamente quel vuoto impuro. “Palesati, Poludnitsa! Fatti avanti, dama del mezzogiorno. Io pretendo di conoscere il tuo aspetto. E voglio conferire con te immantinente, dei misteri degli uomini e dei campi” Avendo studiato presso la cappella segreta dell’Ordine per lunghi mesi, ben conosceva il metodo per vincolare gli spiriti del profondo. Ed in quale maniera suscitare, in loro, una reazione. Così la sagoma evanescente, con la lama ricurva ad incorniciargli il volto, comparve stagliandosi contro il nulla. La lunga veste strappata di colore bianco, le braccia scheletriche ed il volto mostruoso, dai lineamenti contorti in un’espressione furente. Questa figura femminile, in effetti, era bizzarra; poiché a seconda di come la si guardava, sembrava talvolta alta la metà di una persona, certe altre il doppio di un cavallo. Ed a tratti, pareva riempire il cielo e l’intero paesaggio, potendo stritolare chiunque con un semplice gesto delle sue avvizzite mani. Proprio quello che era, recentemente, accaduto al figlio del mugnaio. Esattamente la ragione per cui, quest’oggi, il prete era giunto. Facendosi rapidamente il segno della croce, l’individuo attentamente che si era attentamente preparato per l’intera mattinata recitò quindi da Geremia IV: “Il vento ardente delle dune soffia dal deserto. Verso la figlia del mio popolo, non per vagliare, né per mondare il grano.” E qui, tirando fuori un fascio di lino nascosto nelle tasche del lungo mantello, fece una pausa ad effetto, scrutando negli occhi dello spirito maligno. “Un vento minaccioso si alza per mio ordine. Ora, anch’io voglio pronunziare contro di essi la condanna.” E sia! Allora l’estremità dei rami raccolti parve riunirsi in un singolo intreccio appuntito, che sembrava riflettere la luce solare. Sotto lo sguardo paralizzato degli spettatori distanti, era diventato una spada con tanto di elsa istoriata con simboli degli antichi idiomi. Contro il Diavolo ed ogni sua terribile manifestazione terrena. Contro la sorella maledetta dell’Alba! Il crociato di Dio, temporaneamente infuso del santo potere vendicatore, ne pose dunque l’estremità in perpendicolare al terreno, come il simbolo che inevitabilmente tendeva a ricordare. Sfidando ella a venire innanzi, si concentrò sull’immagine degli Arcangeli ed i Cori Celesti, radunati per guidare la sua mano.

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All’improvviso incoronata dalla nebbia, la visione di uno spettro tra le montagne

Poggiando il bastone da passeggio sulle asperità rocciose dell’alto picco di Bracken, rivolsi un pensieroso sguardo verso l’orizzonte. Quattro, cinque speroni di roccia che sbucavano dall’oceano del nulla, come la candida ed evanescente superficie di Saturno, sovrastata da un sole debole e indistinto. All’orizzonte il frastagliato picco del Wurmberg, la più alta montagna della Sassonia. E tutto intorno, nascoste dalle nubi dell’alba, le molte dighe costruite nel corso dell’ultimo secolo, con la finalità di generare energia elettrica, il progresso e la prosperità del mondo. In quel giorno meditabondo, tuttavia, non pensavo affatto a tutto questo. Ma piuttosto valutando il punto a cui era giunta la mia vita, continuavo a interrogarmi sulle mie possibili opportunità future, ovvero quanto fosse vero che con il trascorrere degli anni, il nostro fato appaia sempre maggiormente simile alle catene di un condannato all’insostanziale schiavitù degli eventi. Un umore ormai purtroppo familiare, ed a cui l’unico antidoto sembrava essere spostarsi lungo irti e ripidi sentieri, camminando il più possibile lontano dalla civiltà. Dove i passi riecheggiavano, riecheggiavano nell’astruso silenzio… Strano, d’altra parte. Poiché non dovrebbe essere l’eco di questo, una mera conseguenza della gestualità umana? E non ero forse fermo, ormai da svariati minuti, nell’osservazione del mare di nebbia? Dunque, ci siamo… Pensai. L’ora è giunta, d’incontrarlo e rivolgergli le mie domande. Per tanti anni avevo sospettato l’esistenza, di costui! Mi voltai di scatto, verso quello che il popolo di Scozia definiva l’uomo grigio di Am Fear Liath Mòr. E lui, naturalmente, era lì a guardarmi fisso, dalle profondità del tragitto montano. Una sagoma di almeno quattro metri, le braccia e gambe impossibilmente lunghe, la testa piccolissima e circondata da uno strano alone circolare. Cinque, sei, sette colori, l’immane risultanza di un prisma completo, formato per un vezzo imprescindibile del mondo. Nella speranza di confermare un’importante teoria, alzai quindi il braccio destro, poi il sinistro. Ed obbediente, lui fece lo stesso, in posizione cruciforme al principiar di quella lunga marcia. “Ecce homo” scandii lentamente all’interno della mente. Il vero mistero è risolto; il vero mostro che si aggira tra i boschi era sempre stato parte di me. L’oscuro doppelgänger, fondamento della psicanalisi, posto innanzi a una visione più Romantica del mondo. Poiché indipendentemente dalle proprie aspirazioni, nessuno può sfuggire al progredire della fenomenologia ottica di tutte le cose. Oggettivamente imprescindibile, quanto la morte, le tasse, l’ultimo episodio di un’interminabile telenovela in Tv.
Egli esiste, d’altra parte, veramente. Pur non possedendo nessun tipo di sostanza; si dice infatti che chiunque fosse tanto folle o fortunato da riuscire ad avvicinarsi all’uomo grigio per toccarlo, non potrebbe fare altro che trovarsi ad attraversarlo con le proprie stesse mani. Percependo magari l’unica esperienza fisica di un tenue calore, proveniente dallo stesso astro che ci da la vita. E qualche volta neanche quello. Poiché un tale criptide, se così possiamo chiamarlo per analogia con lo Yeti, Bigfoot e altri individui solitari ricoperti da quel folto pelo primordiale, compare solamente fuori dallo spettro del tangibile e all’interno dello spazio percepibile coi propri stessi occhi, Ma c’è un’importantissima, niente meno che fondamentale differenza. La maniera in cui può essere immediatamente catturato con fotocamere o registrazioni video, non di un tipo impreciso, incomprensibile o sfocato. Bensì dettagliate ed apprezzabili, come il quadro di un maestro del Rinascimento. Quanto lo studio di fattibilità di un grattacielo o di un ponte. In questi termini, egli esiste e non esiste allo stesso tempo. Ma soprattutto può riuscire a mutare forma in base al proprio osservatore, un po’ come il personaggio fantastico del mago di Oz. Questo perché lo spettro di Bracken, in modo materiale e niente affatto filosofico, si trova potenzialmente all’interno di ciascuno di noi. Previo il raggiungimento del sito idoneo ad evocarlo, ovvero un’alta montagna tra le nubi del pianeta Terra, verso le ore della prima mattina quando il sole è sufficientemente basso. Da riuscire a proiettare la nostra ombra nello spazio iperboreo del vuoto. Eppure un’ombra non possiede aureole. Non raggiunge agevolmente il secondo piano di un edificio. Non parla alla coscienza più profonda e irraggiungibile del suo padrone, mettendo in dubbio, rimescolando ogni certezza precedentemente acquisita nel corso della propria esistenza…

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