Era l’estate del 1982, quando lo strano aereo fu finalmente messo alla prova. Durante la breve ma caotica guerra combattuta tra Inghilterra e Argentina, per il contenzioso territoriale delle isole Falklands, un tempo colonia del più grande impero europeo. Fu una strana serie di duelli: poiché i grossi e potenti Mirage III e Dagger in dotazione all’aviazione sudamericana erano infinitamente più veloci del nuovo caccia, compatto e subsonico, in dotazione alla marina inglese. Ma anche meno maneggevoli e soprattutto, privi del moderno radar Ferranti Blue Fox, il più avanzato che avesse volato fino a quel preciso momento della storia militare. I due aerei si incontravano sopra l’arcipelago, con la benzina già prossima all’esaurimento: questo perché gli argentini non disponevano di aeroporti adatti al di là della terraferma, mentre le navi del gruppo di spedizione, loro malgrado, temevano un possibile attacco con missili del modello Exocet. Tutto doveva risolversi, dunque, in appena una manciata di minuti: gli aerei di produzione francese ed israeliana avvistavano il bersaglio, apparentemente impreparato a reagire all’attacco. Quindi, mentre lo inquadravano con le loro armi a ricerca quest’ultimo, improvvisamente, spariva nel nulla. E gli ricompariva in coda: semplicemente, l’aereo inglese si era fermato in aria. Al tono penetrante dell’ultimo modello di missile AIM-9L Sidewinder, quindi, il pilota dell’Harrier premeva il pulsante di fuoco e finiva lì. Passarono 74 giorni, durante i quali 20 aerei argentini furono così abbattuti. Davvero niente male, per un mezzo nato dall’esigenza politica di non varare più grosse e costose portaerei, che ne dite? Nessun jet inglese venne colpito da nemici in volo, anche se due furono danneggiati dal fuoco di terra. E quattro si schiantarono per incidenti: pare che dopotutto, sull’affidabilità ci fosse ancora parecchio da lavorare.
A quell’epoca Art Nalls aveva 28 anni, stava lasciando in un diverso modo il suo segno nella storia dell’aviazione. Militare in carriera dell’aviazione della marina statunitense, in un corpo speciale affiliato ai marine, faceva parte di uno squadrone di Harrier al culmine della guerra fredda, inviato ad attraversare l’Atlantico tra la North Carolina e la USS Nassau, schierata nel Mare del Nord. L’obiettivo era dimostrare che i nuovi caccia, acquistati dagli Stati Uniti in un raro caso di fornitura estera di mezzi (non capitava dai tempi della prima guerra mondiale) sarebbero stati in grado di raggiungere rapidamente il territorio europeo in caso di terza guerra mondiale. Non è chiaro se all’epoca, lui già amasse trovarsi lì. Ciò che il pilota veterano, oggi più che sessantenne, ama ripetere nelle sue interviste è che in un primo momento fosse stato estremamente deluso dal vedersi assegnato ad un simile aereo. Lui che voleva pilotare un jet convenzionale, ed era più che mai cosciente dell’alto numero di incidenti subiti da simili bestie rare. Fu l’anno successivo quindi, nel 1983, quando l’incidente puntualmente arrivò. Sopra Richmond, Virginia, il singolo motore del suo AV-8A si spense completamente, costringendolo ad atterrare in planata in un piccolo aeroporto civile. In quell’occasione, mantenendo sangue freddo e cautela, riuscì perfettamente nell’ardua manovra, ricevendo anche la prestigiosa Air Medal, decorazione massima concessa in tempo di pace. Chi può dire se fu proprio quello il momento in cui imparò ad amarli… O forse successe in seguito, quando ricevuta la qualifica di pilota di test di volo, venne assegnato alla scuola di volo della Edwards Air Force Base in California, per mettere alla prova le procedure d’emergenza a disposizione dei piloti nel caso in cui si verifichino vari tipi di avaria. Ruolo in cui, successivamente, avrebbe partecipato alla certificazione dei Sea Harrier per l’uso sulle portaerei leggere con rampa di lancio Principe de Arsturias, spagnola, e la nostra C 551 Garibaldi. Fatto sta che al termine della sua brillante carriera, Art Nalls decise che non ne aveva avuto abbastanza. E fin da subito, iniziò a lavorare per il suo sogno.
Ora non è che normalmente, i piloti della marina statunitense raggiungano la pensione nello status di milionari. Costui, tuttavia, si seppe ben amministrare, soprattutto attraverso l’acquisto, restauro e vendita di proprietà immobiliari nell’area storica di Washington D.C, dove tra l’altro era nato. Fatto sta che in breve tempo, accumulò una fortuna considerevole, sufficiente a tornare a praticare la sua grande passione. Con una spesa assolutamente ragionevole, acquistò uno Yak-3 russo della seconda guerra mondiale, vero fulmine del fronte orientale, ed iniziò a partecipare a diversi Air Show, con guadagno risibile ma gran divertimento personale. Esperienza durante la quale, improvvisamente, si rese conto di una cosa: c’era solo un aereo che riuscisse a catturare a tal punto l’attenzione del pubblico, da costringerlo a smettere qualsiasi cosa stesse facendo, ed alzare lo sguardo fisso all’insù. Quell’aereo, ovviamente, era il Sea Harrier Jump Jet. Quando nel 2006 dunque, sentì che gli ormai attempati aerei stavano per essere ritirati dal servizio attivo e rimpiazzati dai nuovi F-35 Lightning 2 con capacità VTOL (Vertical Take off and Landing) contattò i suoi amici nel settore per essere avvisato, nel caso in cui uno dei predecessori finisse all’asta e fosse acquistabile da un civile. Momento che puntualmente, con sua massima gioia, arrivò. Quello stesso anno quindi, volando fino in Inghilterra, lo vide lì, al centro di un hangar illuminato da una singola lampadina, e in quell’attimo seppe che doveva essere suo.
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Cinque milioni per la Ferrari più strana di tutti i tempi
Tutti gli anni ad agosto, sui loro terreni verdeggianti della penisola californiana di Monterey, gli organizzatori della prestigiosa casa d’aste di Sotheby’s riuniscono alcune delle più lussuose, rare ed antiche automobili in cerca di nuovi padroni. È l’evento più atteso, discusso e visitato dai maggiori collezionisti americani, disposti a pagare letterali milioni di dollari per acquisire il possesso di un qualcosa che, da quel giorno, soltanto loro potranno vantarsi di avere. Al termine della leggendaria 6 giorni ha quindi luogo il Concours d’Elegance di Pebble Beach, mediante il quale vengono premiati in diverse categorie i possessori dei pezzi d’epoca su quattro ruote più ben conservati, integri e funzionanti in tutte le loro parti. Come potrete facilmente immaginare, molto spesso si tratta degli acquirenti dell’anno prima. E proprio per questo, direi già che il 2018 avrà un favorito: colui che, sborsando una cifra pari a quella per l’acquisto di un atollo con spiaggia e foresta nella regione delle isole Salomon, giungerà sul terreno di gara a bordo della sua fiammante Ferrari Uovo. A vederla, non ci si crede: una griglia del radiatore perfettamente ovale, con due fari sporgenti simili agli occhi di una lumaca. Un cofano lungo e bombato, dietro il quale trova posto l’abitacolo, con un parabrezza che sembra fare tutto il possibile per stare in orizzontale; è una chiara ricerca di forme aerodinamiche, questa. Ma non provenienti dallo studio scientifico di un tunnel del vento, bensì dalla cosiddetta “intuizione ottica” di uno dei principali rappresentanti della sua categoria: i piloti automobilistici italiani degli anni ’50. Stiamo parlando del conte Gianni Marzotto, l’erede di un impero tessile che a un certo punto della sua vita, dovette scegliere tra il continuare a correre su quelle che lui definiva “trappole mortali” o ricevere le redini della compagnia di famiglia. E scelse, io ritengo, piuttosto bene. Non che l’alternativa, del resto, potesse realmente definirsi sbagliata.
La Uovo nacque nel 1950 a Valdagno, provincia di Vicenza, per la volitiva iniziativa del giovane conte, che a quel tempo già costituiva uno dei migliori clienti, nonché amico personale di vecchia data, di un già leggendario Enzo Ferrari. Gli fu così possibile acquistare dalla casa di Marranello, per una cifra che si aggirava sui 7 milioni di lire di allora, due telai senza carrozzeria del nuovissimo modello Ferrari 2560, chiamato 212 “Export” per la sua concezione di veicolo idoneo alla vendita sui principali mercati stranieri. La sua idea era, infatti, di ricoprirli con una sua personale idea di carrozzerie aerodinamiche, per creare rispettivamente, un mezzo spider e una coupé. Non era ovviamente possibile, a quell’epoca, concepire un grande campione di gara che non fosse anche un ingegnere e un meccanico: a tal punto, simili veicoli erano soggetti a problemi di vario tipo durante le gare. E come nelle arti del Rinascimento, colui che guidava, spesso, era un appassionato dell’automobile in ogni suo aspetto, compreso quello progettuale. Giannino tuttavia, come lo chiamavano gli amici, non fu da solo nella sua impresa, per la quale reclutò due nomi decisamente insigni: la carrozzeria Fontana di Padova e il giovane artista e designer Franco Reggiani, ancora sconosciuto agli occhi del mondo. Sulla base dei suoi disegni ed idee, quindi, tali personalità realizzarono per lui questo veicolo che costituiva un punto di rottura netto con la convenzione, al punto da essere stato definito da particolari osservatori dei fatti come prima ed unica automobile futurista. La seconda creazione soprannominata “il ragnetto” invece, priva di tetto per ripararsi dalle intemperie e vagamente simile alle Bugatti degli anni ’20, presentava un corpo decisamente leggero e caratteristiche prestazionali tutt’altro che indifferenti. Prima di partecipare all’annuale Giro di Sicilia, quindi, il conte allora ventitreenne fece visita col fratello Vittorio a Marranello, al fine di mostrare all’amico Enzo quelli che riteneva essere i suoi due capolavori. La reazione del Commendatore, a quell’epoca già un uomo di mezza età dal prestigio e la fama spropositata, fu drammaticamente negativa: pare che senza mezzi termini, egli avesse assicurato che al primo accenno di difficoltà la Uovo sarebbe finita disintegrata, mentre il ragnetto avrebbe subito un crollo strutturale. Aggiungendo quindi che per difendere il titolo, avrebbe inviato Piero Taruffi con un’automobile più degna di rappresentare la casa del cavallino, una 2560/212 E. A seguito di questo evento alquanto imprevisto, i due fratelli si scambiarono le auto: Gianni avrebbe guidato la coupé, Vittorio la sua controparte spider. Prima di giungere a Palermo, tuttavia, venne dato sfogo ad un’altra iniziativa insolita: il ragnetto venne ridipinto con una vistosa livrea gialla, rossa e blu, acquisendo da quel preciso momento il soprannome di “carretto siciliano” con cui sarebbe passato alla storia. Raggiunta la linea di partenza e riscaldati i motori, quindi, i Marzotto si gettarono nella mischia, fermamente intenzionati a provare come il giudizio del Sig. Ferrari fosse del tutto errato. Nei suoi racconti, Giannino narra di come l’esperienza di guidare la Uovo fosse decisamente insolita ed interessante: con la sua postazione di guida particolarmente arretrata, l’auto trasmetteva al suo guidatore ogni accenno di scodamento e altre sollecitazioni, inducendo ad una guida più misurata. Essa risultava, inoltre, notevolmente più leggera e maneggevole delle Ferrari della sua epoca, correggendo i due principali difetti che il suo padrone aveva sempre segnalato al Commendatore. All’altezza di Messina, tuttavia, fu necessario fermarsi: Gianni, che era ben a conoscenza di una lieve perdita di carburante precedentemente tappata con un chewing gum, aveva visto un bagliore nello specchietto retrovisore, convincendosi che l’auto stesse per andare a fuoco. Ipotesi presto smentita, tuttavia, durante la sosta ebbe modo di notare che il differenziale si era sfilato, a causa di un errore da parte della casa di Marranello. A quel punto, il conte non ebbe altra scelta che ritirarsi dalla gara, che tuttavia fu vinta dal fratello Vittorio a bordo del “carretto”, che si rivelò in grado di battere anche il Taruffi inviato da Enzo Ferrari. Chiamando quindi il grande capo per telefono, al fine di vantare il suo successo di famiglia e forse rimproverargli scherzosamente il problema al differenziale, Gianni ricevette in risposta la storica frase “Proprio come immaginavo… Ha vinto una Ferrari.”
L’utilità di una stampante a forma di pistola
“Dannazione, lo sapevo…” Era la quindicesima E-mail di reclamo nel giro di un paio di mesi, giunta come una palla di fuoco nell’ufficio annesso alla fabbrica metallurgica della G-Corp. “Hans! È successo di nuovo.” L’ultimo prodotto uscito dal reparto di quei cervelloni dell’ufficio brevetti: un nuovo tipo di impalcatura modulare, che riduceva del 25% la necessità di bulloni e rivettature da integrare sul campo. Meno lavoro, meno perdite di tempo, più profitti per le compagnie di costruzione. Eppure, un potenziale problema: “Chi è stato, stavolta? Non dirmi che si tratta di un altro cliente del mio giro in Baviera…” Un prolungato silenzio di solidarietà, dall’altra parte dell’ufficio agenti della compagnia. Ancora una volta, sarebbe toccato a lui. L’ente di certificazione era stato estremamente chiaro: i componenti del sistema d’impalcatura dovevano essere etichettati uno per uno. Altrimenti era considerato “un margine d’errore probabile” che il punto di raccordo E-7 venisse scambiato con il G-5, portando ad un’instabilità strutturale, crolli e potenziali infortuni sul posto di lavoro. Ma non potevano esserci sanzioni, proprio perché il prodotto era stato, precedentemente, certificato. Del resto chi avrebbe mai pensato che operai specializzati potessero scambiare una giunzione a gomito 15×30 con un’altra che misurava 20×25? Era persino di un altro colore! La stanchezza, si sa, può fare scherzi tutt’altro che appropriati… “No, non preoccuparti. Nessuno si è fatto male, stavolta. Hai visto… L’etichettatrice?” Se questo fosse stato un film thriller, in quel momento sarebbe partita la musica di tensione. Si era infatti creato, negli ultimi tempi, un preciso processo aziendale, per cui il contatto di ciascuna vendita sarebbe dovuto andare volta per volta presso la sede del compratore che aveva commesso il “ragionevole” sbaglio, ed identificare uno per uno i componenti. Nel pacchetto standard del nuovo sistema della G-Corp, pensato per l’uso urbano pesante, c’erano in media 6.450 pezzi di varie dimensioni. E non finiva lì: il sistema delle etichette, l’unico utilizzabile sul campo, non veniva considerato resistente alle intemperie. Era dunque necessario, per ciascuna singola applicazione, l’aggiunta di un foglio trasparente adesivo, al fine di rendere impermeabile il metodo d’identificazione. In altri termini… Ore ed ore di lavoro fuori sede, su e giù per impalcature già messe in opera, intralciando gli operai comprensibilmente scocciati dall’insorgere di questa imprevista necessità. Con un improbabile mezzo sorriso, Hartman indicò ad Hans l’armadio a muro in plastica in fondo alla sala, recente aggiunta della dotazione dell’ufficio: “Vai un po’ a vedere lì. C’è un a sorpresa del nostro reparto acquisti. Credo che ti piacerà…” Alzandosi dalla sedia e aggrottando le sopracciglia, l’agente di vendita prese a camminare con passo spedito verso la direzione indicata. Pensierosamente, aprì lo sportello di destra, trovandosi di fronte a una valigetta nera con un logo mai visto prima: EBS…Ink-Jet? “Aprila, amico mio!” Con un brivido appena percettibile, sollevò il coperchio. Poi elaborò la domanda: “Hartman, was ist das? Non starai suggerendo che vada lì ARMATO?”
Armato e pericoloso, proprio così. Tenendo in pugno, tra le forti dita della tua stessa mano destra, il singolo strumento più potente a disposizione dell’uomo moderno: il sogno di Gutenberg, l’invenzione di Magonza, il grande dono del popolo tedesco all’intero Mondo Occidentale, ovvero un sistema di stampa (a getto d’inchiostro, perché siamo pur sempre nel terzo millennio) Diversa, ad ogni modo, da tutte quelle viste fin’ora. Perché priva di carrello, interfaccia, cavo d’alimentazione, sistema per caricare i fogli… Strano come le cose in apparenza più semplici, da un punto di vista tecnologico, richiedano spesso un grado di sofisticazione maggiore. Questa è la storia dell’EBS 260, un prodotto talmente innovativo ed intrigante, da essere diventato “accidentalmente” virale al di fuori dell’ambito specialistico per cui era stato originariamente progettato. E in merito al quale, la scorsa domenica, un rivenditore statunitense di nome Jason si è ritrovato a fare una puntuale descrizione sul portale Reddit, a vantaggio di un’utenza che a dire il vero, era venuta soltanto per godersi la gif. Ma chi può dire quali futuri professionisti potrebbero trovarsi a passare di lì, grazie alle alterne ed interconnesse strade di Google? O quante persone, restando colpite da un simile meccanismo, potrebbero parlarne ad amici, parenti… Ai Lettori di un blog… Il dispositivo in effetti, definito nei video a corredo come “Il primo della sua categoria” è l’espressione perfezionata di un concetto dall’estrema praticità: trasferire nel mondo fisico lo strumento più amato di Photoshop. O Illustrator, etc; quella piccola icona che, una volta cliccata, permette di disporre un testo al di sopra di una linea più o meno curva, all’interno di un cerchio e così via. Particolarmente amato dai product manager, perché permette di prendere un oggetto apparentemente anonimo, e caratterizzarlo con il brand della compagnia. Ma neppure loro avrebbero pensato che un giorno, la stessa cosa sarebbe diventato possibile farla in post-produzione, sulla base delle alterne necessità del momento.
Prima che le macchine portassero il borace
Per un raro, irripetibile istante, New York tacque. Era necessario del tempo, per venire a patti con quanto si era palesato sulle sue strade. Il gigantesco veicolo, se così poteva venire chiamato, occupava quasi l’intera 42° strada, dal Lyric Theatre all’Apollo del 223 West. Era una calda sera di questa estate dei primi del ‘900, quando Borax Bill fece il suo ingresso nell’elegante società mondana della Grande Mela. Per farlo, non avrebbe potuto scegliere un metodo più appariscente. Le luci stradali a gas, grande novità di quegli anni, illuminavano quasi a giorno la sua figura imponente, dalle ampie spalle e il cappello Stetson d’ordinanza, l’abito nero da cowboy malvagio che non avrebbe sfigurato in un film Western di 150 anni dopo. I primi segnali elettrici, recanti titoli come “Il mulino rosso” e “I Bimbi nel paese di Balocchia” pubblicizzavano le ultime operette provenienti dall’Europa, moda inarrestabile di quel momento. Alla stessa maniera il suo insigne predecessore e collega di inizio secolo, il maestro dei fucili e cacciatore Buffalo Bill, l’imponente personaggio era un vero praticante del suo mestiere, ma anche qualcosa di radicalmente diverso: un attore, un impresario, una figura pagata per il suo carisma. Ma a differenza di quest’ultimo, lui, lavorava da dipendente stipendiato. Della Pacific Coast Borax Company per essere più precisi, di proprietà del “Re” Francis Marion Smith, l’imprenditore figlio della sua epoca, che aveva saputo concepire il marketing dei suoi prodtti in maniera anacronistica e ultramoderna. “Avanti vermi, AARGH! Dannati zoccolimosci scansafatica, non vi fermate! Questo carico dannato deve giungere in orario!” Gridava, mantenendo il feroce cipiglio vagamente piratesco, la frusta più lunga che fosse mai stata presa in mano da un uomo impugnata a due mani e fatta saettare, con precisione millimetrica, per produrre schiocchi nelle orecchie dei suoi “20 muli” (in realtà, i primi due erano dei cavalli). Mentre la gente, preso finalmente atto del significato della drammatica scena, esclamò:”È lui, è lui! È l’uomo del sapone…” L’immagine, chiaramente, era precisa ed impressa nell’immaginario comune. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Da quando il giornalista Steven Mather aveva convinto il magnate californiano a includere sulle latte dei suoi detergenti un’immagine che sarebbe entrata a pieno titolo nell’immaginario statunitense di quegli anni: quello della più potente, massiccio ed impressionante veicolo non-stradale che il mondo avesse mai conosciuto.
Il tiro del borace di Francis Marion Smith, in realtà un concetto ereditato dal precedente fallimentare proprietario della compagnia William T. Coleman, era un dispositivo funzionale e ben collaudato: si trattava, in primo luogo, di una coppia di carri legati assieme, ciascuno costruito in legno di quercia rinforzato con numerosi inserti metallici, e ruote del diametro di due metri dotate di “pneumatico”, che altro non era in realtà che una striscia di ferro dello spessore di 25 mm. Ciascun vagone aveva una lunghezza di 5 metri e una profondità delle sponde di 1,8, ed un peso a vuoto di 3 tonnellate e mezzo. Sul retro, era collegata un ulteriore vettura, costituita da un serbatoio d’acqua da oltre 4.500 litri, che sarebbe servito a mantenere in funzione l’impressionante sequela di animali che costituivano il motore di un simile gigante. A uno spettatore moderno, difficilmente sarebbe sfuggita l’analogia con il camion da guerra dell’ultimo film di Mad Max, in cui la benzina trascinata a traino era il bene più prezioso per tutti coloro che tentavano di sopravvivere nell’alto deserto radioattivo. Un paragone che in effetti non finiva lì: perché l’ambiente d’utilizzo, il vero luogo d’appartenenza dell’intero impressionante apparato (escluso Borax Bill in persona) era uno dei singoli luoghi più inospitali di questo pianeta, e sicuramente il peggio del Nord America: il deserto del Mojave antistante alla valle incandescente, all’indirizzo della quale la guida William Lewis Manly aveva esclamato famosamente nel 1849, a seguito di un attraversamento particolarmente sofferto con alcuni cercatori d’oro californiani, “Addio ed a mai più rivederci, mia cara Death Valley.” Il termine, quindi, rimase. Ma non scoraggiò gli altri pionieri. Uomini come Aaron Winters, veterano della guerra civile, che stanco delle dispute della società umana proprio lì si era ritirato assieme alla moglie Rosie oltre 20 anni prima, vivendo in un piccolo cottage in situazione di povertà. Finché un bel giorno, il prospettore del Nevada non gli aveva mostrato un candido campione di borace, e chiesto se ce ne fosse dell’altro all’interno del suo terreno. Al che, la sua vita presa una svolta del tutto inaspettata…



