Qui giacciono betulle siberiane. Il cimitero di Tunguska, nato dalla furia cosmica nell’atmosfera

C’è una fondamentale linea di ragionamento che tende a rassicurare il senso comune, nell’affermazione genericamente corretta secondo cui: “La maggior parte dei corpi meteoritici tendono a bruciare per l’attrito quando entrano nell’atmosfera terrestre.” Ricordandoci il ruolo importante avuto dagli strati esterni della stessa materia planetaria terrestre, nel difendere la superficie, ove risiede la maggior parte delle forme di vita. Questo perché nell’immaginario collettivo, una pietra di qualsiasi dimensione sottoposta a quel tipo di forze, tende naturalmente a sgretolarsi diventando polvere fino a scomparire del tutto, o quasi. Cosa che non sempre, purtroppo accade. Laddove tale aumento di temperatura, in determinate condizioni o al contatto con particolari materiali, si trasforma piuttosto in un accumulo di forza. Che comprime gli atomi costituenti finché il reticolo di cui sono composti, semplicemente, non riesce più a tenere unita la struttura innata di quel corpo estraneo. Che in maniera subitanea ed altrettanto inevitabile, esplode.
Ora noi tutti conosciamo, in linea di principio e sulla base di pratici esperimenti, l’effetto potenzialmente avuto da una colossale esplosione ad alta quota, per esempio di tipo nucleare generata intenzionalmente dall’uomo. L’emanazione di onde d’aria e calore, la distruzione degli edifici assieme alla tragica dipartita di qualunque creatura fosse tanto sfortunata da trovarsi entro i confini della zona situata in posizione perpendicolare rispetto all’evento. L’emanazione della temibile ondata elettromagnetica, capace di arrestare il funzionamento della stragrande maggioranza di strumenti elettronici o complessi nella zona di mezzo continente o quasi. Nella stessa epocale maniera capitata, in almeno un caso nella storia moderna documentata nelle cronache coéve, in quel fatidico 30 giugno del 1908 presso il fiume solitario di Tunguska. Quando alle 7:14 di mattina con il sole già alto a queste latitudini, il cielo sopra il governatorato dell’Impero Russo di Yeniseysk (odierno Krasnoyarsk) si accese di una luce intensa ed inspiegabile. Subito seguìta, in base alle limitate testimonianze di cui disponiamo, da una serie di boati intensi e quindi, il sollevamento di un vento infernale che distrusse porte, finestre e gettò a terra gli abitanti d’interi villaggi, per fortuna non particolarmente vicini all’epicentro del disastro. Non così fortunati, dal canto loro, gli alberi della fitta foresta adiacente, destinati ad essere collettivamente obliterati per un’area di 2.150 chilometri quadrati per una quantità complessiva di 80 milioni di tronchi abbattuti, trasformando la verdeggiante taiga in una brulla e derelitta radura. Un epilogo che sarebbe potuto toccare se soltanto la meteora fosse caduta 5 ore più tardi, come amano ripetere i catastrofisti, all’intera capitale metropolitana di San Pietroburgo. Un episodio futuro sempre possibile, che potrebbe verificarsi letteralmente in qualsivoglia momento. Come venne ricordato a tutti, per l’effetto di una roccia fortunatamente molto più piccola dei 50 metri stimati nel caso siberiano, durante l’episodio del 2013 di Chelyabinsk…

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Il cuore della taiga nel macigno in bilico sule precarie alture siberiane

I grandi territori e le meravigliose geometrie della natura, gli alti picchi, le profonde valli, i laghi scintillanti che rispecchiano gli azzurri cieli distanti. Cosa può colpire maggiormente la fervida fantasia delle persone? Forse centinaia di migliaia di anni di fenomeni geologici, coadiuvati dal frangente di cause ed effetti quanto meno singolari. Il tipo di evenienze in grado di lasciare in corso d’opera un processo, se così vogliamo definirlo… Gravitazionale. Da innumerevoli generazioni è cosa nota, nel distretto federale di Krasnoyarsk Krai, che talvolta ciò che sembra è esattamente quello che campeggia nella concatenazione delle pietre evidenti. Per il modo in cui un esempio di quest’ultime dal peso significativo di 500 tonnellate, 1.000 metri sopra il vasto teatro del cratere endoreico del lago Радужное (Raduzhnoye – Arcobaleno), appare prossima a staccarsi rovinando rumorosamente fino all’increspata superficie di quell’acqua riflettente. Eppure questo non succede, né parrebbe in grado di verificarsi, fino a che le condizioni in essere non incontrassero una variazione dei propri reciprochi e latenti presupposti. È la Висячий камень (Visyachiy kamen’ – Pietra sospesa) l’imponente macigno di sienogranito dalla remota origine ignea, che periodicamente ricompare online venendo erroneamente attribuita a varie circostanze geografiche tra il Nord America, l’Europa e l’Asia Orientale. Piuttosto che il parco naturale di Ergaki, lo “Yosemite di tutte le Russie” dislocato in corrispondenza ed attorno alla catena dei monti Saiani, ove costituisce suo malgrado una popolare attrazione turistica per chi nell’epoca moderna si è trovato a riconoscerne l’esistenza. Una sfortuna potenziale quest’ultima, se non fosse per la sua inerente stolidità e resistenza agli spostamenti. Giacché persistono all’interno di questo mondo, un certo di tipo di persone che quando sentono parlare di qualcosa di eccezionale o inspiegabile, lo interpretano da subito come una sorta di sfida. Potendo prendere la situazione in mano, con l’intento di restituire il mondo a proporzioni ad un livello consono ai confini delle proprie limitate ambizioni situazionali. E non sto parlando semplicemente dei soliti curiosi ed imprudenti, che in luoghi simili si affollano invariabilmente a spingere o tirare il macigno, nella superficiale speranza di poter riuscire a “cambiare le cose”. Bensì un vero e proprio sforzo di concerto, posto in essere in trascorsi incerti da una squadra di ben 30 persone, armate di argano e martinetti con il puro e sincero intento di rovinare l’ineccepibile costrutto della natura. Soltanto per andare incontro a una maledizione, quando per ogni centimetro che gli sembrava di guadagnare, la Visyachiy oscillava sulle loro teste in modo stranamente minaccioso. Finché non divenne all’improvviso chiaro che tentando di persistere, non solo avrebbero fallito nel proprio obiettivo. Ma ne avrebbero pagato le severe conseguenze finali. Ciò favorì in modo considerevole, potrete facilmente immaginarlo, l’ulteriore crescita di miti e leggende…

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Tra i picchi della taiga, un popolo che ha fatto delle renne il proprio domani

Se c’è un modo di determinare la quantità effettiva di un gruppo sociale ereditario, non è sempre facile determinare a cosa dare la priorità. Giacché un principio valido può essere selezionare i possessori di determinati tratti etnici, ma ciò non è sempre possibile nel caso di una quantità di esponenti eccessivamente ridotta. Come 400 uomini e donne divisi in 70-80 famiglie situate nella provincia detta Khovsgol a settentrione di Ulaanbaatar, in due gruppi dalle usanze comportamentali nettamente distinte. Ma lo stesso filo conduttore, rimasto sostanzialmente invariato da un minimo di tre millenni. Nessuno potrebbe dubitare in effetti, prendendo in considerazione i Duhka, che il cervide delle regioni artiche per eccellenza (Rangifer tarandus) costituisca il fondamento stesso e principale segno identitario di queste persone. La cui sopravvivenza fu legata, fin da tempo immemore, alla prosperità e conservazione delle proprie mandrie. Animali resistenti ed adattabili, prolifici nel giusto contesto. Ma soprattutto produttivi, in termini di un alimento dalla qualità superiore: il loro latte consumato, a seconda dei casi e le necessità, come bevanda, formaggio o yoghurt preparato grazie a tecniche tradizionali dall’elevato grado di efficienza. Per non parlare della loro adattabilità al ruolo di cavalcature o animali da trasporto, previa lungo addestramento imposto fin dalla giovane età mediante la partecipazione entusiastica dei bambini della tribù. Ogni definizione che allude a tali allevatori come “guardiani” o “protettori” della renna troverà in effetti una conferma funzionale nella maniera in cui costoro, nella maggior parte delle circostanze, non consumano le carni dei quadrupedi di proprietà del clan. Preferendo ricercare un apporto proteico per la propria dieta nell’attività della caccia, in un modo che ne ha reso problematica la coesistenza con gli agricoltori stanziali della Mongolia. Questo anche perché gli Tsaatan, come li chiamano da queste parti in quanto “uomini delle renne”, non sono affatto originari di un ceppo di discendenza nazionale bensì provenienti, in forza di abitudini nomadiche ed eventi storici pregressi, dall’attuale Repubblica Federale di Tuva, passata dal dominio storico dell’impero cinese ad una breve indipendenza lamaista nel 1911, ed infine trasferita sotto l’egida sovietica nel 1921. Ponendo in tal frangente le basi di una migrazione in forza, delle genti nomadiche di confine nel prospicente Paese del Cielo Azzurro, per il giustificato timore che i loro giovani potessero essere reclutati a forza, le loro bestie nazionalizzate e le terre ove le facevano pascolare da tempo immemore trasformate in riserve gestite e regolamentate dal potere centrale. Non che nelle pur spaziose terre d’adozione, per lo meno in un primo momento, gli sarebbe finita per andare molto meglio…

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I misteriosi ululati registrati nei pressi di un villaggio canadese

Provate anche voi ad ascoltare l’inquietante video postato, pochi giorni fa, sul canale di un’abitante della comunità di Witset, fino allo scorso settembre nota come Mooricetown. Finché la sua nutrita componente di appartenenti alle Prime Nazioni, ovvero i popoli nativi della Columbia Britannica, non hanno organizzato una petizione per far tornare il nome tradizionale della città. Non sembra anche a voi uno di quei test psicologici che vanno per la maggiore sul Web? Di che colore è il vestito, blu o giallo? Dove si trova il cucciolo di panda? Stiamo tutti per morire divorati da una mostruosa creatura primitiva? Il primo impatto con la registrazione fortuita di Shelley Wilson non lascia in effetti particolari dubbi: ciò che riecheggia in lontananza non è prettamente umano. Ma neppure, fondamentalmente, del tutto non-umano. Come un grido di streghe impegnate a richiamare il loro maestro in un sabba del gelido solstizio, oppure un essere risvegliatosi dal suo eterno torpore. Le stranezze, prevedibilmente, non finisce qui. In un post di due giorni dopo, datato 18 dicembre, un utente mostra quelle che sembrano due serie d’impronte nei pressi di un bagno pubblico, decisamente sovradimensionate perché possa trattarsi di un umano. Qualcuno, inevitabilmente, suggerisce che siano state tracciate da qualcuno per scherzo, mentre altri ripensano alla donna di etnia indigena sparita lo scorso ottobre, mentre si trovava a raccogliere funghi nei pressi della stessa Kitseguecla Lake Road. Qualcosa si aggira nei dintorni di Witset. Qualcosa di grosso, rumoroso e di potenzialmente parecchio arrabbiato.
A giudicare dalle interpretazioni dei siti specializzati, il consenso online sembrerebbe dirigersi verso una singola specifica entità: l’abominevole essere noto col nome di Sasquatch, leggendaria creatura scimmiesca che si ritiene possa costituire l’ultimo esemplare vivente dell’antico gigantopiteco, ominide della preistoria. Le alternative, del resto, non mancano da queste parti: le genti delle tribù dei Kwakwaka’wakw, più a nord sulla costa dell’Atlantico, hanno per lungo tempo narrato della gigantessa Dzunukwa, un mostro sovrannaturale con l’abitudine di richiamare a se i bambini imitando la voce della loro nonna, prima di portarseli via per sempre nel profondo della foresta. Mentre coloro che udivano simili suoni, sopravvivendo per raccontare la storia e possibilmente uccidendo la strega, venivano onorati dalla popolazione del villaggio con prestigiosi doni attraverso la cerimonia del potlach. È vero del resto, che gli ululati assomigliano in un paio di momenti a una voce rabbiosa di donna, che vorrebbe vendicarsi dei molti torti subiti. Gli appartenenti alla società segreta degli Hamatsa, nel frattempo, venivano messi al corrente della storia di due fratelli senza nome, che in epoca remota s’imbatterono per loro sfortuna nella capanna di Baxbaxwalanuksiwe, enorme individuo cannibale dalle molte bocche accompagnato da tre uccelli, il corvo Gwaxwgwakwalanuksiwe, Galuxwadzuwus dal becco ricurvo e Huxhukw, la gru che succhia il cervello degli umani. Riuscendo poi a fuggire, facendo precipitare il mostro in un pozzo con uno stratagemma., Secondo un preciso rituale, quindi, i depositari dell’antica sapienza ricevono maschere e costumi che gli permettono di ricreare la scena, poco prima di assumere sostanze misteriose per andare a trascorrere un periodo trasformativo di solitudine tra gli abeti della foresta. Ma si dice che alcuni di loro non riescano mai tornare, trasformandosi in esseri cannibali che attaccano i viaggiatori. Strane spiegazioni di un fenomeno ancora più strano. Tralasciando le spiegazioni criptozoologiche e folkloristiche della situazione, dunque, quale può essere l’origine dello strano suono? La community del sito di scambio d’opinioni internazionali Reddit, nel thread recentemente dedicato al caso, non sembra avere molti dubbi: dovrà necessariamente trattarsi di un animale. Il fatto che si tratti di versi non familiari in questi dintorni, del resto, può essere spiegato col fenomeno del mutamento climatico, che con un effetto domino concatenato, ha portato ampie popolazioni di creature a migrare verso le candide lande del settentrione. Il primo consenso, quindi, sembrerebbe concentrarsi sui cervi o le alci in amore, note produttrici di spaventosi muggiti, occasionalmente simili, con la loro inusitata modularità. alla voce delle persone. Ma la sequenza qui rappresentata dimostra, in effetti, qualcosa di strano nella frequenza e la lunghezza del “discorso”, se così abbiamo intenzione di definirlo. Un utente di nome thecastingforecast, a quel punto, offre una serie di prove relative a una terza ipotesi, che da un punto di vista puramente auditivo, parrebbe dimostrarsi del tutto convincente. Possibile che tutto il fraintendimento abbia origine, in ultima analisi, dalle vocalizzazioni di una versione sovradimensionata del comune gatto di casa…

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