Profonda Liechtensteinklamm: e il camminar ci è lieto in questa gola carsica secolare

Il wunderkammer o “gabinetto delle meraviglie” era una stanza deputata, nel castello, residenza o reggia dei sovrani rinascimentali, alla nutrita collezione degli oggetti più notevoli, o in qualche modo singolari in loro possesso, concepita per affascinare o lasciare atterriti i distinti dignitari o visitatori stranieri. Si trattava di una tradizione particolarmente radicata nel contesto mitteleuropeo, al punto che nell’ultima parte del XIX secolo, visse in Liechtenstein un principe il cui wunderkammer poteva essere identificato come il mondo intero. E che investì una parte delle sue considerevoli risorse per migliorarlo. In qualità di grande patrono delle arti e della natura, Johann II del Liechtenstein, soprannominato in modo encomiabile “il buono” non si sarebbe dunque tirato indietro, nel preciso momento in cui il club alpino del Pongau, poco a meridione di Salisburgo, venne da lui con un progetto dal costo di 600 fiorini, nato dall’idea per l’apertura alle moltitudini di un luogo vicino al suo casino di caccia preferito, che altrimenti ben pochi avevano potuto conoscere con i propri occhi: una delle gole fluviali più profonde e affascinanti di tutta l’area alpina. Ovvero lo scenario mistico e scosceso, scavato nel corso di millenni dall’impetuoso corso del Großarler Ache direttamente sulla superficie carsica del massiccio del Keeskogel. Al punto da giustificare l’esistenza, nel folklore locale, di una vaga leggenda secondo cui a scavarlo sarebbe stato il diavolo in persona, dopo un fallimentare tentativo di portare l’acqua alla cittadina di Grossarl mediante l’utilizzo di metodi maggiormente convenzionali. Come se le contingenze dell’erosione ed agenti atmosferici non potessero risultare sufficienti, qui ed altrove, ad architettare una simile anomalia paesaggistica situazionale! Così venne portata a termine nel 1875, e fece scuola, l’idea di attrezzare una scoscesa passeggiata in modo tale da poter accogliere anche i non iniziati ai tragitti montani, attraverso l’installazione di una lunga serie di passerelle in legno, per un intero chilometro dei quattro occupati dalla gola. Destinate ad essere percorse soltanto nel primo anno da circa 12.000 persone, una cifra totalmente fuori parametro per quell’epoca prima della comunicazione mass-mediatica e la pubblicità dei luoghi di vacanza online. Che sarebbero state moltiplicate venti volte, nel corso del lungo e articolato secolo a venire…

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Gaztelugatxe, lunga passerella verso l’eremo di un immaginario castello dei draghi

È sorprendente, e in qualche modo rassicurante, prendere nota di come non tutti i luoghi segregati o irraggiungibili siano stati necessariamente utilizzati nel corso della storia umana con finalità militari, costruendo su di essi valide fortezze, mura invalicabili o svettanti guardianie dotate di plurime piattaforme di tiro. Il che non ha impedito, d’altra parte, alla fantasia di galoppare con il suo immancabile entusiasmo, in maniera conforme alle percepite necessità di dare una forma estetica alle descrizioni di ciascun autore. Personaggi come George Martin e registi del calibro di Benioff e Weiss, ciascuno collegato a suo modo ad uno dei fenomeni televisivi di maggior portata dell’ultimo decennio: la serie del Trono di Spade, con le sue plurime battaglie, drammi e tradimenti tra le famiglie di un immaginario mondo liberamente ispirato all’Europa medievale. L’originale circostanza, caso vuole, per l’esistenza del tutto speculativa del castello noto come Roccia del Drago, costruito dall’antica dinastia dei re Targaryen come roccaforte utile all’allevamento del proprio animale simbolo, creatura sputafuoco dalle notevoli potenzialità belliche e proporzioni. Una dimora edificata tramite la fusione della roccia stessa, mediante l’utilizzo di arti magiche dimenticate, con alte torri, barbacani ad angolo retto e un mastio principale ricoperto dalle forme architettoniche allusive a teste di rettili ed ali di pipistrello, come si confà ad un simile contesto architettonico di rappresentanza. E potrebbe perciò risultare in una prima battuta perplesso, poi stupito, uno spettatore pregresso di tali puntate nell’avvicinarsi alla costa settentrionale dei Paesi Baschi ed in modo particolare non lontano dal comune di Bermeo, situato sul lato spagnolo di quel territorio, nel riconoscere il particolare luogo ma senza vedere quelle forti mura. Una valida allucinazione visuale, ovvero il semplice prodotto degli effetti speciali. Pur nell’assoluta e inconfondibile fedeltà del contesto d’appartenenza ed in modo particolare il suo unico percorso d’accesso, posto nuovamente al centro delle telecamere nel corso di alcune scene culmine del più recente prequel, House of the Dragon. Sto parlando, per l’appunto, del notevole isolotto di Gaztelugatxe (pron. Gas-Tii-Lu-Gat-seh) sopra le cui rocce a picco sul mare di Cantabria sorge davvero un piccolo edificio, dalla forma architettonica chiaramente dedicata alle attività sacre della Cristianità e tutto ciò che questo prevede. A partire, in base alla cronologia largamente speculativa di cui disponiamo, da un remoto nono secolo d.C, quando s’iniziò a narrare la storia locale di uno sbarco pregresso su queste spiagge di San Giovanni Battista in persona, con presumibili finalità di portarvi la novella del Signore e in qualche modo prima di recarsi nuovamente in Giordania, dove avrebbe poi subìto il martirio della decapitazione. Occasione durante la quale, narra il racconto, in assenza del pratico viale d’accesso che oggi possiamo ammirare, il santo avrebbe risalito il promontorio con soli tre balzi, lasciando altrettante impronte del proprio passaggio che avrebbero mistiche capacità taumaturgiche diventando il segno indelebile della benevolenza dell’Altissimo nei confronti dei suoi fedeli. Qualcosa che, invero, avrebbe potuto cambiare la qualifica di un tale luogo nell’ambiente fortemente militarizzato dei Sette Regni…

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Cemento e pietra: la scala surreale che serpeggia oltre una diga in Portogallo

Ci sono luoghi, esistono paesaggi nella nostra cara vecchia Europa che paiono evocare stati d’animo profondi, allontanare ogni pensiero logico e trasportare il corso del pensiero verso lidi remoti. Come quello della fiaba tipica della regione di Douro in Portogallo, dove si diceva che sopra l’omonimo fiume svettasse l’ombra di un dirupo. Lungo la parete del quale, scrutando con sufficiente attenzione, era possibile scorgere le tracce di una caverna in cui, avendo perso interesse per ogni aspetto della vita mondana, aveva optato di stabilirsi un sovrano moresco assieme a sua figlia, immortalata nella tradizione folkloristica con il nome di Dona Mirra. Il cui padre stregone, in base alle regole del misterioso mondo d’Oriente, aveva scelto di operare un profondo mutamento nella suddetta formazione rocciosa, in modo tale che durante il giorno si presentasse soltanto come una stretta ed insignificante apertura. Mentre la notte si spalancava, permettendo alla beneamata principessa di scrutare nella valle ed ammirare lo splendore dell’astro lunare. E se qualcuno, scioccamente, avesse mai tentato d’introdursi in tale residenza per impadronirsi dei preziosi tesori di famiglia, la roccia si sarebbe chiusa su di lui, schiacciandolo come un insetto che tentava di oltrepassare lo stipite di una finestra. Naturalmente, l’effettivo aspetto verificabile della vicenda è per lo più improbabile. Le grandi opere materiali costruite dall’uomo, per quanto attraverso l’utilizzo di un potere superno, tendono ad essere del tutto permanenti attraverso il procedere dei secoli a venire. Così come l’alta struttura dell’antistante diga sul fiume Varosa, i cui primi progetti risalgono addirittura al 1899.
Una barriera dall’aspetto alquanto normale, finché la si guarda dalla parte del suo bacino, rispondente ai crismi ragionevoli di una funzionale centrale idroelettrica ad arco, capace di generare l’energia di 24,7 MW. Coi suoi 76 metri d’altezza sopra la valle antistante e 213 di lunghezza complessivi, rispondenti a 81.000 metri quadri di volume occupato dal suo terrapieno ricoperto dalle solide pareti di cemento. Perché è soltanto nel momento in cui la nostra prospettiva dovesse spostarsi all’altro lato, qualora non fosse stata già quella la direzione da cui ci siamo avvicinati al sito, che compare nella nostra percezione il singolare aspetto maggiormente distintivo di una simile struttura. Situato sul lato sinistro, in opposizione allo scivolo convenzionale per la fuoriuscita dell’acqua in eccesso, come la struttura totalmente fuori dal contesto di una letterale dimensione alternativa. Scale che s’inseguono, salendo obliquamente, tra un dedalo di escheriane terrazze, cromaticamente riconducibili alla colorazione chiazzata che fu lungamente un crimsa visuale del Brutalismo. Corrente architettonica probabilmente assai lontana dal pensiero di chi giunse a costruire tale inusitato apparato infrastruttura verso la metà del secolo scorso, con l’obiettivo dichiarato di poter garantire un pratico sentiero d’accesso alla manutenzione della diga stessa. Senza rendersi effettivamente conto, o forse rimanendo del tutto cosciente, di aver creato a tutti gli effetti la versione iberica del celebre accesso alla città sacra degli Incas, Machu Picchu tra la nebbia delle alte montagne peruviane. Ancorché priva, dal punto di vista comparativo, delle stesse ragionevoli strutture a sostegno della sicurezza per eventuali ed imprudenti turisti…

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Animazione dettagliata offre uno sguardo alla struttura interna della statua della Libertà

Lo stato basilare di un’idea non può cambiare attraverso il trascorrere dei secoli, a meno di voler individuare un senso di continuità attraverso albe o tramonti dalla tonalità completamente all’opposto. Ciò che muta, normalmente, è la maniera in cui una tale luce si riflette, su ogni superfice lucida che agisce alla maniera di uno specchio, incluso il materiale metallico impiegato nelle torri e le alti effigi delle Nazioni. Finché al trascorrere di un numero abbastanza lungo di generazioni, persino il rame riflettente di quest’ultime può perdere la sua essenziale brillantezza; ma chi può dire che l’ossidazione sia sinonimo di perdere la forza ed il mordente della comunicazione originale? Ciò che era, al giorno d’oggi, esiste ancora. Mentre le allegorie, se veramente meritavano di essere rappresentate, riescono a resistere alla progressione imprescindibile degli eventi. Benché occorra, per capirlo, andare oltre la scorza esterna che costituisce il senso dell’immagine, fin dentro il cuore di coloro che hanno posto in essere la cognizione qui rappresentata. Autodeterminazione per tutti i popoli del mondo. E pace, soprattutto, per la luce della fiamma della verità eminente. Ciò che rende Lady Liberty così reale, tuttavia, per le moltitudini dei newyorchesi e tutti quelli che li guardano con attenzione duratura nelle epoche, è il suo essere tangibile per chi ha la voglia di venire a visitarla. Una forma fisica oltre che concettuale, come un alto pinnacolo sull’isola di Bedloe, dove un tempo si coltivavano le vongole per dare la materia prima ai ristoranti della grande città, e ancora prima venivano impiccati i pirati. E se tutto ciò dovesse anche soltanto cominciare a sembrarvi prosaico, aspettate di prendere coscienza in merito alle significative proporzioni della realtà!
Dire che misura “appena” 93 metri di altezza, piedistallo incluso, non è del tutto sufficiente a dare l’impressione di cosa stiamo parlando. Non di fronte all’importanza niente meno che colossale, occupata da un simile monumento nella comunicazione narrativa e come simbolo fondamentale di quei nostri insigni predecessori, che frapponendosi alle iniquità persistenti si sono prodigati al fine di spezzare le metaforiche catene, da cui la figura della Dea romana Libertas incede maestosamente, benché tutti tendano a vedere soprattutto la sua mano alzata con la luce di potenziale faro nella baia urbana più famosa dell’Occidente. Fin da quando nel 1886 i cinque componenti trasportati via nave dalla capitale della Francia all’altro lato dell’oceano venivano laboriosamente riassemblati, secondo il preciso progetto dello scultore Frédéric Auguste Bartholdi, in cima a quella forma stellare del piedistallo ricavato da un antico forte di mare. E non fu facile, come sappiamo molto bene, raccogliere quei fondi necessari, e convincere i politici, affinché un dono vagamente affine a quello di antiche guerre di Troia potesse giungere trovare la sua collocazione ultima e finale. Senza inoltrarci eccessivamente in tale parte della storia, è altresì degno di venire approfondito l’aspetto collaterale della forma risultante, quell’oggetto che oggi abbiamo modo di ammirare e come questo appaia, per coloro che possono essere abbastanza fortunati da riuscire a visitarlo.
Una struttura notoriamente costruita in due parti, il piedistallo di cemento e l’allegoria metallica posta sopra di esso, la statua della Libertà compare dunque in tutta la sua interessante magnificenza in questo video riassuntivo dell’autore in CG Jared Owen, già creatore d’innumerevoli filmati esplicativi (e sponsorizzati) strettamente interconnessi alla storia pregressa degli Stati Uniti. Che inizia il suo racconto dall’apertura digitale delle porte “centenarie” ricavate nelle mura del sopracitato Fort Wood, per accedere a uno spazio al piano terra dall’ampio salone centrale, che ruota tutto attorno al parallelepipedo posto a sostenere la gigantessa che giustifica l’intero sforzo pregresso. Qui trovava posto fino al 2019 un intero museo comprensivo della torcia sostituita negli anni ’80, soltanto successivamente spostato nell’edificio più moderno all’altro capo dell’isola. Dopo tutto, non è sempre l’ideale esporre i propri cimeli all’interno di una sala a forma di stella e rigorosamente priva di finestre…

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