Il destino delle arcane foglie nella biblioteca della pura conoscenza balinese

La disponibilità o diffusione di particolari tecnologie plasma la cultura di un popolo, e questo è vero per importanti avanzamenti generazionali come la stampa, la bussola o Internet, così come dei concetti basilari quali il semplice principio necessario per tradurre le parole, in scrittura. Così che l’impiego di un determinato tipo di caratteri, siano questi fonetici, sillabici o dei veri e propri ideogrammi, può scaturire dal bisogno di riuscire a riprodurli con determinati metodi o materiali. È questo il caso di molte scritture brahmi dell’Asia meridionale, dal Devanagari al Telugu, dal Javanese al Tamil, le cui lettere tondeggianti, piuttosto che essere formate dalle linee dritte che caratterizzano l’alfabeto latino, avevano uno scopo ben preciso: prevenire che il principale materiale utilizzato per la scrittura, per sua natura solido, ma non indistruttibile, finisse per spezzarsi letteralmente in più di un pezzo rendendo totalmente inutile il lavoro dello scriba. Questo perché il tipico sostegno dell’inchiostro in quei paesi, dal V secolo a.C. fino al XIX ormai successivo alle contaminazioni provenienti da Occidente, non era bianca carta né pergamena, né papiro o altra sofisticata fibra dalla provenienza vegetale. Bensì un pezzo di vegetazione stessa, ovvero le foglie piatte e larghe che formavano la caratterizzante corona dell’albero di palma. Un qualsiasi albero facente parte del genere Palmyra dunque, o certe zone dell’India la specie Corypha umbraculifera, adeguatamente prelevate, messe ad essiccare e successivamente appiattite mediante l’uso di varie tipologie di presse dal grado di tolleranza progressivamente minore, verso l’ottimale attrezzo definito pemlagbag. Fino all’ottenimento di una serie di ritagli dalla configurazione rettangolare, perfettamente idonei all’intaglio di annotazioni delle tipologie ed argomenti più diversi, da testi di medicina a salmodie religiose, passando per codici legali ed opere letterarie finemente illustrate. Il tutto mediante l’utilizzo di un piccolo e maneggevole coltello da intaglio, capace di tracciare i solchi destinati ad essere, di lì a poco, colmati con inchiostro nero ricavato dalla fuliggine delle lampade, colla organica ed olio vegetale come additivo. Per poi passare, dopo il lavaggio dell’eccesso, allo stadio fondamentale della rilegatura, ottenuta mediante il ricavo di un foro centrale con il trapano piglig entro cui viene fatto passare un semplice spago, così da preservare l’ordine delle foglie durante la lettura.
Un approccio all’immortalità delle nozioni non propriamente privo di difetti, vista la propensione di tali testimonianze a disgregarsi completamente in un tempo variabile in media tra i circa 60 e 600 anni, a seconda dell’umidità e conseguente presenza di parassiti del legno all’interno di un determinato territorio di riferimento. Il che avrebbe permesso, ad esempio, ad alcuni testi nepalesi di giungere intatti fino a noi dall’epoca medievale, così come in un caso particolarmente degno di nota, al manoscritto Spitzer risalente al secondo secolo di rimanere perfettamente leggibile ai moderni, grazie al clima moderato delle grotte di Kizil in Cina, celebri per le loro mille e più statue raffiguranti Buddha ed i suoi discepoli più famosi. Laddove in luoghi come l’Indonesia, ed in modo particolare l’isola di Bali, un ambiente maggiormente problematico avrebbe portato all’implementazione di precise ed altrettanto collaudate pratiche di conservazione…

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L’abisso dei ragni che si servono di microbi per trasformare il gas metano in sostentamento

Nelle remote profondità del Pacifico, esistono recessi ove la vita è rarefatta al punto da permettere di sopravvivere soltanto ad animali altamente specializzati, il cui metabolismo è calibrato al fine di minimizzare il consumo di energie ed al tempo stesso, la necessità di localizzare le minime fonti di cibo a disposizione. Situazione largamente attestata al di sotto di una certa profondità dove, a causa della mancanza di luce, la vita vegetale è impossibile, e quasi ogni essere vivente è stato sviluppato dall’evoluzione nel vorace cercatore dei propri co-abitanti. I che non significa che sia impossibile, per creature al sotto di una certa dimensione, riuscire ad occupare l’ultimo e isolato anello della catena alimentare; batteri, soprattutto, che mettono in pratica il complesso principio biochimico dell’autotrofia. Potendo generare alla loro maniera tutte le energie necessarie a sopravvivere e replicarsi, non a partire da qualsivoglia tipologia di materiale organico pronto all’assimilazione, bensì un prezioso fluido presente in grande quantità sotto lo strato superiore della crosta terrestre; l’antico ed impalpabile residuo di perdute foreste. Tra tutti gli idrocarburi, il più abbondante: il gas metano, principe supremo dei carburanti. Che per propria innata propensione tende ad affiorare in luoghi molto specifici dei fondali oceanici, chiamati camini o cold seep (pozzi freddi) proprio per distinguerli da luoghi simili caratterizzati dalla fuoriuscita di sostanze gassose incandescenti che rendono invivibili gli immediati dintorni. Nel mentre qui fioriscono, del tutto indisturbate da invasioni estranee di possibili nemici, indivise moltitudini di forme di vita, la cui biodiversità ha più volte messo alla prova i presupposti posseduti dagli scienziati. Molluschi, granchi bianchi come l’osso, vermi, gli eleganti cnidari e qualche occasionale pesce. Nonché uno dei veri maestri nell’abilità deambulatoria di un particolare tratto di fondale, il “ragno” di mare o picnogonide, creato dalla natura con i crismi operativi di un sofisticato procacciatore di prede. Ma che in base ad un nuovo studio scientifico (Bianca Dal Bó et al, rivista PNAS) proprio in questo ambiente si sarebbe rivelato in grado di trovare un suo sentiero alternativo verso la prosperità: coltivare quei preziosi batteri, sull’esoscheletro che protegge il suo stesso corpo…

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Annuso, perciò distruggo: il sofisticato linguaggio chimico di una terribile stella marina

La guerra infuria sotto i flutti, lontano dagli occhi umani che potrebbero tentare di giudicarla. Quietamente operosa, la colonia tende all’espansione in base a linee guida chiaramente definite dall’esperienza. Ogni qual volta un insediamento significativo dei coralli commestibili viene trovato da un rappresentante della collettività, questi non soltanto inizia infatti fagocitarlo. Bensì nel farlo, erigendo la sua rigida corazza ricoperta d’aculei, impiega questi ultimi per sprigionare la complessa essenza chiarificatrice, che i suoi simili raccolgono senza fatica a distanza di decine o centinaia di metri. Questa la chiara legge dell’Oceano e tale l’interesse egoistico della collettività bentonica, il cui aspetto è variopinto e caratterizzata dalla propensione a muoversi lungo i canali che conducono a migliori prospettive di sopravvivenza. Ma “chi si ferma è perduto” e così i più rappresentativi assembramenti, dell’echinoderma noto come Acanthaster planci o stella corona di spine, se lasciati a loro stessi crescono in maniera esponenziale col passare dei giorni. Finché le alte barriere costruite dai polipi degli antozoi non vengano completamente ricoperte, risucchiate un distretto alla volta e trasformate in grandi spazi desertici e svuotati di ogni prospettiva di resilienza. È il terrore dell’Indo-Pacifico ciò di cui stiamo parlando, sebbene gli scienziati si siano lungamente interrogati su come facesse un simile animale, anatomicamente primitivo e totalmente privo di un vero e proprio cervello, a coordinarsi con la chiara precisione annichilente di un esercito impegnato in territorio nemico. Allorché sapendo della comprovata perizia olfattiva posseduta da questi predatori fortemente specializzati, un gruppo di ricercatori australiani e giapponesi guidati da Richard J. Harris del dipartimento di scienze marine di Cape Cleveland hanno condotto una serie di esperimenti fuori e dentro il laboratorio. Individuando quale fosse il vero e proprio vocabolario, composto di speciali proteine dette attrattine, impiegato dalle voraci predatrici dai sinuosi arti ricoperti da aculei. Il che ha permesso di annotare per la prima volta, sebbene la questione fosse già nota dal punto di vista aneddotico, l’insorgenza di una sorta di calcolo distribuito capace di condurre all’intelligenza, almeno parzialmente responsabile del terribile effetto posseduto da queste creature sull’ecologia marina latente. Sebbene l’esistenza di una simile modalità comportamentale, almeno dal punto di vista teorico, possa offrire dei possibili spunti per efficaci contromisure nei sempre più drammatici anni a venire…

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L’insetto che ha costruito la più antica e vasta megalopoli del pianeta Terra

Con quale criterio valutiamo l’intercorso raggiungimento, da parte di una comunità di esseri, dell’auspicabile livello di civiltà preminente? Molti tracciano la linea presso l’implementazione di sistemi d’organizzazione complessi, che naturalmente portano alla creazione d’insediamenti vasti e stratificati. La storia è tuttavia popolata di numerosi esempi costituiti da popolazioni che, avendo costruito qualcosa di magnifico impiegando materiali non del tutto impervi agli elementi, gli avrebbero permesso di scomparire successivamente al declino della propria epoca dorata. Si usa dire, a tal proposito, che la maggior parte dei potenti imperi umani duri nella media tra i 200 e 250 anni, prima di autodistruggersi lasciando che l’entropia della materia faccia il suo dovere con il lascito dei precedenti dominatori. E se ora vi dicessi che esiste un luogo, situato in Sudamerica, dove una singola città esiste e viene abitata da membri di una serie di affiatate, ininterrotte famiglie, la cui discendenza può essere fatta risalire fino ad un periodo antecedente di 3 millenni? Non un centro abitato come qualsiasi altro, s’intende. Potendo essere identificato con largo margine come il più vasto in tutto il mondo, la cui portata è misurabile oltre i 230.000 Km quadrati, pari grosso modo all’estensione della Gran Bretagna e la terra movimentata attorno ai 10.000 Km cubi, equivalenti a 4.000 Grandi Piramidi di Giza. I suoi abitanti, d’altra parte, appaiono piuttosto diversi da come potreste aspettarvi. Essendo piccoli e rossicci, dotati di un gran totale di sei zampe segmentate e grosse zampe con mandibole pronte a scattare. Perfette rappresentanti della specie Syntermes dirus, costruttrice di cumuli originaria del territorio brasiliano.
Ed è proprio nel nord-est del principale territorio occupato dalla foresta amazzonica che trova posto questa meraviglia della tecnica animale, dov’è rimasta priva di effettiva documentazione e ignota alla stragrande maggioranza degli umani fino al 2019, quando il progressivo espandersi dei territori dedicati al pascolo e all’agricoltura non ha cominciato, inevitabilmente, a minacciare anche questo arido bioma. Ben lontano dall’universo pluviale del sopracitato polmone terrestre, in un’area molto distintiva di vegetazioni arida e discontinua, che prende il nome in lingua tupi di caatinga o “vegetazione bianca”. Essendo quest’ultima costituita da un melange di bassi alberi spinosi, cactus e piante a fusto largo, intercalato in modo molto stranamente regolare e come avrebbe per la prima volta documentato il team del ricercatore britannico Stephen J. Martin, da una serie di svettanti strutture di terra, segno inconfondibile della presenza di una fitta rete di gallerie sotterranee. Un’ottima ragione per schierare in campo l’utile arma della ricerca statistica ottenendo un modello, basato su fotografie satellitari, che avrebbe sfidato l’effettiva percezione dell’evidenza…

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