Se potessimo puntare da una base stabile strumenti di misurazione laser contro la facciata dell’interessante parallelepipedo in metallo, la cui forma aerodinamica resiste ad ogni forza trasversale di quel luogo non propriamente accogliente, scopriremmo al volgere di un anno qualche cosa d’inaspettato. Relativa al modo in cui essa pare crescere, in altezza, tra gli 80 centimetri ed 1 metro, allungando l’ombra del suo tetto sostenuto da incombenti palafitte situazionali. Quasi come se quest’ultime fossero le appendici deambulatorie, di un gigantesco miriapode sopito in attesa di quell’impossibile scongelamento futuro…
Spesso utilizzate come termini di paragone d’ipotetiche strutture che verranno costruite un giorno sulla Luna o altri corpi del Sistema Solare, le stazioni dell’Antartico presentano effettivamente alcune sfide ingegneristiche tipiche soltanto della Terra e che difficilmente potranno, in proporzione, andare incontro ad alcun tipo di problema equivalente fuori dalla nostra atmosfera. Cominciando in modo particolarmente rilevante dagli inesauribili processi meteorologici e climatici che condizionano lo stato in divenire della candida calotta, il cui livello cresce in modo pressoché costante per l’accumulo di neve sopra il peso stratigrafico dei millenni trascorsi. Non sarà in tal senso un assottigliamento graduale, bensì il catastrofico collasso entro una generazione o due, a causare il devastante scioglimento di quei ghiacci e la devastazione lungamente anticipata dai processi del cambiamento. Particolarmente in zone come la Piattaforma di ghiaccio Ekström, dove la precipitazione di appena qualche decina di cm di neve nuova ogni anno causa l’innalzamento pressoché costante del livello del suolo che il gelo trasforma nel cosiddetto firn, mentre il trascinamento eolico di quel materiale non sempre egualmente compatto ridisegna il mutevole profilo dell’orizzonte. Ivi incluso, per massima sfortuna degli umani, ogni tipo di struttura posta in essere a serbare gli interessi di esplorazione o studio che potremmo avere nei confronti del più ostile dei continenti. Poiché d’altronde, questo luogo ha certe valide caratteristiche che lo eleggono a meta desiderabile rispetto alle adiacenti alternative: la relativa accessibilità dal mare, per la vicinanza alla baia di Atka, una delle poche regioni della costa dove il ghiaccio si apre stagionalmente; una superficie piatta e sgombra, utile a far atterrare gli aeroplani; collocazione strategica per l’invio e ricezione di comunicazioni tramite onde radio nei lunghi mesi del gelido inverno. Così come esemplificato per la prima volta dai tedeschi già nel 1981, con la costruzione della stazione di ricerca dedicata al geologo del XIX secolo Georg von Neumayer, tra i primi ricercatori a sostenere l’esigenza di una collaborazione della scienza internazionale…
La stazione di Neumayer d’altra parte aveva un significativo problema, già predetto dal punto di vista ingegneristico ma destinato ad una progressione molto più veloce di quanto sospettato in partenza. La sua struttura in tubi di metallo, straordinariamente solida, era stata costruita inizialmente 6 metri sotto la neve, prevedendo che quest’ultima l’avrebbe ricoperto senza riuscire a comprometterne la solidità. Ma ogni anno la profondità aumentava, richiedendo l’allungamento dei cunicoli scavati per raggiungere la porta d’ingresso. Finché nel 1990, esso si trovava a 10 metri dall’accesso nei confronti della luce solare, inducendo i ricercatori tedeschi a fare i primi progetti del suo necessario abbandono. L’ora di un secondo tentativo, dunque, ebbe inizio nel 1992, con la Neumayer II concepita per resistere molto più a lungo della sua ispiratrice. Meglio isolata, ancor più resistente, essa venne mantenuta in funzione per ben 19 anni se non che l’accumulo di neve, anche in questo caso, tendesse a seppellirla in modo progressivamente più drammatico, fino al raggiungimento di uno stato critico che non poteva più essere ignorato. Era il volgere del nuovo millennio quando, in conseguenza di queste lezioni, il rinomato Alfred Wegener Institute for Polar and Marine Research (AWI) decise di riunire un consorzio di imprese e istituzioni specializzate, allocando i fondi alla creazione di un sistema funzionale in grado finalmente di arginare il problema. Il cui risultato fu l’attuale stazione Neumayer, progettata per resistere stavolta per un periodo in grado di raggiungere agevolmente i 40 o più anni. Approvato nel 2005 e completata nel 2009, il nuovo edificio era stato a tal fine dotato di un avveniristico sistema di martinetti idraulici, chiamati “bipodi” in grado di agevolare un processo annuale di sollevamento sulla base dei precisi dati meteorologici raccolti dai suoi occupanti. Così che per quanto crescesse il livello del manto nevoso, le sue finestre con triplo isolamento non avrebbero mai cessato di scrutare l’intensa luce estiva o il cielo tenebroso dell’incombente inverno polare. Un approccio sistematico consistente nell’estensione dei sostegni telescopici in maniera sequenziale, provvedendo gradualmente al blocco di ciascuna sezione interessata o l’aggiunta di nuovi pali, se necessari. Prima di provvedere al ripristino della neve compatta che li circondava tramite l’impiego dei numerosi bulldozer e altri mezzi di trasporto pesante in dotazione all’equipaggio della stazione. Verso l’ottenimento di risultati così efficacemente misurabili, in effetti, da aver fornito l’ispirazione ad implementare approcci simili nelle stazioni polari costruite più recentemente, tra cui la Princess Elizabeth posta in essere a partire dal 2009 dal Belgio. Nonché un senso di sicurezza e stabilità per l’equipaggio scientifiche della Neumayer, le cui mansioni portano ad occuparla per fino a 9 mesi di seguito senza rifornimenti, periodo durante il quale i lunghi tempi morti possono essere impiegati per mettere in atto attività fisiche, di studio o svago condiviso negli ampi spazi interni, in grado di supportare in estate fino 60 persone allo stesso tempo.
Molti sono stati, d’altra parte, i traguardi scientifici condotti a compimento presso questo sito con pochi termini di paragone al mondo, le cui mansioni originariamente prospettate includevano il monitoraggio continuo del gas serra, oltre al rilevamento d’isotopi derivanti dalla prosecuzione dei test nucleari nonostante l’adozione dei trattati di non-proliferazione internazionali. Approfondimenti di geofisica e relativi al magnetismo terrestre, nonché l’osservazione diretta e continuativa nel tempo di una delle colonie di pinguini più ampia nota al di sotto del 60° parallelo. Ma soprattutto l’annotazione puntuale del processo di movimento costante dei ghiacci dell’Antartico, che tendono a spostarsi verso il mare prima di andare incontro alla frantumazione costante. Una tendenza che porta la stessa stazione a spostarsi di circa 150 metri annuali assieme alla solida calotta sottostante. E che in un giorno ancora remoto, difficile da prevedere, la condurrà ad inabissarsi nell’Oceano Pacifico antistante. Ragion per cui, tra i molti aspetti innovativi, la Neumayer III è stata concepita onde venire smontata e trasportata innanzi in caso di eventuale necessità futura. Difficile immaginare un domani quanti metri ulteriori saranno stati aggiunti al livello del mare, in quel terribile momento. Con devastanti conseguenze per ogni nazione costiera di un pianeta ancora, nonostante tutto, scettico per quanto concerne le vigenti cause e dolorose conseguenze del suo mutamento.


