Non è piacevole tentare di considerare le possibili conseguenze dell’impatto planetario di un corpo sufficientemente grosso, e pesante, da poter giungere ragionevolmente intatto fino al suolo, sfidando il terribile attrito dell’atmosfera. Come un agglomerato di pietra e metalli di 1,5 Km di diametro, scagliato alla velocità stimata di 20 Km al secondo e ritenuto in tal senso conforme alla definizione prototipica di city-killer, l’uccisore di un’intera, ipotetica città. Basta spostare d’altra parte tale impatto indietro di qualche milione di anni, 14,8 per essere precisi, per trovare in esso il seme dell’impulso totalmente opposto, ovvero la nascita futura di un intero insediamento, contenuto entro il bordo preminente di quel foro circolare, essendo stato al tempo stesso largamente costruito con un materiale risultante, in larga parte, dal calore e la terribile pressione di tale evento.
Un soprannome alternativo per l’insediamento di 20.000 anime nella Swabia bavarese di Nordlingen, potrebbe essere quello di città splendente o cerchio diamantato, vista la maniera altamente caratteristica in cui una significativa parte del suo centro storico sembri risplendere naturalmente, riflettendo da una miriade di punti la potente luce dell’astro diurno. Questo per l’inusitata presenza all’interno della depressione paesaggistica del Ries, così chiamata per assonanza con le tribù dei Reti che vivevano qui al tempo dei Romani, di una pletora di minuscole risultanze del carbonio, trasformato nella propria forma allotropica nel presentarsi momentaneo delle condizioni simili a quelle della bocca magmatica di un vulcano. Diamanti, in altri termini, non più grandi di 0,2 mm, ovvero insufficienti al fine di essere considerati preziosi, ma praticamente onnipresenti come componenti significativi della pietra locale. Generando conseguentemente il significativo effetto ottico sopra descritto. Il che non costituisce, d’altra parte, l’unico tratto distintivo di questo luogo ameno, considerato un’importante testimonianza dello stile architettonico ed urbanistico della Germania medievale. Grazie alle strette strade e vicoli, costeggiati da edifici nello stile tradizionale, con esempi prototipici come l’antico Spital, ospedale dalla struttura rimasta immutata e gli opifici riadattati del quartiere dei conciatori. Il tutto dominato, come il mozzo di una ruota, dal campanile alto 90 metri della chiesa di San Giorgio, anch’esso costruito nella barbagliante breccia di suevite, dalla caratteristica superficie brillante causa la presenza di diamanti e quarzo da impatto. E circondato dall’ultimo esempio totalmente intatto in Germania di una cinta muraria antecedente all’epoca Moderna, costruita nella guisa odierna già nel remoto 1327. Quando l’insediamento, in qualità di città imperiale del Sacro Romano Impero, aveva un’importanza primaria in qualità di centro di scambio commerciale, ruolo destinato a permanere fino ad una serie di battaglie della successiva guerra dei trent’anni, cui avrebbe fatto seguito un parziale abbandono e la conseguente, fortunata conservazione dell’aspetto originario di questo insediamento unico in Europa e nel mondo.
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Un treno che cammina tra le aquile abbracciando la montagna di Dajue
Silenziosamente osservo il panorama, mentre il delicato movimento della mia cabina prosegue quel tortuoso itinerario che dovrà portarmi a destinazione. Tra la nebbia che aleggia ad alta quota, occasionali fronde sbucano a poca distanza dai finestrini, lasciando immaginare la folta vegetazione di questo invisibile recesso montano. Alla terza, quarta curva, d’un tratto i colori iniziano ad acquisire contorni più definiti. Mentre il confine della soffice nube entro cui ci siamo imbarcati si avvicina sempre più, alla prua trapezoidale del primo vagone. Un’ultima remota vibrazione, un lieve dislivello che conduce il cuore in gola, il raggio di sole che colpisce il mistico diamante da cui scaturisce la limitata percezione dei sensi umani. Ecco allora profilarsi, in lontananza e centinaia di metri più in basso, una complessa e popolosa valle, parte del sopraelevato paesaggio della contea di Zixi. Innanzi a noi, la svettante pagoda sovrapposta dell’antico tempio sincretistico. Ed accanto al rotolante incedere del treno, uccelli di plurime fogge o dimensioni coincidenti ai plurimi registri della dura ed inflessibile catena alimentare. Il grido alla mia destra di un rapace che abilmente sceglie di distendere le proprie ali. Rispondendo al suo saluto, alzo la mano. Ci sarà molto, al termine di questo giorno, da ricordare…
Il treno EMU (Electric Multiple Unit) della CRRC Zhuzhou Locomotive, inaugurato all’apice dell’estate scorsa in una delle più rinomate e visitate montagne sacre della nazione cinese, trae l’origine dal desiderio comprensibile, nonché condivisibile, di veder crescere ulteriormente le centinaia di migliaia di visitatori che giungono ogni anno presso questa meta turistica di spicco, qualificata non a caso dagli enti preposti come sito di livello AAAAA. Immaginate dunque a tal proposito l’interessante possibilità, altrove inusitata, di raggiungere i migliori punti panoramici non più attraverso una faticosa e lunga escursione montana. Bensì comodamente seduti all’interno di uno scompartimento, potendo al tempo stesso godersi la natura stessa come se fosse una semplice, accessibile attrazione da luna park!
Un po’ un sovvertimento, se vogliamo, dell’originale percezione del pellegrino d’Asia, che doveva sacrificare il suo prezioso tempo e mettere in subordine lo sforzo fisico al degno fine di percorrere l’ardua strada dell’illuminazione. Così come fatto, a suo tempo, dal leggendario fondatore del tempio in vetta Jin Daju, il quale aveva meditato lungamente all’interno della grotta che sarebbe in seguito alla dinastia Tang (618-907 d.C.) diventata celebre come Dajueyan. Sebbene neanche lui, con tutta la prescienza e consapevolezza derivante dal categorico rifiuto dell’Ego, avrebbe potuto immaginare il ruolo avuto in futuro dalla tecnologia nel far conoscere a tutta la Cina (ed oltre) il supremo senso della sua ultima reincarnazione terrena…
La labirintica magione che sarebbe diventata il simbolo dell’opulenza statunitense
Una parte significativa del successo economico per la confederazione di stati all’altro lato dell’Atlantico ha radici chiaramente definite da un punto di vista cronologico e organizzativo. Situate, con coerenza, nel periodo al termine dell’Era Vittoriana, quando il progresso tecnologico e infrastrutturale avrebbe finalmente permesso il sopraggiungere delle anelate condizioni, valide a sfruttare, collegare, rendere mansueto parte di un selvaggio territorio attraverso una manciata di generazioni, in modo non dissimile da quanto aveva avuto modo di verificarsi lungo il corso di secoli, e millenni, nella vecchia Europa. Fu del tutto imprescindibile a questo punto, nel corso della cosiddetta Gilded Age, che alcune insigni menti imprenditoriali potessero riuscire a trarne significativi profitti. Fu la nascita dei primi miliardari moderni, vista con sospetto dallo stesso scrittore che inventò quel termine, Mark Twain, il quale volle farne soprattutto un uso (è importante sottolinearlo) di tipo satirico e denigratorio. Così potenti, pieni d’influenza sul piano politico e al tempo stesso disinteressati alle traversie della gente comune, il che non significa che non avessero quantità ingenti alle proprie dipendenze, risultando inclini a condividere una parte significativa della propria quotidianità con i membri del proletariato. In qualità di servi, s’intende, delle proprie pantagrueliche residenze, spesso collocate nei quartieri di maggior prestigio di città come Boston, Santa Fe, New York. E qualche volta in luoghi molto più remoti, destinati ad essere abbinati al sostanziale prototipo di quella che sarebbe stata definita in seguito una company town.
Poiché c’è molto di simile nella gestione di un villa come questa, ad una vasta e stratificata azienda, così composta di 250 stanze, 43 bagni 65 caminetti al posto di opifici o capannoni dei macchinari. Costruita in mezzo ai monti della contea Asheville in North Carolina, per assecondare i piacevoli ricordi e le vigenti aspirazioni di un singolo depositario del potere economico supremo. George Washington Vanderbilt II, esponente più giovane della seconda generazione dopo il “Commodoro” Cornelius, provenuto dall’Olanda per costruire il proprio impero ferroviario capace di estendersi da una costa all’altra del Nuovo Mondo. Tanto da garantire ai suoi rampolli, e i successivi discendenti, non soltanto sicurezza imperitura dal punto di vista economico, ma tutto il tempo e le risorse per perseguire le proprie ambizioni maggiormente caratterizzanti dal punto di vista personale. Che nel caso di costui sarebbero giunte ad includere, guarda caso, la costruzione previa acquisizione di un terreno di 125.000 acri della più vasta residenza personale nella nazione destinata a ricevere il saliente soprannome, possibilmente a sproposito, di “Versailles Americana”. La proprietà (trad. estate) di Biltmore, il cui stesso nome in lingua sembra suggerire: [we] built more! Abbiamo costruito di più… More & more…
La valle giapponese dove il fiume scorre tra i residui prosperosi di un futuro passato
La verticalità costituisce, tra gli aspetti di un centro cittadino, uno degli elementi di maggior fascino utile a costituire il tipo di scorci che vengono definiti convenzionalmente “da cartolina”. Così luoghi visti da lontano, in bilico su valli attraversate da un profondo torrente, trovano collocazione nella nostra fantasia come l’equivalente contemporaneo di luoghi fiabeschi o fantastici. E non c’è corso d’acqua più conforme a tali crismi visuali, del Kinugawa nella prefettura di Tochigi, non lontano dalla città di Nikkō, il cui nome in kanji (鬼怒川) significa letteralmente “Fiume dell’Orco Rabbioso” con riferimento pratico alle numerose inondazioni, subite dalla popolazione locale in epoca pre-moderna con gravi conseguenze per l’agricoltura e l’abitabilità della zona. Questo almeno finché l’invenzione del cemento armato, delle fondamenta dotate di pali d’acciaio, degli edifici alti e solidi posizionati strategicamente sopra zoccoli pietrosi sopraelevati, non avrebbe permesso attorno agli anni ’80 la superba costruzione di un intero resort, proprio sotto l’occhio distaccato degli antichi Dei delle acque che scorrono. All’ombra di alberi secolari ed inconsapevoli colline erbose. Creando un contrasto… Interessante. E indelicato. Nulla, tuttavia, avrebbe potuto preparare gli scoiattoli e tanuki di zona alla casistica destinata a verificarsi nel giro di appena mezza generazione. La solenne dipartita di ogni accenno visibile d’umana civilizzazione. Con il conseguente sopravvivere di quello che può essere soltanto descritto, da ogni punto di vista rilevante, come il più desolato dei luoghi.
Ecco allora che il convenzionale visitatore, avvicinandosi maggiormente allo scenario, magari dopo aver percorso il caratteristico ponte sospeso all’ingresso di questo ex-polo turistico di grande popolarità, inizia a intravedere qualcosa di profondamente ed innegabilmente Sbagliato. Le facciate derelitte dei titanici ecomostri, con finestre talvolta mancanti e piante d’edera pesantemente abbarbicate all’intonaco esterno. Le porte sbarrate degli edifici, oppure del tutto mancanti, lasciando intravedere all’interno il tipico caos di un luogo abbandonato all’improvviso, dopo il passaggio di ondate successive di ladruncoli ed “esploratori urbani”. Nella peggiore accezione del termine in questo caso, benché non manchino praticanti etici di questa disciplina dei nostri giorni, generalmente responsabili di alcuni dei video-reportage più interessanti reperibili in mezzo alle pieghe periferiche di YouTube. Di cui molti sono passati, come rilevabile nel repertorio degli ultimi anni, in questo sito dalla posizione geografica piuttosto conveniente, lungo un’arteria stradale a poche ore da Tokyo e una distanza ancor più raggiungibile mediante l’uso dei veloci treni locali. Per trovarsi nell’ideale punto di collegamento, tra tutto ciò che avrebbe potuto essere, e l’oscura deriva di un paese storicamente associato ad un’ampia serie di disastri. Tra cui forse il più terribile di tutti, in fin dei conti, resta l’uomo…