L’ultimo frammento della pietra londinese che risiede nella teca e i cuori di coloro che l’avevano dimenticata

Vi sono significative implicazioni nell’appartenere a un popolo che ha sempre tradizionalmente venerato un simbolo, piuttosto che il concetto astratto di divinità o entità superiori. Dove fin dall’epoca preistorica, tra boschi e vasti prati verdeggianti, lunghe ombre di menhir s’inseguono soprassedendo l’antico significato dinastico ed astrale della loro ponderosa esistenza. Eppure plurime sono le rocce che, nel lungo corso della storia d’Inghilterra, vennero associate al sommo depositario del mandato reale, l’alto monarca delle Isole e le loro molte contingenze coloniali: il macigno del Destino anche detto pietra di Scone, rubato e poi restituito alla Scozia in più di un caso, utilizzato nei tempi recenti per l’incoronazione dell’attuale monarca, Carlo III; così come la leggendaria pietra di Artù, da cui venne estratta la suprema spada per combattere i nemici di quel vasto regno. E che dire delle gemme stesse su quella corona, leggendario manufatto indossato non più di qualche volta e per le grandi occasioni? Non c’è dunque molto da meravigliarsi se, attraverso le alterne vicissitudini della storia, il popolo di molti villaggi e comunità rurali avessero deciso d’infondere di miti e credenze multiple in svettanti concrezioni, ammassi minerali di quella che pareva essere la somma sapienza del pianeta stesso. Oggetti chiaramente inclini ad essere spostati in secondo piano, di fronte alle facezie del mondo contemporaneo come altri ed alti monumenti da fotografare, la televisione, i videogiochi e TikTok. Finché nell’immaginifico piano sequenza di una sorta di hyper-lapse, la nostra coscienza collettiva non venisse accompagnata sopra ed oltre i molti tetti dell’agglomerato un tempo noto con il termine Londinium, presso il cimitero dislocato accanto a Cannon Street, che è anche l’ultimo residuo della chiesa sfortunata di St. Swithin (London Stone). Il cui secondo nome costituiva per l’appunto un diretto riferimento a quel prezioso, misterioso oggetto la cui storia sembra estendersi attraverso bivi multipli d’ipotesi e teorie del tutto divergenti ed opposte tra loro. Semplicemente perché tutti, in un momento imprecisato dei nostri trascorsi, dimenticarono l’esatto senso ed il significato della London Stone.
La Pietra di Londra per come si presenta ad oggi, all’interno di un’edicola in cemento di Portland fronteggiata da uno spesso vetro trasparente dal profilo ovoidale, che alcuni dicono abbia la forma di un WC, è un piccolo macigno bitorzoluto di marmo oolitico formato da un agglomerato calcareo, della dimensione approssimativa di una cappelliera (53x43x30 cm) che sembra essere stato degno di ricevere in qualche momento passato una considerazione largamente superiore alle sue stesse qualità inerenti. Avendo stato il componente, per quanto ci è dato sapere, di un pezzo di pietra molto più grande, sezionato e smarrito in un’epoca di cui non abbiamo alcun tipo di notizia residua. Laddove sull’origine di questo singolare orpello, fiumi di parole sono stati rilasciati per rincorrersi attraverso gli anni…

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Il cuore nero e abbandonato della vecchia Toronto, nella grande cattedrale del carbone canadese

Dolori della crescita… Growing Pains. Titolo di una celebre sit-com di fine secolo ma in tutto il Nord America, come altri luoghi dello stesso emisfero, anche il modo metaforico per riferirsi a fasi problematiche, nei trascorsi di una grande varietà di processi o settori dell’industriosa società umana. Vedi l’idea difficile da confutare, secondo cui il metodo migliore per fornire energia ad una città che aveva negli anni ’50 un milione di abitanti, fosse bruciare copiose quantità di carbone a poca distanza dal suo distretto costiero, sulle invitanti e fredde acque del lago Ontario. Idea nata, sia chiaro, dalle migliori intenzioni della cosiddetta Commissione Idroelettrica, ente governativo fondato due decadi prima e guidato dal politico e industriale Sir Adam Beck, assieme a tecnici di larga fama come l’ingegnere Richard Hearn. Il quale, pur essendo fin da subito un convinto sostenitore dell’energia nucleare, avrebbe finito per fornire il nome alla più notevole, imponente e significativa delle cattedrali, destinata ad essere una significativa deviazione, più che un semplice scalino intermedio verso l’obiettivo finale. Questo il compito che avrebbe assolto, non senza notevole successo, la nuova è più imponente struttura costruita lungo un ex-banco di sabbia in prossimità del porto, consolidato ed allargatosi a seguito di multiple generazioni di accumulo di detriti e rifiuti di variegata natura. Non che l’edificazione da parte del governo di uno svettante edificio lungo 240 metri e largo 80, con un volume interno di 650.000 metri cubi nonché alcune delle ciminiere più alte che si fossero mai viste fino ad allora, fosse un’operazione predisposta ad essere presa alla leggera. Così che il cantiere destinato a richiedere svariati anni di lavoro (guardando i dati reperibili su Internet, nessuno sembrerebbe aver tenuto il conto) avrebbe cominciato dal posizionamento di svettanti pali verticali nel suolo semi-solido del fronte cittadino. Ove gradualmente, molti mattoni rossi alla volta e con le sue caratteristiche finestre verticali, sarebbe sorto un rappresentativo esempio di architettura industriale in attraente stile Art Déco. Espressionismo dei metodi costruttivi a parte, tuttavia, ogni singolo aspetto della H. Generating Station era stato concepito per assolvere ad una sola ed utile funzione pratica: annerire i cieli di Toronto, mentre illuminava in modo ininterrotto le sue residenze, le gremite fabbriche, gli opifici…

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Un pilone può essere abbastanza, per il ponte che costituisce il sogno astrale di Bratislava

Rivolgendo lo sguardo direttamente verso il cielo, tutte le città del mondo tendono ad assomigliarsi: le pareti geometriche degli edifici, sormontate da tetti angolari; il profilo molto spesso impressionante dei grattacieli; l’occasionale torre aguzza che sormonta una chiesa. E quando si lasciano le sponde del fiume metropolitano d’ordinanza, da un lato all’altro della stretta striscia creata per le automobili, lampioni, piloni, cartelloni. Soltanto qui nella maggiore città di Slovenia, che ne costituisce non per caso la capitale, l’utilizzatore può contare sulla tipica esperienza di un qualcosa che viene comunemente definito eccezionale. Facciamolo assieme: ecco profilarsi un cerchio sospeso, del tutto corrispondente allo stereotipo dell’UFO, ciò che viene in altri casi detto un disco volante. Notevole, senz’altro. Ed altrettanto inaspettato. Dopo tutto, quanti architetti ed urbanisti hanno mai ritenuto di dover rendere omaggio ai tradizionali film di fantascienza, evocando in qualità di ornamento una delle presenze più terribili e inquietanti di quegli antichi racconti? Ancorché si tratti di una mera coincidenza, va pur detto che nessun creativo è totalmente inconsapevole delle indirette implicazioni della sua arte. Ivi incluso il relativamente sconosciuto Jozef Lacko, che nel 1965 assieme a un gruppo di colleghi della Slovak University of Technology (STU) e l’ingegnere strutturale Arpád Tesár riuscì a classificarsi da principio terzo in un concorso per costruire il secondo e urgentemente necessario sentiero di collegamento da un lato all’altro dell’azzurro Danubio. Scegliendo di farlo, com’era in voga in quegli anni di tumulti politici e sociali che avevano portato il Partito Comunista al potere in Cecoslovacchia, parlando la lingua straordinariamente ambiziosa del modernismo. In un dialetto che non molti, da quelle parti, avevano ancora avuto modo di sperimentare direttamente. Ci furono dispute dunque, tra coloro che tenevano realmente in mano il bastone decisionale, e scelte non del tutto prive di rimorsi. L’effettiva costruzione di un tale gigante, che avrebbe avuto lunghezza di 430 metri, avrebbe richiesto la demolizione di un intero quartiere, il ghetto ebraico Podhradie sopravvissuto, miracolosamente, all’occupazione tedesca della seconda guerra mondiale. Eppur nessuno si frappose tra il governo ed una decisione ormai approvata alle più alte sfere, che non si arrestò neppure innanzi alla presenza in situ di una significativa sinagoga riformata risalente al XIX secolo. Così colato il calcestruzzo per le rampe di collegamento, e liberata l’area necessaria per le fondamenta, iniziò a sorgere a lato del fiume qualcosa che non tutti si sarebbero aspettati. Una torre a forma di lettera “A” dell’altezza di 84,60 metri, da cui sarebbero partiti i cavi di sostegno per la più notevole delle infrastrutture cittadine. L’attraversamento strallato, ovvero facente capo ad un singolo, strategico punto di ancoraggio sopraelevato…

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L’intatta ziggurat che ospitava gli Dei e le solenni spoglie dei sovrani elamiti

Per le grandi civiltà agli albori della Storia, edificare colossali monumenti costituiva il metodo più efficace di rendere duraturo il nome dei regnanti, oltre a garantirsi una maggiore considerazione da parte degli esseri supremi che, dall’alto dei loro palazzi celesti, sorvegliavano e guidavano la civilizzazione umana. Nell’idea posseduta dalle genti di Haltamti, regione situata nell’odierna provincia iranica di Khuzestān ed a diretto contatto con diverse culture mesopotamiche (Sumeri, Accadici, Babilonesi) la dinamica di tale intento risultava leggermente diversa. Questo poiché essi credevano, fin da tempo immemore, che il sommo padre del proprio nutrito pantheon denominato Inshushinak risiedesse nella stessa casa del sovrano, ed al sorgere di ciascuna alba decollasse a bordo del suo magico carro, accompagnando il sole nel suo lungo arco quotidiano. Visione concettuale questa degna di costituire l’ottimo pretesto per la costruzione di una grande capitale sacra, ove unificare e verso cui far pagare ingenti tributi ai diversi capi delle comunità limitrofe fino a unificarle sotto un’unica bandiera. Quel poco che sappiamo nella progressione da potenza regionale verso la metà del terzo millennio a.C, fino alla formazione di un vero e proprio impero culminante nel 1500 a.C. attraverso il succedersi di varie dinastie, possiamo dunque dire di averlo principalmente desunto dai lasciti materiali di queste genti, abili nello sfruttare la tipica architettura in mattoni di adobe tipica dei loro tempi remoti. Tra cui il capolavoro forse meglio conservato, forse ancor più dei monumenti ritrovati ad Ur e le altre capitali di quel mondo spesso sincretistico ed in vicendevole conflitto, può essere individuato presso la collina Chogha Zanbil (monte “Cesta”) situato tra le città di Susa ed Ahvaz. Il complesso di edifici, all’interno di un triplice recinto, un tempo dominato da quel tipo di svettante torre a gradoni, un tempo misurante più di 100 metri ma oggi grosso modo dimezzata nei suoi sovrapposti livelli superstiti, caso il peso ed il trascorrere dei successivi millenni. Il che non ha del tutto compromesso, ad ogni modo, la svettante imponenza di un sito archeologico tra i più vasti, e di sicuro maggiormente importanti della regione. Un portale d’accesso privilegiato, verso i misteri di una delle perdute culture all’origine di un intero ceppo culturale dello scibile dei nostri predecessori…

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