Il volo del piccione che innalza la sua cresta contro gli aridi recessi del continente australe

Trascinandosi senza una meta sui confini del deserto, il condannato del villaggio scrutò tutto attorno nella metodica ricerca di un luogo dove abbandonarsi al suo destino. Questo era stato il decreto, e tale la maledizione, dello sciamano che aveva condotto il rituale, secondo i metodi ancestrali e ineluttabili dei Kurdaitcha o “Possessori dei piedi piumati”. Un suono all’alba, un battito d’ali fuori dalla sua capanna, appena udibile in mezzo al richiamo delle cicale. E aprendo l’uscio per vedere cosa fosse, lui era lì: pittura bianca in volto come l’osso appuntito che teneva stretto nella mano destra, l’espressione distorta dal potere degli spiriti, che già si affollavano attorno ai confini della sua ombra. Perciò puntando quel resto nefasto probabilmente di natura umana, cantando con parole incomprensibili la propria salmodia, egli narrò la storia che terminava all’improvviso con la morte di colui che aveva il suo destino segnato. Per vendetta, per invidia, per un semplice capriccio dei potenti. Cosa importa, alla fine? Lo sciamano era già tornato da dove era venuto. E chi soccombe a lui, senz’acqua, senza cibo, senza compagnie non ha più alcuna voce. Il vento, i sassi, gli animali diventano le sue parole popolate dei sussurri dei ricordi. Cose come l’essere che vola per accompagnare l’alba, il riconoscibile pennuto che può dare voce al tempo stesso alla salvezza e ad all’umana disperazione: bamkarnamalkmalk “l’uccello con la cresta in testa” che ora egli già vedeva, in un gruppo di una decina d’esemplari, sollevarsi sopra quella scarna linea dell’orizzonte. E sorvegliando in modo perpendicolare quello spazio ai limiti dell’erba verde del più arido dei continenti, attendeva di portare tale anima lontano, forse oltre la cima delle altissime montagne. Psicopompo rumoroso e iconico attraverso i secoli di una cultura ininterrotta ed antica.
Le vaghe connotazioni mistiche di quello che la scienza chiama Geophaps plumifera o “piccione delle spinifex” sono piuttosto semplici da giustificare, d’altra parte, non appena si volge lo sguardo a quell’aspetto memorabile ed interessante. Parte del genus esclusivamente australiano dei piccioni dalle ali di bronzo, tale uccello rende onore alla qualifica, con la colorazione tendente al marrone attraversata da strisce nere ed illuminata dai riflessi trasversali della luce dell’astro diurno. Con la cresta lunga e perpendicolare al piccolo becco bluastro, gli occhi gialli cerchiati di rosso, il petto bianco o uguale al dorso a seconda della sottospecie presa in esame. Un contegno complessivo della sua figura, in altri termini, più simile a creature appariscenti del contesto boreale, quali fagiani o pavoni, che determina il primario ruolo culturale ma non definisce, chiaramente, il perché dell’associazione ai rituali di quello che potrebbe essere chiamato il voodoo di questa terra d’Oceania occasionalmente priva di alcuna pietà. Non che all’uccello importi, ne sembri in alcun modo farsi intimidire, essendo in semplice sostanza il volatile esclusivo di recessi territoriali così caldi, tanto inaccessibili da costituire alcuni dei luoghi più estremi della Terra. Continuando a sollevarsi, indomito e indefesso, fino a temperature che oltrepassano saltuariamente i 50 gradi…

L’esecuzione della dimostrazione di corteggiamento da parte del piccione delle spinifex ricorda per certi versi quella dei volatili nostrani. Benché il distintivo aspetto della sua livrea, oltre alla vistosa cresta frontale, facciano molto per connotarne gli inerenti meriti estetici e funzionali.

Diffuso egualmente nella parte nord-orientale dell’Australia, nel Queensland e nel Pilsbara, verso la zona ovest del territorio continentale, il timido abitante delle spinifex, macchie di vegetazione erbosa in piccoli cespugli acuminati, si divide essenzialmente in tre sottospecie. Individuate ed illustrate già dal grande naturalista John Gould nel 1842, quando inserì questo piccolo colombo nei suoi ponderosi cataloghi con gli uccelli di tutto il mondo. Mai più lungo di 20-23 cm, con un peso massimo di 110 g, ma differenziabile in base alla colorazione del suo piumaggio, in forza di una suddivisione della sua popolazione complessiva probabilmente risalente all’epoca del Pleistocene. Questo perché il variopinto volatore, pur essendo perfettamente adattato al clima più arido che sia possibile immaginare, per conservazione dei liquidi, resistenza all’evaporazione e mantenimento dei propri equlibri organici non è tanto abile nel volo da poter condurre lunghe migrazioni. E necessita, per sua natura, della vicinanza di fonti stabili di acqua da bere, essendo totalmente incapace di far fronte al proprio fabbisogno idrico attraverso il cibo che costituisce principale parte della sua dieta. Ragion per cui, tra l’altro, diverge l’opinione degli specialisti in merito al fatto che il contatto con gli umani possa aver costituito per lui uno svantaggio o una possibile facilitazione. Laddove il progressivo ridursi degli spazi incontaminati e ricoperti di vegetazione, sempre più trasformati in pascoli per il bestiame, è stata controbilanciata dall’aumento di luoghi da cui prelevare l’essenziale acqua da bere. Estendendo, conseguentemente, il già vasto territorio di questi piccioni. Classificati ancora oggi come animali a rischio minimo d’estinzione, nonostante abbiano perso quell’indipendenza e solitudine indefessa che aveva da sempre costituito parte del proprio carattere imperituro. Socialmente gregario fino a gruppi di una ventina al massimo d’esemplari, il piccione delle spinifex resta comunque in grado di formare gruppi più grandi, fino al caso limite osservato quasi un secolo a questa parte di uno stormo di 400 uccelli nell’area ragionevolmente incontaminata delle Musgraves. Una soluzione pratica probabilmente molto efficace, per permettere ai maschi di effettuare le proprie spettacolari dimostrazioni con richiami a testa bassa, e coda spalancata per catturare e utilizzare il fascino luminoso della luce diurna. Monogamo durante il periodo degli accoppiamenti, generalmente individuabile all’inizio della stagione delle piogge, il bamkarnamalkmalk costruisce il proprio nido in una depressione del terreno, il più possibile occultato tra le basse piante sui confini del bush. Qui entrambi i genitori, per i successivi 16-18 giorni, procedono conseguentemente ad incubare la coppia di uova color crema, fino alla schiusa della successiva generazione familiare. Che dopo un periodo di dipendenza della durata approssimativa di sei settimane, inizieranno anch’essi a procacciarsi il cibo, essenzialmente costituito da ingenti quantità dei piccoli semi di quella stessa erba, pressoché onnipresente da cui la loro specie prende il nome. Oltre all’occasionale insetto, catturato al fine d’integrare il proprio apporto addizionale di proteine. Per quanto concerne, invece, la durata complessiva della loro vita il mondo della scienza non ci aiuta particolarmente, data l’assenza di studi specifici. Benché non sembri improbabile, o in alcun modo assurdo, che possa corrispondere a quello dei piccioni nostrani?

Maschio e femmina, come nel caso degli altri columbidi, sono esteticamente identici fatta eccezione per la dimensione lievemente superiore di lui. Il che per certi versi sorprende, quando si considera l’aspetto distintivo e stravagante di questi particolari uccelli.

L’origine delle connotazioni vagamente sinistre di questo uccello in molte culture aborigene, tra cui quelli dei parlanti degli antichi dialetti Gundjeihmi e Kundedjnjenghmi, resta ad oggi per lo più misteriosa. Potendo forse risultare, assieme ad altri esponenti del genere Geophaps, dalla loro frequente presenza nelle canzoni del genere Morrdjdjanjno, a metà tra la narrazione mitologica e l’intento propiziatorio della caccia, data la capacità attribuitagli in rari contesti di far comparire un animale e paralizzarne le membra, per permettere ai cacciatori di catturarlo. Impiego di un potere sovrannaturale nei confronti del quale, oggettivamente, la rivincita del piccione potrebbe anche apparire in molti modi giustificata, o forse parte di un concetto universale karmico che tanto spesso sembra superare i limiti arbitrari dei distinti ambiti culturali umani.
Così come un lieve battito di ali in mezzo all’arsura, prodotto da colui che vola dove nessun altro potrebbe pensare di trovarsi a suo agio. Sul confine tra sopravvivenza e fine del pensiero, laggiù, dove la pioggia che garantisce un dignitoso raccolto costituisce un evento inerentemente raro. Ed è forse proprio questo, volendo pensarci, a costituire il suo punto di forza di maggior rilievo.

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