La foresta sommersa che alimenta la speranza di un futuro migliore

Quando si considera il potenziale dei territori inesplorati, non è sempre facile valutarne i pregi meno evidenti, intesi come possibili sentieri per l’accesso verso un più elevato livello di appagamento. Inteso come un recupero funzionale, dei rischi corsi e delle risorse impiegate, da una collettività non sempre consapevole delle più vantaggiose implicazioni degli eventi. Nel momento in cui la vasta exclave dell’Alaska venne incorporata negli Stati Uniti nel 1912, ad esempio, come manovra incentivata dalle ricchezze accumulate durante la corsa all’oro nello Yukon verso la seconda metà del secolo precedente, tutti gli occhi erano rivolti verso l’entroterra e alle svettanti montagne ricolme dei loro tesori nascosti. Mentre nessuno pareva aver analizzato un secondario aspetto, non necessariamente meno importante: i 106.000 chilometri di coste, artiche e sub-artiche, tali da coprire uno spazio estremamente significativo nel Pacifico settentrionale, con una spropositata quantità di condizioni climatiche e ambientali. E il risultato di poter vantare, all’interno di questi spazi, la biodiversità più eccezionale, inclusa la presenza di circa 500 varietà di alghe commestibili e praticamente a portata a mano. Ora se torniamo indietro, a un paio di decadi o poco più, appare particolarmente complicato immaginare un’industria di acquacoltura agricola al di fuori dei paesi dell’Estremo Oriente, come il Giappone, dove la consumazione di questa tipologia di cibi vanta una lunga e articolata storia tradizionale. Analizzando tuttavia l’attuale stato e tematiche al centro dell’industria alimentare globalizzata, fortemente osteggiata dal progressivo esaurimento degli spazi utili a fornirci un valido sostentamento, ogni spunto precedentemente tralasciato sembrerebbe assumere proporzioni di tipologia inesplorata. E di fronte alla grande fame che potremmo giungere a conoscere fin troppo presto, la scelta potrebbe essere anche più facile del previsto; non potendo esistere, a conti fatti, nessun tipo d’alternativa.
Regina tra le alghe in grado di possedere un qualche tipo di valore gastronomico, proprio per questo, è stata ormai da tempo individuata l’intera famiglia delle Laminariaceae, cui appartiene anche la largamente nota ed apprezzata alga konbu (Saccharina japonica) così chiamata per la capacità innata di metabolizzare e rendere commestibili anche agli umani zuccheri complessi, normalmente nocivi per la nostra salute. Così come avviene fin da tempo immemore all’interno dei contesti nordamericani, mediante l’opera instancabile delle specie locali, tra cui S. latissima ed Alaria Marginata. Letterali grovigli verdeggianti in grado di crescere spontaneamente senza l’uso di alcun tipo di fertilizzante, in corrispondenza di zone dal fondale basso e come base di un complesso ecosistema popolato da pesci, crostacei e molluschi dalle molte genìe distinte. Dal che scaturisce l’iniziativa di talune compagnie locali, storicamente collocabile a partire dagli anni ’90, per la coltivazione sistematica all’interno di ambienti controllati, finalizzata a massimizzare non soltanto la quantità di prodotto ma anche ridurre il più possibile l’impatto ambientale, un’operazione certamente possibile in funzione degli ampi spazi geografici precedentemente menzionati. Il che parrebbe aver generato, a partire da quel momento, una fervida e vantaggiosa competizione tra diverse realtà aziendali, tra cui il New York Times cita ad esempio la Barnacle Foods di Lia Heifez, specializzata nella preparazione e commercializzazione della bull kelp (Nereocystis luetkeana) dall’aspetto di un lungo ciuffo al termine del suo gambo coriaceo, già consumata in tempi storici dalle comunità indigene del territorio. Mentre qualcosa di simile avviene all’altro lato del continente nello stato del Connecticut e fino al tratto costiero coperto dal New Hampshire, con i fiorenti e redditizi collettivi capaci d’inquadrare figure simili a quella di Bren Smith, l’ex-pescatore di merluzzi che avendo perso tutto a causa di un uragano, ha deciso di adattare il suo ambito lavorativo ed imprenditoriale a quella che lui chiama la “rugola dei mari”. Un alimento particolarmente funzionale, particolarmente per coloro che organizzano la propria dieta in base al rifiuto di determinate pietanze reputate, per così dire, eccessivamente “aggressive”…

Una volta tagliato a fette, il gambo cavo della bull kelp assume l’aspetto di tondini perfettamente traforati pronti da essere custoditi all’interno di un conveniente barattolo di sottaceti. Il gusto, a quanto dicono, dovrebbe assomigliare a quello dei cetriolini…

Non che mera angolazione del vegetarianismo o la cosiddetta cultura vegana permettano di bandire ai margini collaterali un simile punto cruciale per l’alimentazione umana del domani, se spostiamo la nostra lente scrutatrice verso il computo di quanti e quali utili sostanze possano trovare vie d’accesso al nostro metabolismo mediante la consumazione di tali varietà vegetative: potassio, magnesio, iodio e vitamine particolarmente utili, incluse quelle normalmente ardue da riuscire a estrarre mangiando sulla tavola di tutti i giorni. Senza neanche entrare nel merito dell’ampio contenuto di potassio da parte di molte alghe della famiglia Laminariaceae, capace di superare abbondantemente a parità di peso quella contenuta nel frutto emblematico della banana. E a chiunque voglia muovere la comprensibile obiezione del sapore assai migliore di quest’ultimo, vorrei far notare come i meriti culinari di una particolare pietanza, o ingredienti di cui eventualmente possa trattarsi, è sempre la diretta risultanza di una serie significativa di fattori, tra cui non ultima preparazione ed accompagnamento. Per cui se gli scenari di un domani convenzionalmente distopico possono permetterci d’ipotizzare la trasformazione di simili alghe in una sorta di super-cibo omnicomprensivo, destinato ad arginare il fabbisogno insoddisfatto di un’umanità ormai rimasta priva di nutrimento, questo non significa che siamo già a questo punto, mentre l’attitudine a cibarsi dell’insalata marina può essere acquisita tramite gradi successivi e un’ampia varietà di ricette. All’interno di zuppe, insalate, fritture o perché no, derivazioni di quell’ambito asiatico all’interno del quale simili virtù appaiono ampiamente acclarate, come ingrediente fondamentale di kimchi coreani o involucro esterno degli onigiri presi in prestito dalla cucina giapponese. Tanto che viene da chiedersi come mai, fino ad epoche più recenti, nessun imprenditore occidentale avesse mai pensato di sfruttare una così preziosa fonte di benessere nutrizionale, previa accettazione di un trascurabile compromesso.
Questo poiché il kelp, inteso come intera classe di alghe abbarbicate al fondale con aspetto colonnare capace di estendersi fino alla superficie, era stato lungamente associato in Europa alla creazione del cosiddetto potash, il sale di potassio ed altri composti comunemente utilizzati al fine di concimare i campi di coltivazioni di tipologia terrestre, maggiormente note ed apprezzate. Finché durante i grandi conflitti del XX secolo, con l’embargo de facto dei commerci verso i territorio del Nuovo Mondo, gli americani non dovettero trovarsi a dover organizzare e industrializzare le proprie coste a partire dalla California, al fine di poter continuare a trarre giovamento da una delle applicazioni alternative del potash: la produzione di polvere da sparo. Creando il presupposto non soltanto di un prodotto finale lavorato visto come totalmente incommestibile, ma anche una necessità spropositata e inevitabile di quest’ultimo, vista la drammatica e assoluta inefficienza delle 27 tonnellate d’alga necessaria, al fine di produrne solamente una del materiale in questione. Almeno finché il progressivo miglioramento dei processi minerari, con la possibilità di scavare pozzi verticali fino alla profondità 1.500-2.000 metri, non avrebbe fornito a partire dalle seconda metà degli anni ’60 alternativa vie d’accesso a questo utile composto, attraverso l’estrazione diretta dei sali cristallizzati di potassio. E aprendo nuovamente la possibilità, precedentemente soltanto teorica, di creare nuovi ambiti di sfruttamento per queste distanti cugine dell’alga konbu dei giapponesi.
La stessa metodologia di raccolta largamente implementata negli Stati Uniti e l’Alaska, d’altra parte, può trarre giovamento da una notevole facilità d’implementazione, forse superiore a quella di qualsiasi altra pianta di superficie. A partire dalla semplice collocazione di una fune o catena principale, mantenuta in posizione da una serie di galleggianti. Dalla quale si dipanano una grande quantità di corde collegate ad altrettanti punti di ancoraggio, ciascuna delle quali fornirà un punto di appoggio naturale per gli steli verticali dell’alga kelp. Al momento in cui tali implementi verranno tirati su fino alle imbarcazioni, quindi, basterà far passare il cavo all’interno di un tubo di plastica creato a misura, affinché le preziose foglie e rami si stacchino naturalmente per cadere nell’apposito bacino di raccolta. Un gesto da ripetere, quindi, fino al completamento del raccolto desiderato. Il che sarebbe cosa buona e pratica se non fosse per il classico problema operativo degli imprenditori moderni: la burocrazia stringente ed un sistema di tassazione che non prende veramente in esame le problematiche specifiche di un’industria tanto priva di precedenti. Come esemplificato dalla recente creazione di numerose lobby ed organizzazione di settore nell’ambiente statunitense, che tuttavia non sembrerebbero aver sortito allo stato attuale dei fatti, e nel corso delle ultime due presidenze, il risultato desiderato.

Ogni nuovo ambito produttivo deve constatare il giusto livello d’impegno e investimento di partenza. Ma non potrà esserci alcun tipo di opportunità, a meno che la cultura del consumatore si dimostri più flessibile di quanto sia riuscita ad essere in precedenza.

Il cibo dovrebbe costituire d’altra parte, primariamente ed auspicabilmente, una mera connotazione fornita dalle implicazioni inerenti del vivere civile contemporaneo. Senza che nessuno debba modificare le proprie abitudini, o sforzarsi eccessivamente al fine di adattarle a una pressante realtà in essere dell’epoca in cui sta vivendo… Il che non può prescindere in alcun modo dalla nostra condizione corrente, di una collettività prossima a pagare il prezzo delle scelte ormai poste in essere dai propri predecessori. E chi può dire quanto a lungo, in termini di anni o generazioni, l’attuale sistema potrà continuare a resistere alle raffiche di vento di un pianeta stanco di nutrire le radici di una moltitudine che non smette mai di crescere, perché semplicemente non possiede gli schemi mentali necessari a farlo. La stessa folla che fin troppo presto dovrà decidere se trarre nutrimento da scarafaggi, cavallette e altre creature brulicanti; oppure il verde tesoro degli abissi che ci attendono a braccia aperte. Una scelta anche più facile del previsto. Non è così?

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