Il motociclista indiano dal turbante inusitato

Sikh

Una vita, un solo senso, una fondamentale verità, indivisibile per sua definizione. Perché allora, venerare una sequela di princìpi contrastanti, la creazione, la preservazione e la finale distruzione di ogni cosa… Meglio essere ben saldi nelle proprie convinzioni, persino formidabili, all’occorrenza. Quando si è nel giusto, assieme a molti altri. L’India è vasta e ricca di diverse usanze, divergenti modi di vedere il mondo. Ciascuno valido, altrettanto significativo? Poco ma sicuro. C’era l’antico sentiero degli Dei degli antenati, ininterrotto fin dai mistici Primordi. Da sempre imperituro, eterno ed omni-comprensivo. Dopo, in epoche dorate, nacque il Buddha storico con il suo dharma, destinato a grandi viaggi e molte cose, innumerevoli sentieri d’Illuminazione. E allo stesso modo, in tempi ben più prossimi al nostro presente, ci fu dato in dono il grande padre del Sikhismo, sulle soglie del XV secolo d.C. Guru Nanak: secondo i Janamsākhīs dello scriba Bhai Gurdas, egli era già sapiente, fin da bambino, e in grado di discutere della sostanza delle cose, mettendo filosoficamente alla prova i suoi maestri della scuola di Rāi Bhoi Kī Talvaṇḍī, vicino Lahore. Così da riuscire a cogliere, a soli sette anni di età, l’allegoria simbolica che esiste nella prima lettera dell’alfabeto. Scritta come A, per noi latini. Ma che in diversi alfabeti dell’Oriente, tra cui l’arabo e il persiano, si presenta invece come un tratto verticale, proprio come il primo numero dell’Assoluto. 1-Matematicamente, uno, il primo, come unico è il Dio e Creatore, senza forma, senza tempo, impossibile da percepire con lo sguardo. Poiché esiste al di là di māyā, il velo cosmico dell’illusione. Eppure, onnipresente. A lui stesso, il primo dei guru, manifesto, durante una visione che ebbe mentre si bagnava nel fiume Kali Bein. In quell’occasione, egli ricevette in dono il nettare dell’Immortalità.  Così che la sua dottrina, lungi dallo scomparire, fu adottata prima dai sapienti e da coloro che avevano da aggiungervi dei validi precetti: il sentiero del Sikhismo riconosce infatti 10 profeti, ciascuno legato a una drammatica vicenda, un martirio o un saggio insegnamento. E viene seguito da una buona parte dei Punjabi, l’etnia un tempo detentrice di un potente impero sito nella parte settentrionale del Subcontinente Indano. Che fù dissolto, nel 1849, per le gesta militarizzate della compagnia Anglo-Indiana, con conseguente diaspora di un’ampia fascia di aderenti.
Tanto che oggi non è insolito vedere, fin qui nelle profondità dell’Occidente, un seguace di questa importante religione. Se osservante delle usanze sacre, nonché di genere maschile, egli avrà una lunga barba. Un turbante per raccogliere i capelli ed un coltello bene in vista, detto Kirpan, quel preoccupante simbolo che in realtà ormai non preannuncia alcun intento di belligeranza. Ma rappresenterebbe, piuttosto, l’uso potenziale della forza per fermare la violenza. Precetto valido, di per se, ma pur sempre interpretabile. Chiaramente conduttivo a una cultura di guerrieri.
Guardatelo, per dire. Colui che compare nel nostro video di apertura è Avtar Singh Mauni, il proprietario del turbante più grande del mondo. Tutti lo conoscono, nella sua cittadina di Patiala, nell’odierno Punjab. Lo avreste mai detto?

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Quella deliziosa cimice assassina

Toe Biter

La più terribile creatura dello stagno non è il rospo cornuto, la ranatra lineare, neppure il ragno palombaro. Nero come la notte, lungo come un pennarello e più fragrante di un gatto passato a miglior vita, quel predatore giace immobile semi-sepolto fra le alghe, in attesa di essere apprezzato. Può raggiungere i 12 cm. Gli americani lo chiamano toe-biter (mordi-dita) o ammazza-girini, con chiari riferimenti al suo pacifico contegno, mentre nel Sud Est Asiatico tutti lo usano per dare un particolare sapore ad alcune delle loro zuppe, quelle vietnamite dette di cà cuống. In India, dal canto loro, questa splendida bestia l’incontrano di tanto in tanto, giusto abbastanza perché non sia particolarmente conosciuta. Come quella volta in cui una guardia di sicurezza della scuola, interpellata in merito allo strano insetto, aveva garantito alla youtuber aniow che poteva anche prenderlo e portarlo via con se, senza particolari pericoli o preoccupazioni: “Tanto neanche può volare!” Vatti a fidare dell’entomologo di turno. Ci sono insetti che, come parte delle loro difese evolutive, hanno sviluppato segni di pericolo incipiente, ovvero livree colorate che scoraggiano altamente la manipolazione. Nessuno metterebbe una vespa fra tre pennarelli, considerandosi al sicuro. Altre creature, ad esempio i ragni, hanno semplicemente una pessima reputazione. Chiunque abbia frequentato gruppi di discussione, forum o imageboard statunitensi avrà notato l’istintiva e diffusa fobia per gli aracnidi, quasi incomprensibile per noi europei, geograficamente lontani dalle specie piú maligne o micidiali. Il morso corrosivo del ragno violino, molto comune in Arizona, non te lo scordi tanto presto. Questa cimice, invece, devi averla approfondita. Poteva sembrare un grosso scarafaggio stravagante, placido e a suo modo delizioso. Quanto è facile sbagliarsi! E con che conseguenze….

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Jimmy Tajik, il sitar umano

Jimmy Tajik

I pastori di buoi latini, nel caso in cui fossero dediti all’arte, erano soliti comporre soavi canti sull’esempio di Teocrito, l’inventore greco della poesia bucolica. Da questa sentita celebrazione dell’idillio di campagna, della natura e di tutte le sue meraviglie, tra cui l’amore, nacque la tradizione letteraria cui appartengono i versi immortali di Calpurnio Siculo, Nemesanio e soprattutto quelli del sommo Virgilio, famoso accompagnatore delle anime sperdute, in modo particolare tra le ardenti fiamme dell’Inferno dantesco. In altri luoghi ed epoche, dalle inclinazioni meno contemplative, in cui forzate restrizioni culturali avevano interrotto il contatto l’antichità, la musica del sublime ha sempre e comunque trovato un suo abile messaggero, in grado di esprimerla e rilanciarla verso il futuro. Anche a costo di andarla a prenderla da un sub-continente lontano. Forse nessuno, tra questi preziosi individui, ha una storia più travagliata di questo fenomenale interprete, in grado di guadagnarsi una fama internazionale a partire da un singolo video, casualmente rubato qualche anno fa da un suo collega magazziniere.
Jimmy era il ragazzo di origini tagike che, durante gli anni dell’Unione Sovietica, teneva d’occhio le 1.700 pecore di un ricco affarista Uzbeko. Alla fine di ogni mese, come unico pagamento, riceveva un agnello. Per passare il tempo, cantava. In quegli anni, racconta lui, c’era una stringente censura su quali argomenti fossero adatti al grande pubblico e sui film che potessero giungere nelle sale. Naturalmente, tutto ciò che proveniva dall’Occidente non era particolarmente ben visto, specie se di matrice statunitense, lasciando un grande vuoto che poteva essere colmato soltanto in un modo: l’infinita ed eterna fecondità di Bollywood. La musica è una parte fondamentale di ogni buon film, qualunque sia la nazione di provenienza, e questo fatto appare più che mai evidente guardando i fantastici allestimenti del tipico film indiano. Ispirate commistioni fra i canti tradizionali di più lingue (hindi, urdu, persiano, bhojpuri, braj, rajasthani e punjabi) con le metodologie dei musical di Broadway e altre forme teatrali moderne, le canzoni di questo gotha cinematografico hanno un fascino che trascende le nazioni e riesce a coinvolgere gli abitanti di ogni parte del mondo, soprattutto i giovani pastori in cerca di un modo per mettere a frutto il tempo. Che poi, crescendo….

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La danza balinese delle scimmie in guerra

Baraka

Tutti conoscono la storia di Elena e del suo fatale rapimento, dovuto all’impaziente bramosia del principe Paride, colui che di nascosto la portò con se a Troia. Il suo gesto sconsiderato, dovuto in parte alle manipolazioni della dea Afrodite, portò grandi sventure e tremendi lutti a due fra i più importanti popoli del mondo antico. Eppure questa non fu la sola volta, né la prima, in cui un’intera guerra venne combattuta per l’amore di una donna. Nel corpus mitologico di un paese lontano si narra infatti di una battaglia epocale, la cui portata impressionante giunse a mettere a rischio l’esistenza stessa del pianeta, combattuta da due possenti semi-dei per il diritto di conquistare la personificazione terrena della dea Lakshmi, signora di tutto ciò che è bello e fortunato. Il nome di questa splendida fanciulla era Sita, e delle sue vicissitudini trattano i due più importanti poemi epici indiani: il Ramayana e il Mahabharata. Il momento culminante di tale appassionante vicenda rivive nello spettacolare rito del Kecak, la danza balinese delle scimmie in guerra. L’ammirazione di alcuni movimenti occidentali per le ritualità e l’estetica dell’Induismo, religone strettamente legata alla meditazione e all’apertura intellettuale, talvolta induce a tralasciare i suoi aspetti più conflittuali ed esuberanti. Proprio questi potrebbero invece, a mio parere, offrire una chiave di lettura estremamente affascinante per comprendere quei popoli che la vivono in prima persona. Approfondendo le origini di questa danza sciamanica dell’Indonesia, adattamento di un’antico rito segreto, s’intuisce la presenza di un filo conduttore che fa parte, ora più che mai, del subconscio collettivo e dell’arte popolare della società moderna. Scopriamolo insieme.

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