I molti misteri dell’enorme lago sepolto tra i ghiacci del Polo Sud

Per anni e anni e anni, gli astronomi hanno puntato i loro  telescopi verso i corpi esterni del Sistema Solare, interrogandosi in merito alla possibile esistenza di un ecosistema alieno, non a centinaia, o migliaia di anni luce dal nostro pianeta, bensì nelle sue immediate vicinanze. Per lo meno, scegliendo di adottare una metrica proporzionale alle incommensurabili dimensioni del cosmo. Luoghi come le Lune di Giove o Saturno, pianeti talmente massivi da poter costituire dei veri e propri Soli in miniatura, ciascuno circondato da lune che rivaleggiano coi mondi della letteratura fantascientifica, per la loro diversificazione, varietà e complessità ambientale. Alcune, come Europa, ricoperte di ghiaccio o altri tipi di “calotte” impenetrabili, al di sotto delle quali ogni forma di vita appariva possibile a patto di usare la fantasia. Poi, verso l’apice di questa bollente estate, la scoperta più rivoluzionaria: grazie alle analisi da parte di scienziati italiani dei dati radar raccolti dalla sonda europea Mars Express, nel sottosuolo dei poli marziani potrebbe esistere, e sia chiaro che nonostante il condizionale si tratta praticamente di una certezza, un lago alla profondità di circa 4 Km. Una letterale capsula del tempo, potenzialmente contenente le tracce di forme di effettive vita. Batteri estremofili? Alghe? Pesci? Un’intera civiltà Chtonia? Troppo presto per dirlo, e forse non potremo mai davvero saperlo. Quando si considera che un luogo identico, come sospettavamo fin dal remoto XIX secolo, esiste nel continente più meridionale di questo nostro pianeta. E nessuno, allo stato attuale dei fatti, può dire realmente di conoscerne il senso ed il significato ulteriore…. Eppure, in molti ci hanno provato! A partire dal giorno ispirato in cui lo scienziato Peter Kropotkin, barbuto filosofo dell’anarco-comunismo russo, teorizzò che le enorme pressioni dovute la peso della calotta artica potessero generare temperature sorprendentemente elevate man mano che si procedeva al di sotto del livello del mare. Fino al crearsi di zone liquide, letterali mondi segreti e sommersi dalla vastità inimmaginabile per l’uomo. La prova effettiva di tutto questo dunque, non sarebbe arrivata che nel 1959, quando il geologo sovietico Andrey Kapitsa, parte di una spedizione inviata verso il Polo Sud geografico, dispose degli accurati sismografi in prossimità della stazione scientifica Vostok, con l’obiettivo di determinare lo spessore della calotta di ghiaccio. Scoprendo invece, l’inaspettato ed inimmaginabile: una cavità dell’ampiezza di 250 Km e una profondità media di 432 metri, contenente un volume stimato d’acqua di 5.400 Km cubi. In altri termini, poteva effettivamente trattarsi del sesto lago più capiente della Terra, classificabile tra quelli di Malawi e del Michigan, situato secondo i suoi calcoli a una profondità dal livello del suolo di 3.406 metri.
Ora, queste sono le scoperte che il più delle volte, nella storia dell’uomo, tendono a rimanere un mero accrescimento teorico del nostro bagaglio effettivo di conoscenze, senza che nessuno effettivamente, si sogni neppure di agire sulla base di quanto regolarmente discusso nel corso di simposi e conferenze varie. Ma i russi che, come è noto, di perforazioni verso il centro del pianeta hanno sempre fatto una sorta di perverso ed insolito divertimento (vedi la decennale ricerca del buco superprofondo della penisola siberiana di Kola) non potevano certo lasciare le cose così come stavano, rinunciando a una nuova opportunità di essere “i primi” verso qualche impossibile destinazione. Così fu decretato, a partire dal 1998, che la nuova missione principale degli scienziati intenti a soggiornare in questa località in grado di toccare gli 80-90 gradi Celsius sotto lo zero, sarebbe stata apprendere le nozioni di base necessarie a perforare nel sottosuolo. In tempo per la consegna dei macchinari necessari, possibilmente, a farlo. Entro la fine di quello stesso anno, senza ulteriori ritardi, sarebbe quindi iniziata la prima operazione di carotaggio, per l’estrazione di un lungo cilindro glaciale fin quasi alle propaggini superiori del lago, il più esteso che fosse mai stato creato da macchine umane. Analizzando il quale fu possibile datare alcuni frammenti all’epoca remota di 420.000 anni fa, permettendo per inferenza di moltiplicare esponenzialmente una tale cifra, fino ai 15 milioni di anni attribuiti, su per giù, al vasto spazio cavo nelle viscere della Terra. Fu tuttavia una scelta fortunata, in tal caso, quella di fermare la trivellazione a circa 100 metri dalla superficie dell’oscuro specchio d’acqua, affinché la miscela di freon e kerosene impiegati per evitare la chiusura spontanea del foro non andasse a contaminare le acque perdute prima ancora che fosse possibile riportarne in superficie un campione. Ciò detto naturalmente, non ci si può sempre aspettare che la nostra compagine più curiosa, appartenente coloro che hanno fatto della scienza una ragione di vita, rimanesse sempre tanto eccezionalmente prudente…

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Dik-dik, la mini-antilope che non ha bisogno di bere

Imboscata tra i pochi cespugli della zona arida della Somalia, una creatura pelosa della lunghezza approssimativa di appena 20 cm aspetta nervosamente il ritorno dei propri genitori. Completamente immobile, non emette un suono. Nulla che possa, insomma, essere captato da un leone, iena, caracalla, cane selvatico, sciacallo, babbuino, aquila, pitone o varano. Quando sei il cucciolo del panino ambulante per eccellenza, uno spuntino su zampe affusolate non ancora in grado di correre in maniera sufficientemente veloce, la tua unica speranza è mantenere impercettibile la tua esistenza, credere per primo all’inerente soggettività delle percezioni sensoriali, facendo il possibile per rallentare, addirittura, il respiro. Eppure persino in questa maniera, la sua probabilità di sopravvivere le circa 2-3 settimane necessarie fino all’acquisizione di una ragionevole indipendenza non sarà superiore al 50%, per non parlare dell’aiuto della sorte necessario per poter raggiungere l’età adulta. Condizioni straordinariamente severe, queste, valide a implementare un rapido e specialistico processo d’evoluzione. Forse è per questo che le quattro specie appartenenti al genus Madoqua, collettivamente note alle genti d’Africa come antilopi dik-dik (onomatopea riferita al loro caratteristico richiamo d’allarme) costituiscono oggi un fenomenale concentrato di meccanismi utili alla sopravvivenza, soprattutto in regioni dove le precipitazioni annue superano raramente i 25 cm complessivi e l’acqua da bere, prima ancora di scarseggiare, è letteralmente piena di coccodrilli, ippopotami ferocemente territoriali nonché sorvegliata dal vasto ventaglio di bestie fameliche che non aspettano altro, che poter tendere un agguato agli erbivori comprensibilmente assetati. E sia chiaro che talvolta devono aspettare davvero molto a lungo.
Basta spostarci avanti di 5 o 6 mesi, dunque, per poter osservare il seguito di questa storia. Il piccolo è ormai un giovane adulto, mentre la madre sta andando incontro alla serie di processi biologici che danno inizio a una nuova stagione riproduttiva. È il segnale atteso per mettere in atto un preciso rituale della loro specie: con improvviso sprezzo degli istinti familiari, i genitori si dividono, mentre uno di loro inizia a inseguire rabbiosamente l’erede. Se si tratta di un maschio sarà il padre a farlo, diversamente, questo ingrato compito ricadrà sulla madre, entrambi poco più grandi della dimensione raggiunta ormai da quest’ultimo: 45 cm di lunghezza nelle specie più piccole, circa 60 in quelle maggiori. Il quasi-cucciolo viene spinto fino ai limiti della zona che ha fino ad oggi chiamato “casa” e poi oltre, con il messaggio implicito che non dovrà ritornare mai più. Nel nucleo familiare delle antilopi dik-dik c’è spazio per un solo figlio alla volta. Il precedente, ormai abbastanza cresciuto per pensare a se stesso, sarà preventivamente considerato un intruso. Ma chi se lo dovesse immaginare, almeno momentaneamente, spaesato ed ansioso, mentre tenta faticosamente di mantenere acceso l’ultimo barlume di speranza, sarebbe ampiamente in errore. Poiché tutto, nel Madoqua, è concepito per farlo vivere in quasi costante ed allegra solitudine: raggiunto uno spazio sufficientemente ampio e solitario, il saltellante animaletto con la cresta erettile inizierà quindi a marcare i confini del territorio: e saranno guai, per chiunque (beh, quasi) dovesse attraversare i luoghi marcati con le sue feci, le urine o le particolari secrezioni delle ghiandole sub-orbitali, comuni a molti ungulati selvatici, strani e cupi ornamenti disposti al di sotto dei suoi grandi occhi neri. Al completo risveglio dei suoi atavici istinti, il dik-dik inizierà quindi a correre da una pianta all’altra, facendo affidamento sul suo muso orientabile per insinuare la lunga lingua tra spine, rovi e altri ostacoli poco accoglienti. Soltanto le foglie più verdi, e le radici più turgide, saranno componenti primari della sua dieta, garantendo l’acquisizione costante di un’appropriata quantità di fluidi, tale da poter fare a meno, per l’appunto, di bere. Le particolari dinamiche del suo particolare stile di vita, d’altra parte, non finiscono certamente qui…

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Costruita sfera Pokemon per i biologi marini

Le più svariate motivazioni possono spingere qualcuno ad intraprendere il sentiero della scienza, tra le carriere più complesse, talvolta difficili e non sempre ricche d’immediate soddisfazioni. Può comunque causare un certo grado di stupore, la cognizione che al giorno d’oggi una di esse possa essere “Gotta catch’em all!” Ovvero lo slogan pubblicitario di un gioco elettronico che cambiò la storia di quel particolare media, dimostrando quanto fosse divertente catturare, far crescere e poi sfruttare in combattimento un grande numero di bestie immaginarie, tra il buffo, il fantastico e il mostruoso. Già, così tanto tempo è passato da quando Satoshi Tajiri, figlio di un venditore d’auto e una casalinga, dopo gli anni della sua rivista auto-prodotta sul media digitale interattivo ebbe modo di proporre a Nintendo un utilizzo mai pensato per prima per il cavo di collegamento del suo Gameboy: farci passare dentro insetti ed altre creature, affinché i bambini potessero “scambiarli” tra di loro. Era il 1996 ovvero abbastanza perché alcuni di coloro che crebbero facendo esattamente questo, oggi, siano dei ricercatori affermati nei rispettivi campi di competenza. Dove la realtà, talvolta, tende a superare di molto la fantasia. Che Zhi Ern Teoh, allora studente per il dottorato presso la prestigiosa divisione ingegneristica di Harvard, sia stato in precedenza un fan dei Pokémon dovrà per forza restare una mera speculazione. Nulla di simile è stato effettivamente dichiarato in alcuna intervista, conferenza stampa o biografia accademica. Tuttavia, è soprattutto osservando il frutto del suo lavoro, e in modo particolare l’utilizzo che quest’ultimo potrà riuscire ad avere sul campo, che la maggior parte dei siti Internet sembrano essere giunti alla stessa identica conclusione. Questo perché il RAD Sampler, l’apparato diventato oggetto dell’interesse collettivo proprio in questi giorni, a seguito della sua trattazione sulla rivista Science Robotics, sembra ricordare tanto da vicino l’orpello cardine dell’intera serie di videogiochi, giochi di carte e cartoni animati creata oltre due decadi fa. Molti dimenticano a tal proposito, seguendo in pieno il patto finzionale dell’autore, che il mondo dei mostri collezionabili non sia soltanto una fantasia di tipo biologico, ma anche e sopratutto purissima fantascienza. Nelle meccaniche di funzionamento della Pokéball (in italiano, sfera Poké) un attrezzo capace di “catturare” i mostriciattoli trasferendoli letteralmente in un universo quantistico parallelo. Come spiegare, altrimenti, il modo in cui un oggetto dal diametro approssimativo di una palla da tennis possa contenere draghi, pterodattili o giganteschi leviatani volanti? Ebbene io posso dirvi, con una certezza che proviene solamente dalla logica, che chiunque abbia cognizione di tutto questo, lavorando nel contempo in un qualsiasi campo di studio degli animali di questa Terra, un tale miracolo l’ha sognato più volte, come approccio super-semplice alla cattura di esemplari per la sua ricerca, soprattutto se appartenenti a specie difficili da maneggiare senza rischiare involontarie quanto problematiche conseguenze.
Sto parlando, per venire finalmente al nesso della questione, dell’opera di chi deve approcciarsi alle creature marine, per loro implicita natura alcune delle forme di vita più varie ed eclettiche del nostro pianeta. Il che sottintende che, per ogni pesce reso compatto dallo scheletro, molle cefalopode o mollusco corazzato, c’è una minuscola medusa predisposta a disgregarsi non appena viene toccata da mano umana, lasciandosi dietro il regno della materia osservabile e con esso, ogni proposito di essere attentamente studiata. Successe così che il giovane frequentatore della più famosa università statunitense, un giorno del 2014 scegliesse di partecipare a un corso del professore associato Chuck Hoberman dell’Istituto Wyss, divisione di Harvard deputata all’ingegneria ispirata ai processi naturali organici, nella quale si parlava di creare meccanismi capaci di piegarsi grazie a precisi calcoli matematici. Dal che lui scelse di elaborare, seguendo l’ispirazione del momento, un nuovo tipo di poliedri automatici, in cui l’applicazione di un singolo punto di pressione avrebbe indotto l’apertura, o chiusura del poligono di contenimento. L’idea di applicare una simile creazione nel campo della biologia marina, quindi, non sarebbe arrivata che qualche tempo topo, grazie al contributo di Brennan Phillips, un altro studente oggi assistente del dipartimento d’Ingegneria, il quale fece notare al suo collega quanto sarebbe stato utile poter disporre di un simile apparato per raccogliere campioni a notevoli profondità, in forza della sua semplicità di funzionamento, la quantità ridotta di parti mobili e la natura modulare del meccanismo. A quel punto il demone era metaforicamente fuori dalla bottiglia, il che poteva anche significare che c’era una bottiglia vuota, pronta ad accogliere le sopracitate, delicatissime meduse dei mari…

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Bielorussia: il ponte ricoperto da uno strato di libellule notturne

23 luglio 2018: era una serata tiepida a Vitebsk, ridente cittadina prossima al confine settentrionale con il paese più vasto del mondo. Con temperature attorno ai 18-20 gradi di media, piuttosto normali anche nel pieno dell’estate, per un luogo che ha toccato i -35 in più di un caso della sua storia meteorologica pregressa. E tutto sembrava normale se non che dalle finestre degli appartamenti, in quello che è stato definito su Twitter “un letterale film dell’orrore” non fu possibile osservare il congregarsi di un’inquietante nube all’orizzonte. Localizzata sopra il solo corso d’acqua del centro abitato, e capace di formare vortici sempre più densi, puntati come una freccia verso il principale attraversamento stradale del Vitba, il ponte Kirov. In breve tempo, i lampioni smisero di funzionare, mentre carreggiata, parapetti e addirittura piloni sembrarono sparire in dissolvenza, come trasportati dalle nebbie di Avalon in un universo parallelo. Voci antiche riecheggiavano nell’aria stranamente densa e ronzante
“Il fiume Bug a settentrione del Mar Nero porta nella sua corrente a mezza estate delle piccole membrane, simili a bacche, dalle quali fuoriescono dei bruchi a quattro zampe, dotati anche di un paio d’ali. Queste creature non vivono più di un giorno, ragione per cui vengono chiamate hemerobius.” Nelle parole dello storico Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, riecheggia una profezia del mondo naturale che tutt’ora, con cadenza grossomodo regolare di uno o più anni, condiziona l’esperienza di quei popoli e la loro relazione con i mesi di luglio e agosto. È un episodio che tutti, in tali luoghi particolarmente fortunati, sperimentano almeno una volta nella vita. Non è quasi mai pericoloso, tranne forse nelle prime ore, se nell’area interessata trova collocazione una strada dal traffico medio-intenso, lungo cui gli automobilisti non tenteranno di accendere i fari, ritrovandoli coperti da nugoli di queste bestie, come d’altra parte, pure il parabrezza e gli specchietti retrovisori. Stessa cosa per i pedoni, che la stessa cosa tenderanno a sperimentarla tra i capelli, con le orecchie, il naso e gli occhi. Ma non in maniera, per così dire, irreversibile, visto che sarà possibile rimuoverle ben prima di morire soffocati. Le effimeretipiche dell’Est Europa, sono insetti che non possono fare nulla all’uomo, come già sapevano gli antichi. I quali tuttavia, nell’assenza di un metodo scientifico adottato su larga scala, non avevano mai pensato di analizzarne il ciclo vitale, scoprendo come l’apparente durata molto breve della loro vita fosse in realtà pertinente soltanto all’ultimo stadio delle numerose mutazioni a cui devono andare incontro, quello dell’imago (o a seconda della specie, sub-imago). Mentre le creature, prima di spiccare il volo, erano solite abitare i corsi d’acqua o laghi per svariati mesi, o persino anni, nutrendosi a seconda dei casi di detriti o insetti più piccoli di loro. Pensate alla dicotomia del bruco e la farfalla. Ma espressa in una maniera più basica e per certi versi, primordiale.
Nessun sito di notizie appartenente all’area interessata, quest’anno, sembra aver avanzato ipotesi su quale sia la specie effettivamente coinvolta. È possibile, tuttavia, che si tratti di Palingenia longicauda, le più grandi effimere del Vecchio Continente, misuranti fino a 12 cm dalla testa con le antenne fino alla punta della lunga coda biforcuta, segno di riconoscimento della loro intera famiglia di artropodi volanti. Stiamo dunque parlando di una creatura certamente invasiva, e che non comprende il concetto di spazio vitale (come avrebbe mai potuto?) ma che può essere facilmente interpretata come un segno positivo, per l’assenza d’inquinamento delle acque e il fatto stesso che stia di nuovo proliferando, nonostante la scomparsa in molti dei paesi che una volta appartenevano al suo areale. Certo è difficile spiegare tale aspetto a chi deve sigillare le finestre e tapparsi in casa, in tutta fretta, prima di essere coperto totalmente da una schiera di entusiastici invasori. Ciascuno in cerca di nient’altro, in quel momento, che di una femmina con cui accoppiarsi. Ecco qui spiegata, dunque, la ragione di questo caotico trionfo: siamo dinnanzi a un’orgia. Uno tsunami di libellule in cerca di sesso…

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