In principio, era il Caos: una miriade di forme ed azioni, concepite dagli inventori nella vaga speranza che potessero condurre fino al nascondiglio dell’ennesimo Santo Graal. Quello rappresentato, sui loro tavoli da disegno, dall’ottenimento del volo più pesante dell’aria, ovvero non più condizionato tempo atmosferico, zavorre o grandi sacche di gas incline a infuocarsi alla benché minima scintilla degli sgraditi eventi. Cose che battevano, viti senza fine, ombrelli che si sollevavano, code vibranti con grandi parapendii sul dorso; in altri termini, la miglior congiunzione possibile tra il mondo naturale e quello attentamente calibrato dell’ingegneria creativa. Tutti egualmente inutili, alla fine. A partire dall’impresa di Kitty Hawk nel 1903, quindi, una strada davvero percorribile sembrò risplendere della luce dell’ovvietà. Il principio dell’aeroplano si sarebbe manifestato mediante lo sfruttamento di due ali rigide, un propulsore, una serie di superfici di controllo. Linee guida in realtà piuttosto ampie, tali che il secolo successivo sarebbe risultato pieno di approcci non meno variabili ad un simile canovaccio di partenza. Che una di questi potesse essere il triangolo rappresentato dalla lettera greca Δ (delta) era già largamente compreso all’epoca, in forza dei preliminari esperimenti di J.W. Butler ed E. Edwards nel 1867, per l’ipotesi mai realizzata di un velivolo guidato innanzi dalla forza motrice di un razzo. Idea analizzata in maniera ancor più pratica nel 1909, con una proposta non meno in grado di portare a risultati tangibili del pioniere dell’aviazione J.W. Dunne. Negli anni catartici del secondo conflitto mondiale, tale soluzione sarebbe stata indagata approfonditamente dall’ingegnere tedesco Alexander Lippisch, con svariati prototipi che per sua e nostra sfortuna, non sarebbero mai riusciti ad entrare in produzione su larga scala. Questo per alcuni problemi inerenti di tale approccio, tra cui l’alto grado di attrito con l’aria generato da una superficie tanto ampia, nonché la portanza ridotta dalla necessità d’impiegare l’intero estendersi della parte posteriore come alettone di manovra. Ma la possibilità sarebbe tornata sotto i riflettori, assieme alla spontanea risoluzione di tali problemi, con l’affermarsi del motore a reazione e l’impressionante potenza raggiungibile da una tale soluzione. Finché a qualcuno non venne in mente, osservando il jet intercettore Convair F-102 Delta Dagger, che una simile forma avrebbe potuto altrettanto facilmente riuscire a galleggiare. Offrendo uno spunto d’analisi ed introspezione militare che riusciva a manifestarsi proprio nel momento in cui avrebbe potuto fornire un vantaggio strategico significativo.
Ciò che occorre tenere a mente, per comprendere l’impostazione e composizione delle Forze Armate statunitensi dell’immediato dopoguerra, è il ruolo fondamentale occupato dalla marina nel corso della campagna del Pacifico, tale da convincere ogni personalità rilevante che l’unico modo per dominare realmente il campo di battaglia fosse costituire una letterale estensione del suolo nazionale a largo di un altro continente, da utilizzare come base di partenza operativa per le proprie manovre, assalti ed operazioni di bombardamento. Il che poneva naturalmente le portaerei al centro della questione, se non che i nuovi e più performanti aerei dotati di motori a jet, data la lunghezza della pista di decollo ed atterraggio necessaria, difficilmente avrebbero potuto adattarsi ad una simile dottrina di combattimento. A meno che… Imparassero a decollare direttamente dai flutti, così come facevano un tempo i grandi aerei da trasporto passeggeri degli anni ’20 e ’30, nonché i molti modelli successivi spinti innanzi da un’elica e impiegati in diversi contesti di tipo militare. Sarebbero stati tuttavia per primi gli inglesi nel 1947 a tentare di combinare il concetto di una barca volante con quella del getto a reazione, con la creazione dei tre prototipi del Saunders-Roe SR.A/1, un idrocaccia subsonico destinato a non raggiungere mai il servizio operativo. Ciò che la marina statunitense bandì l’anno successivo, tuttavia, era un vero e proprio concorso diretto ai suoi principali fornitori, per la creazione di un velivolo non soltanto capace di galleggiare, ma che potesse sollevarsi in cielo e superare la velocità del Mach 1 (1.192,32) rivaleggiando in tal senso i migliori dispositivi da combattimento messi a disposizione dei piloti di quell’epoca di cambiamento. Una finalità destinata ad essere perseguita con la maggiore efficienza dalla squadra di ricerca di Ernest Stout, presso la compagnia di San Diego della Consolidated Vultee, più generalmente nota come Convair…
piloti
L’erculeo marchingegno che agevola il moto retrogrado degli aerei
Il pilota del pesante Avro 683 Lancaster danneggiato dal fuoco di contraerea nemico guardò in basso verso le propaggini del Dorset, dove un piccolo aerodromo, ospitante schiere di formidabili caccia Spitfire pareva sospeso nel tempo, inconsapevole del dramma che si stava verificando quasi perpendicolarmente all’ombra dell’eroico velivolo nell’ora del suo ritorno. Due motori in avaria, la coda parzialmente tagliata da una raffica di mitragliatrici MG 131, eppure un dilemma profondo ed innegabile: poiché il capitano sapeva perfettamente che una volta atterrato nel centro di quella pista, non gli sarebbe stato più possibile spostare il suo aereo. E chi gli avrebbe garantito, allora di non essere crivellato dal fuoco dei suoi nemici? Con uno sguardo al suo primo ufficiale, e un altro dietro all’equipaggio che scrutava attentamente il cielo, prese quindi la sua decisione. Per prima cosa, avrebbe salvato chi aveva affidato la propria vita alla sua esperienza. Tutto il resto veniva dopo. Planando attentamente, mantenendo livellato il bombardiere, giunse quindi a ridosso della “pista”, nient’altro che lo spiazzo di una fattoria il cui scopo era cambiato così radicalmente nel corso di queste ultime settimane di guerra, con appena un paio di cannoni antiaereo. Le cose sembravano andare per il meglio adesso ma lui ben sapeva che se avesse tardato eccessivamente nel puntare il muso verso il basso, poteva ancora andare in stallo causando un irrecuperabile disastro, con gesto assorto, controllò ancora una volta di aver abbassato il carrello. In quel momento, drammaticamente, udì il temuto grido del mitragliere di coda: “109 all’orizzonte, il nemico ci ha seguito! Si preparano ad un passaggio a volo radente!” Adesso o mai più, pensò allora l’uomo ai comandi! Mantenendo ferma la sua mano, portò l’aereo a terra. In pochi attimi, azionando i freni, riuscì a fermarsi nel centro esatto della pista. “Tutti fuori, scappate prima che sia troppo tardi!” Pensò allora l’uomo in uniforme, ma prima che potesse dare l’ordine, vide qualcosa che usciva fuori dall’hangar improvvisato. Con sua somma sorpresa, si trattava di un doppio tiro di buoi posizionati ai lati di un attrezzo oblungo, simile a un ariete medievale. Alla testa della strana carovana, il capo delle operazioni fece un cenno agli uomini dell’Avro Lancaster, come un invito ad aspettare ancora qualche attimo, avere fiducia nelle circostanze. Gli animali si fecero più grandi, più grandi ancora ed un muggito possente riempì le orecchie degli osservatori. Mentre l’equipaggio scrutava basito dai finestrini, un improvviso tremore percorse quell’oggetto totalmente rimasto privo di forza motrice. Incredibilmente, l’aereo si stava muovendo all’indietro, verso la protezione di un piccolo bosco d’ontani. Ad un ritmo lento, ma che accelerava in modo esponenziale. Ora la formazione di quattro caccia tedeschi era perfettamente udibile, oltre che visibile nel centro del cielo di primavera. Cabrando minacciosamente, si allineò verso la pista quasi totalmente indifesa. Due strali di traccianti verdi oliva si alzarono ad incontrarli, ma mancarono clamorosamente il bersaglio. E con una manovra perfettamente eseguita, il capo della fila puntò dritto esattamente dove, fino a pochi secondi prima, si trovava il bombardiere inglese. Aprì il fuoco, colpendo… Il terreno privo d’erba o altri metallici, danneggiati orpelli ed aviatori. Gli occhi spalancanti, il capitano fece i quattro passi che lo separavano dal portellone. Con un solo gesto fluido, aprì la maniglia e guardò cosa c’era all’altro lato. Il padrone della fattoria, sorridente, alzò la mano destra per salutarlo mentre si fumava una sigaretta. Con la sinistra, pensierosamente, accarezzava le corna di colui che allegramente brucava l’erba della cara vecchia Inghilterra.
La soluzione pratica, di un problema evidente, a cui stranamente nessuno aveva mai pensato. Fino al momento in cui, nella prima epoca di operazioni aeronautiche realmente complesse, i campi di volo della seconda guerra mondiale iniziarono a farsi veramente affollati. Ed allora fu evidente come la questione non potesse essere in alcun modo ignorata: perché gli aerei non avevano una marcia indietro veramente funzionale, e non l’avrebbero mai potuta avere. In quale modo, dunque, sarebbe stato possibile organizzarne il parcheggio in schiere affollate, entro spazi stretti non sempre utili ad effettuare le manovre di parcheggio giudicate di volta in volta necessarie? L’unica soluzione possibile, fin dall’inizio, fu dettata dalle circostanze esistenti. Poiché molti dei luoghi di decollo ed atterraggio, fino a quel momento, erano stati tratti dagli antichi contesti agricoli ed ambiti rurali. Quindi chi o cosa, meglio degli agricoltori stessi, avrebbero potuto fornire i mezzi necessari ad operare in tal senso… Qualunque trattore possa spingere un aratro, può riuscire ad operare in modo analogo per quanto concerne il tipico oggetto volante. E nella peggiore delle ipotesi, c’erano sempre gli animali…
La strana botola nella cabina di pilotaggio dell’Airbus A350
Ne parla brevemente una pubblicazione interna al programma Airbus, con il titolo encomiabile di Safety First: la Sicurezza prima di ogni Cosa. Della maniera in cui, svariate volte nel corso degli ultimi anni, si è verificato un tipo particolarmente disdicevole d’imprevisto. Quello delle brutte esperienze vissuta da svariate/i sfortunate/i assistente di volo, successivamente al semplice gesto di aver portato qualcosa da bere ai suoi piloti durante il lungo periodo di attesa antecedente al decollo, porgendo il suo vassoio all’interno degli angusti spazi della cabina di pilotaggio, o cockpit che dir si voglia. Un termine tecnico la cui etimologia può esser fatta risalire alla stazione del cockswain, l’addetto alle scattanti lance che nell’epoca dei grandi velieri avevano l’incarico di trasportare i membri dell’equipaggio fino a riva. Oppure, in alternativa e in modo ancor più letterale, il “pozzo” dei galli, dove tali uccelli combattevano per il pubblico ludibrio verso la fine del XVI secolo, in uno spazio dove successivamente si sarebbero riuniti i membri del concilio ristretto londinese, a capo del maggior impero coloniale di tutti i tempi. Soltanto che in quest’epoca moderna, assai probabilmente, nessuno avrebbe mai pensato di poter interpretare il termine in senso così letterale. Per cui un tale responsabile d’assistenza e vettovaglie, facendo un passo indietro, sarebbe stato destinato a trovare soltanto un profondo baratro al posto di un punto d’appoggio per il suo piede. Subendo, in conseguenza di una tale svista, varie tipologie e livelli d’infortunio. “Per ritrovarsi, in una percentuale rilevante dei casi, del tutto incapace di assolvere al suo dovere.” Prosegue quindi il documento, con un oggettivo pragmatismo in se stesso giustificato dai considerevoli investimenti che determinano il ritmo ed il respiro dei trasporti aerei. Per poi prodigarsi nella proposta, con tanto di foto illustrativa, di una sorta di segnale pieghevole incorporato nel quadrato della botola, da sollevare ogni volta (non è chiaro se si tratti di un processo automatico) in cui tale passaggio viene lasciato aperto da un tecnico, nel momento di frenetica attività durante il quale nessuno, in buona sostanza, può preoccuparsi di gridare “Attenti a dove mettete i piedi” per ciascuna singola persona che dovesse avvicinarsi al sancta-sanctorum dell’aereo. Non è perciò del tutto chiaro, quanto effettivamente tale orpello sia oggi parte inscindibile del repertorio di un moderno velivolo della maggiore compagnia aerospaziale europea. Benché possiamo almeno affermare di conoscere, grazie all’utile e qui presente video del pilota svedese Bjorn (alias: bjorntofly) l’effettivo scopo di un simile ostacolo potenziale alla viabilità interna dei membri dell’equipaggio. Una funzionalità niente meno che primaria…
“Seguitemi all’interno” afferma l’uomo, armato di telecamera ad alta definizione con obiettivo a 360 gradi “Mentre vado là sotto per la prima volta” Così sgancia il meccanismo di chiusura, apre la copertura in plastica corrugata e inizia a scendere, con la massima cautela, dentro le viscere del grande bimotore. Un ingegnere dell’Airbus costruisce l’ambiziosa metafora, in un altro video sull’argomento, secondo cui il cockpit altro non sarebbe che la punta di un iceberg, laddove l’opera continuativa nel tempo di un’intera schiera d’ingegneri e progettisti, attraverso anni di lavoro, costituisce il “corpo” sommerso di un così pesante oggetto in grado di solcare a una considerevole frazione della velocità del suono gli strati mediani dell’atmosfera terrestre. Corpo la cui effettiva natura, adesso, non può fare a meno di apparirci un po’ più chiara; mentre Bjorn, abbassando di qualche decibel il suo tono di voce (ma non troppi, altrimenti non riusciremmo a sentirlo) inizia a descrivere quanto si trova attorno a lui. Dapprima strisciando, mentre s’allontana dalla parte frontale dell’aereo, dove lo spazio di un tale “sotterraneo” risulta sensibilmente ristretto causa l’ingombrante presenza della ruota sterzante, per poi potersi finalmente porre in posizione verticale, iniziando ad inquadrare, uno per uno, gli strani macchinari che riempiono un così misterioso ambiente. Scatole nere simili a batterie (ed alcune di esse, sono in effetti delle batterie) su una fila di scaffali metallici, concettualmente non dissimili dalle comuni rastrelliere di una sala server o moderno datacenter di una grande impresa informatica. Ed in effetti, anche nella sostanza, del tutto paragonabili, vista la loro collocazione entro quello che viene comunemente definito il compartimento dell’avionica, o in lingua inglese avionics bay. Computer su computer, con un alto grado di ridondanza, incaricati rispettivamente di processare diversi aspetti dei dati continuamente raccolti dai sensori dell’aeromobile, piuttosto che elaborare il posizionamento satellitare a vantaggio degli strumenti di navigazione….
Baby Vs Bee: storia di un conflitto generazionale tra creatori di minuscoli aeroplani
Era un mattone con le ali troppo corte, costruito per uno scopo ben preciso, che non era quello di volare… Eccessivamente a lungo. Il Dodo, piccolo aeroplano da turismo parzialmente smontato nel famosissimo videogioco del 2001, Grand Theft Auto 3, momento comico di una singola missione ma in quell’ambiente digitale dall’interazione libera, non fu davvero possibile decidere cosa sarebbe stato considerato “importante” dai giocatori. E non esiste niente di maggiormente significativo, per noialtri esseri umani, che trovare un modo utile per spingerci in mezzo alle nubi, esplorando il mondo irraggiungibile di chi ha le piume al posto delle mani. Così in molti gradualmente riuscirono a capire la maniera, esattamente, in cui fosse possibile riuscire a pilotare tale aereo dalla foggia aerodinamica tanto inefficiente. In un modo che potrebbe anche sembrare assai poco realistico; se non per la casistica effettivamente verificatosi in varie memorabili occasioni, nel corso dell’arzigogolata e spesso imprevedibile storia dell’aviazione.
Tutto ebbe inizio, o almeno così viene narrato, con la facéta domanda rivolta all’istruttore di volo californiano e progettista per hobby Ray Stits, figlio di un rinomato ingegnere aeronautico alla fine degli anni ’40. Che sottoponeva alla sua attenzione l’enigmatico quesito: “Signore, quale pensa che sia stato l’aereo più piccolo di tutti i tempi?” Verso una risposta che poteva definirsi tutt’altro che scontata, quando si considera la soggettività di cosa potesse rientrare a pieno titolo in tale categoria veicolare: sarebbe stato necessario calcolare i modellini privi di pilota? Gli ultraleggeri? E cosa dire dei deltaplani? Una cosa, tuttavia, era certa: nell’emergente mondo degli show aeronautici del dopoguerra, la gente avrebbe pagato dei veri quattrini per l’occasione di vedere un apparecchio grande appena il giusto da riuscire a contenere il suo pilota. E Stits aveva in mente un modo valido, per riuscire a dare seguito a una tale idea. Era quindi l’estate di un fatidico 1948 quando, procuratosi parti di ricambio da alcuni vecchi aerei della guerra mondiale, il coraggioso creativo diede forma alla prima versione di quella che sarebbe diventata la passione ricorrente della sua vita: lo Stits SA-1 Junior, un monoplano con motore Aeronca da 40 cavalli e un’apertura alare di appena 3 metri e non molto più lungo di tale cifra. Ma poiché lui era una persona piuttosto alta e dal peso di circa 90 Kg, semplicemente troppi per un simile velivolo, dovette fin da subito trovare qualcuno che fosse disposto a fare da cav…Sperimentatore al suo posto, con conseguenze non sempre ottimali ed una serie di atterraggi tutt’altro che morbidi, tali da portarlo a sostituire il motore con un più potente Continental da 65 hp. Almeno finché tramite i contatti che aveva stabilito alla scuola, non gli riuscì di prendere contatto con un individuo abbastanza folle, e nel contempo abile, da poter riuscire ad affrontare qualsivoglia tipo d’imprevisto. Il suo nome era Robert H. Starr e l’incontro dei due sarebbe stato l’inizio di una collaborazione destinata a rimanere nella storia.
Questo settore apparentemente disallineato dei mini-aeroplani era infatti riuscito ad attirare almeno un insigne competitor, l’intera compagnia di San Diego della Beecraft, capeggiata da William “Bill” Chana, che con il suo Wee Bee dotato di un’apertura alare di 5,39 metri aveva creato un qualcosa che poteva, secondo lo slogan ufficiale: “Trasportare una persona ed essere spostato da lei”. Ragion per cui Stits e Starr, benché fossero ancora detentori del record, decisero che fosse possibile, nonché doveroso, anticipare i propri rivali riuscendo a fare di più. Sarebbe stato già il 1952, tuttavia, quando la nuova versione dell’idea resa possibile dalla loro collaborazione avrebbe avuto l’occasione di solcare i cieli per la prima volta. L’SA-2A Sky Baby era un piccolo biplano da corsa, con motore Continental da 112 cavalli capace di spingerlo a una velocità massima di 350 Km. Cadenza necessaria affinché potesse generare la portanza adeguata al di sotto delle sue quattro ali, che non superavano l’estensione complessiva di 2,18 metri. L’intero apparecchio non pesava inoltre più di 300 Kg, a cui si sarebbero sommati un massimo di ulteriori 70 per il pilota, che avrebbe agito come baricentro assolutamente necessario al fine di mantenersi in aria. Dopo un breve tour dei principali show itineranti della nazione, lo Sky Baby venne ritirato dal servizio con appena 25 ore di volo. Che gli sarebbero tuttavia bastate a stabilire un record destinato a durare un intero lustro, senza che nessuno avesse il coraggio di tentare in qualche modo di sfidarlo. Un onore che sarebbe toccato proprio allo stesso Robert H. Starr verso il sopraggiungere degli anni ’80, dopo un lungo periodo della vita trascorso a rimuginare sulla maniera in cui l’insigne collega era riuscito a prendersi tutto il merito, mentre lui era stato relegato dalla storia al ruolo di semplice pilota. Tutto ciò, egli decise, era durato abbastanza a lungo…