Le 24 grotte impossibili nel sottosuolo cinese

Ci sono vicende che si ripetono più volte nel corso della storia, indipendentemente dal fatto che chi vi prende parte conosca la città di Troia ed il suo significato strategico nell’epoca classica d’Occidente. Verso l’inizio del V secolo a.C. in Cina, presso la regione del regno di Wu, la principessa straniera sposata con uno dei figli del monarca decise che non voleva più vivere con il marito marito, quindi si mise d’accordo con il seguito di servi e guardie del corpo per fuggire su un carro, in una notte di luna piena, verso la patria paterna, il confinante regno di Yue. Ciò mise immediatamente fine alla fragile pace tra le due nazioni, inducendo a rapidi preparativi per il conflitto finale. Le due armate si affrontarono quindi presso la località di Zuili dove, dopo uno strenuo conflitto, il re Goujian di Yue vide trionfare il suo esercito, riuscendo ad uccidere il re di Wu. Il quale tuttavia, prima di morire, avrebbe detto a suo figlio Fuchai “Non dimenticare mai Yue”. E lui non l’avrebbe dimenticato. Così che tre anni dopo, invadendo e devastando le terre del suo nemico, il giovane sovrano riuscì finalmente a catturare Goujian, facendolo prigioniero e trasformandolo in schiavo per punirlo. Tre anni dopo, per ragioni per lo più politiche, il sovrano fu rilasciato e fece ritorno in patria, dove assunse di nuovo la posizione di preminenza. Ma qualcuno avrebbe detto, con ottime ragioni, che l’esperienza di servitù l’aveva cambiato. Ora che conosceva la futilità delle ricchezze terrene, il re viveva in solitudine, e si nutriva di pietanze più adatte alle classi inferiori. Dormiva su una branda di rami appoggiata sul duro pavimento. E ogni giorno, beveva un intero bicchiere di bile, per mantenere fresca nella memoria l’esperienza della sua lunga umiliazione. Secondo una leggenda, quindi, fu in questo periodo che egli iniziò, in grandi sale sotterranee, a preparare l’armata invincibile che gli avrebbe permesso di avere l’ultima parola.
Le cronache coéve raccontano di come l’esercito del regno di Yue a partire da quel momento fosse capace d’incutere terrore nel cuore dei suoi nemici, poiché era composto di “criminali che si erano suicidati tagliando la loro stessa testa” (si sarà trattato di una metafora?) i quali erano soliti “correre incontro alle frecce alla maniera di persone assetate dopo una lunga marcia”. Il che fu ritenuto per lungo tempo una mera esagerazione degli storici, finché nel 1992, nella regione dello Zhejiang (l’odierno regno di Yue) una signora denominata “nonna Wu” (per quanto ci è dato di sapere, nessuna parentela) non si stancò di sentir ripetere, dai suoi coabitanti del villaggio di Longyou, che gli antichi serbatoi scavati nell’arenaria per l’irrigazione dei campi di cui disponeva l’insediamento erano “senza fondo”. “Tutto deve avere una profondità massima” era solita affermare la stimata anziana, portando infine alcuni dei suoi vicini a condividere la curiosità, e finanziando assieme a loro l’operazione di trasporto dalla vicina città di Jinhua di una potente idrovora elettrica, mediante cui drenare la più grande di queste pozze artificiali. Alla presenza di una piccola folla a cui era giunta la voce, quindi, i tecnici chiamati dalla donna iniziarono a far funzionare la macchina, che dopo diverse ore di lavoro, gradualmente, permise a un distante fondale di riemergere alla luce dimenticata della superficie. Ma quello che nessuno, fra le persone coinvolte, si sarebbe mai aspettato, era il grande ingresso che iniziò a fare capolino da sotto il livello del suolo, verso regioni letteralmente inesplorate del sottosuolo del mondo. Possibile che… Ci sono varie teorie, inevitabilmente. Nessuno sa realmente se le grotte di Longyou, destinate a diventare ben presto famose su scala internazionale, fossero il luogo nascosto in cui re Goujian aveva fatto addestrare il suo esercito di superuomini. Ciò che è certo, è che si tratti di un luogo unico al mondo, la cui effettiva natura esula da una semplice spiegazione storiografica di tipo convenzionale. Perché dopo questo primo episodio, altri seguirono l’esempio di nonna Wu, drenando i serbatoi che si trovavano nei loro terreni. Operazione al termine della quale, le grotte ritrovate furono 24, ciascuna delle quali composta da una singola, gigantesca sala, con un’estensione di 1.000 mq e una profondità di circa 30, e diversi altissimi pilastri di pietra naturale lasciati integri ad arte con lo scopo di sostenere il soffitto. Ma ciò che maggiormente colpì la fantasia dei locali, e degli studiosi accorsi per fotografare l’assurdo ritrovamento, era l’aspetto striato di tutte le pareti, quasi come se queste fossero state accuratamente incise per ragioni inconcepibili, oppure le caverne stesse fossero state create mediante l’utilizzo di un moderno macchinario di scavo. Prevedibilmente, la nutrita combriccola degli ufologi e i complottisti non tardò a farsi avanti con la loro eclettica antologia di spiegazioni.

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La scuola elementare in fondo a un dirupo di 800 metri

L’immagine è piuttosto ansiogena e difficile da dimenticare: una quindicina di bambini, tra i quali il più giovane ha soltanto 6 anni, che s’inerpica faticosamente come fossero un gruppo di scalatori dai molti anni di esperienza, gli zaini dalle tonalità vivaci un netto stacco con i colori verde e marrone della montagna. A fare da apripista, normalmente, uno o più adulti, attenti ad intraprendere una strada adatta al loro seguito di allegri piccoli sherpa. Mettiamo subito da parte lo stereotipo secondo cui la scuola elementare sia stata divertente. La scuola è faticosa, spiacevole, talvolta dolorosa. È il luogo in cui i bambini, per la prima volta, devono scontrarsi con le regole e le esigenze della società. Affinché dopo diversi anni, in qualche maniera, ne escano cambiati e in grado di affrontare le difficoltà future. Ma per quanto si possa soffrire, giorno dopo giorno, nel perdere la propria ingenuità e sottoporsi a un meccanismo creato per un mondo privo delle odierne vie d’accesso alla cultura, possiamo almeno essere certi di una cosa: ovvero quanto siamo stati fortunati, per il semplice fatto di non essere nati nella contea di Zhaojue. La regione cinese, nella regione del Sichuan, dal terreno estremamente scosceso e disseminato di montagne, dove si trova da 200 anni il villaggio di Atule’er. Perché vedete, per le circa 74 famiglie di questa comunità agraria e pastorale, è del tutto normale inviare due volte al mese i propri pargoli in un luogo presso cui possano apprendere le basi dello studio e dell’educazione. Discendendo ognuna di quelle volte, a partire dal loro luogo di nascita, una parete quasi verticale grazie all’uso di alcune fatiscenti scale di rattan. E così terribilmente pericoloso, risulta essere questo tragitto, che negli anni si è deciso di farli dormire laggiù per la maggior parte del loro tempo, riaccompagnandoli fino in vetta solamente in occasione delle festività locali. La ragione di questa anomalia, diventata celebre nel mondo qualche anno fa grazie a un articolo del People’s Daily Online e all’opera del fotografo di fama Chen Jie, che trascorse svariate settimane assieme agli abitanti percorrendo più volte su e giù il sentiero che li separa dalla civiltà., va ricercata nella storia di questi luoghi, abitati da un’etnia anticamente nota come Lolopu, in funzione della loro abitudine di venerare come essere supremo la tigre. Un popolo composto da numerose tribù continuamente in guerra tra di loro, così che in svariati casi (nei dintorni ci sono altri tre villaggi come questo) i loro membri decisero di ritirarsi in luoghi che risultassero inaccessibili ai loro nemici. A spingerli progressivamente più in alto, quindi, ci pensò la fauna locale, popolata di cinghiali particolarmente rovinosi per i campi coltivati e scimmie piuttosto aggressive, notoriamente abituate a lanciare sassi contro i viandanti. Finché finalmente, sulla cima di questa montagna, non venne scoperta una fonte di acqua limpida e copiosa, adatta ad irrigare i campi e fornire sostentamento ad un intero villaggio di convinti lavoratori. Nacque così un’economia basata principalmente sulla coltivazione di noci e peperoncino, oltre all’allevamento di capre e maiali. Ma con la nascita della Cina moderna, e il passaggio a valle di una strada asfaltata, ben presto la comunità si divise, andando a formare una città nuova ad una quota decisamente più accessibile ai più. Tale luogo, ben presto, venne fornito di una scuola.
La Cina, persino nelle sue accezioni più rurali ed isolate, costituisce da sempre uno dei paesi in cui l’educazione viene tenuta in più alta considerazione, principalmente in funzione dell’etica confuciana del rapporto dell’individuo con la società. E benché fosse forse possibile, per lo meno in linea di principio, trovare un insegnante disposto a vivere nel villaggio sulla cima del dirupo, qui occorre prima di tutto chiedersi quale sia l’effettivo scopo dell’intera faccenda. Forse i genitori ci tengono a mostrare ai loro pargoli per lo meno un transitorio scorcio del mondo sottostante? Oppure il vero insegnamento che dovranno cogliere, a conti fatti, è l’abilità stessa di discendere la parete montana, avventurandosi verso quei punti di raccordo che, un giorno, gli saranno necessari per ricavare sostentamento dalla coltivazione della terra…

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Il villaggio sull’oceano dentro la caldera di un vulcano

Anno 1785: le onde dell’Oceano Pacifico s’infrangono contro il rudimentale molo, mentre le imbarcazioni dei pescatori, gettando le proprie cime all’indirizzo dell’approdo, fanno il possibile per dar modo alla popolazione di sbarcare nuovamente nella terra della loro anima, la municipalità giapponese più difficile da raggiungere per mare. Nell’espressione di un sentimento noto come kanju , che significa “tornare al luogo della vita” ma anche, a seconda dei caratteri impiegati per scriverlo, “accettare” o “sottomettersi al dovere/destino”. Poiché ogni 230-250 anni, le case di queste genti vengono devastate da un’eruzione terrificante, che fa scuotere la loro piccola casa come fosse il dorso di un drago risvegliatosi dal torpore dei secoli dimenticati. Ed ogni volta, puntualmente, la parte superstite degli abitanti cerca rifugio nella vicina e più grande isola di Hachijojima, per poi imbarcarsi di nuovo, e far puntualmente ritorno all’ovile. Siamo a 358 Km dall’allora città di Edo, destinata a diventare in futuro la tentacolare megalopoli tokyoita, tra le nebbie del distante Mare delle Filippine. La gente venuta fin quaggiù in origine, oltre al rispetto delle tradizioni familiari, ha almeno un’ottima ragione per tenersi lontano dalle terre centrali: primi fra tutti, i monaci del Jōdo Shinshū o Buddhismo delle Terre Pure (corrente Wasan) esiliati dal tempio di Zojo-Ji come eretici ed oppositori del potere shogunale. Ed assieme a loro una selezione di discendenti di coloro che erano stati in qualche modo danneggiati dalle guerre civili, oppure restavano invisi ai funzionari del potere dei Tokugawa, ormai stanchi di nascondersi sotto falso nome. Dopo i duri sconvolgimenti dei secoli passati, dunque, il Giappone era un paese in pace. Ma la pace non è sempre un sinonimo del benessere civile. Così, eccole qui: circa 120-130 persone, i superstiti, i pionieri, coloro che erano sopravvissuti allo sciame di terremoti seguiti dalla colata lavica e la conseguente esplosione freatomagmatica, in grado di trasformare ulteriormente una delle isole più complesse, ed uniche nel paesaggio, dell’intero arcipelago delle Izu, site all’estremo sud della Terra degli Dei. Ma nessun Kami, nessun Buddha li avrebbe aiutati questa volta: soltanto il duro lavoro, e i materiali che si erano portati dietro, gli avrebbero permesso di ricostruire l’isola di Aogashima.
Vista da lontano, sembra un enorme picco marino di 2,5 x 3,5 Km, con ripide pareti ricoperte da verdeggianti foreste sovrastate dal monte periferico Otonbu, grazie ai suoi 423 metri il punto più alto dell’isola. Ma è soltanto una volta scavalcato simili barriere dalla furia del mare, che si scorge l’insolita verità: l’isola è in realtà una conca o padella, con al centro un rilevo quasi comico nella sua striata perfezione, definito il “cono delle ceneri” un piccolo vulcano, rigorosamente attivo. Come del resto lo sono gli altri quattro, nascosti sotto la superficie della Terra, grazie ai quali questo luogo ameno emerse dalle acque verso l’epoca Quaternaria, circa 2,58 milioni di anni fa. E così pare, che vivere in una terra meno antica dei dinosauri, e che potrebbe forse non raggiungere la loro età, porti con se un duro bagaglio di problemi. Incluso quello di dover tenere pronte le imbarcazioni, e lanciarsi a largo al primo avviso di tremori che potrebbero precedere l’eruzione finale. È una vita che potrebbe far gravare il senso d’ansia sui giorni e le singole ore, se non fosse per il fondamentale sentimento del kanju: tornare non perché non si abbia altra scelta, bensì farlo come naturale proseguimento della scelta degli antenati. E se i numi tutelari, umani o naturalistici, pretendono da noi una qualcosa, cosa potrebbe mai fare l’uomo per contrastare il loro sommo ed imprescindibile volere?
Sappiamo molto poco della storia di Aogashima antecedente a tale drammatica eruzione, benché se ne trovi menzione come sito vulcanico per la prima volta attorno al 1652. È in effetti altamente probabile, se non certo, che prima di quella data essa fosse del tutto priva di abitanti: a tal punto le condizioni marittime, e la semplice distanza dalla costa, l’avevano resa inespugnabile ai più. Tutto quello che avvenne da quel momento in poi, tuttavia, sarebbe stato destinato a rimanere a vantaggio dei posteri futuri. Fino alla prossima, terribile eruzione…

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La nonna del villaggio e il suo coltello da cucina indiano

Non sono pochissime le persone per cui, dopo una lunga giornata di lavoro, l’ultimo rifugio dal logorìo dell’inquietudine diventano i fornelli. Un luogo dove il desiderio governa i gesti e che in funzione di questa sua speciale caratteristica, si configura sulla base e le necessità dell’arte. Le tre C della Cucina: Concentrazione, consapevolezza, cumino. Se vogliamo metterci una spezia. Coriandolo, se ce ne serve un’altra. Ma è andando oltre una simile frontiera binomiale (del resto, lo si sa, non c’è due senza tre) che si sconfina nel variopinto regno della cucina indiana. Fatta di quel vasto ventaglio di sapori e polveri, che non soltanto accompagnarono il destino dei popoli di quel massiccio sub-continente, ma determinarono il fato stesso e l’andamento di oltre un millennio e mezzo dei più pregiati commerci dell’umanità. Perché è questa, soprattutto, la forza di un sapore, di un odore o di un colore: la misura dell’universale passione che attraversa i mari e i continenti. Per poi tornare qui seduti, come niente fosse, sul suolo sterrato presso la radura di un piccolo centro abitato in mezzo alla foresta, e domare quel vortice con la perizia di due mani cariche di Storia. Dove siamo, esattamente? Non ci viene detto, benché almeno un singolo elemento ci permetta di azzardare un’ipotesi geografica di riferimento: sto parlando del principale attrezzo usato dall’anziana signora nel corso della preparazione dei suoi splendidi ed enormi granchi di fiume, una sostanziale sciabola fissata ad una tavola di legno, sopra la quale lei appoggia il piede destro, affinché il taglio non possa deviare di un trentesimo di spanna. Ebbene, mai visto niente di simile? Siete al cospetto di un bonti, un attrezzo tradizionale dalla storia millenaria, particolarmente associato alle donne della regione del Bengala, nella punta nord-orientale del triangolo che costituisce l’India, al confine con il Bangladesh. Non per niente, anche nelle cucine di quest’ultimo paese, è talvolta presente una versione locale dello stesso oggetto. Qualcosa di apparentemente poco pratico, a guardarlo, ma che in realtà va inserito nel contesto di uno stile e una postura di lavoro totalmente diversi da quelli nostrani, in un’area geografica in cui semplicemente, a nessuno è mai venuto in mente di sprecare lo spazio in casa con cose come sedie, tavoli, banchi di alcun tipo. Dove tutto quello che serve per produrre le pietanze energizzanti a vantaggio di parenti, figli e nipoti sono giunture flessibili e ginocchia solide come l’acciaio. Doti che diventano, a questo punto, pressoché scontate.
La qualità e il pregio registico di questa serie per il web, fatta forse eccezione per la colonna sonora non sempre appropriatissima (benché persino quella, andrebbe contestualizzata) coinvolgono lo spettatore con piglio quasi ipnotico, finendo per indurre in lui uno stato d’animo probabilmente comparabile a quello di molti dei commensali presenti per l’evento. La nonna comincia spesso dai princìpi più remoti, impugnando mortaio e pestello per prepararsi da se almeno una parte delle polveri che userà nel suo curry. A tal proposito, è appropriato fare una notazione di tipo linguistico: poiché in italiano, per convenzione, questo termine si riferisce in modo particolare al fine preparato di spezie risultante da questa specifica procedura, quando in realtà il termine appropriato per quest’ultimo sarebbe masala, ovvero un mix di spezie. Mentre kari, che in lingua Tamil significa “condimento”, dovrebbe indicare la pietanza propriamente detta, completa in ogni sua parte ed a base in genere di carne, pesce o verdure. Il masala della Nonna del Villaggio, ad ogni modo, è molto variegato: s’intravede facilmente il giallo ocra dell’haldi (curcuma) e un marrone più scuro dello zeera (cumino). Il bianco è semplicemente sale. C’è poi un rosso intenso, probabilmente polvere di peperoncino anche se alcuni ipotizzano sia proprio della paprika, aggiunta con estrema generosità al calderone. Ma mai quanto l’adrak-lehsun, impasto di zenzero ed aglio, del quale viene immesso un pugno intero, poi agevolmente mescolato con erbette locali, il resto delle spezie ed ovviamente, giunti al momento clou della sequenza, l’ingrediente principale degli ipertrofici crostacei fluviali, con chele, zampe e tutto il resto. Nel corso della lunga cottura dunque, che durerà fino alla sera, l’esperta cuoca continuerà a sorvegliare il suo capolavoro, aggiungendo di tanto in tanto un po’ dell’una o dell’altra sostanza citata. Che cosa la guiderà nel compiere questi speciali aggiustamenti? Lo sguardo, l’odore, il vasto ventaglio di esperienze a cui fare riferimento nel corso della sua lunga carriera di donna che nutre la famiglia? Una domanda, questa, a cui non è facile trovare una risposta. Nel finale della sequenza, in modo atipico per la serie, lei non viene mostrata mentre mangia assieme a dei convitati giunti per l’occasione, quanto piuttosto intenta a sgranocchiare l’ineccepibile curry di granchio in assoluta solitudine, sotto la luce della luna. Fino all’ultimo succulento pezzo di zampa.

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