Se la strada della vita ti pone innanzi a un tornado

Giugno è il mese, negli stati centrali del nord-ovest come altrove, in cui l’anno compie la sua svolta maggiormente significativa. Quell’arco di 30 giorni entro cui si risvegliano le effimere, emergono le cicale, gli uccelli migratori giungono nei luoghi adatti a riprodursi e i frutti carichi di semi vengono fagocitati, per iniziare il lungo viaggio verso nuovi luoghi da colonizzare. Ciò che causa, nello specifico, il maggior numero di problematiche è però la serie di trasformazioni, meteorologiche, atmosferiche e funzionali, a cui va incontro questa particolare regione geografica di pari passo, generando tempeste di fulmini all’interno delle quali, a loro volta, il vento può convergere in maniera spiraleggiante. Finché una simile tendenza, soprattutto in pianura cessa di essere qualcosa di arrestabile, ed inizia al sua marcia in forma di tornado. Il vortice. La tromba d’aria. Sapevate che in tutto il Vecchio Continente, l’Italia è il terzo paese statisticamente più affetto da una tale classe di fenomeni? Ma incidentalmente, la quantità media dei danni che essi riescono a causare, nella nostra penisola, è quella maggiore a livello europeo. Eppure tutto questo è nulla, persino nella peggiore delle ipotesi, rispetto a ciò che devono temere, ed aspettarsi gli abitanti dell’entroterra statunitense, in corrispondenza dell’ingresso in estate e lungo tutto l’incedere della stagione dei disastri ventosi, quella che non trova posto in calendario (perché non prevedibile) ma ha un podio di primo piano dentro ai cuori e nei cervelli delle persone. Tanto che in Kansas, nello Iowa, nel Missouri, le persone nascono sotto un tale segno, ed è cosa buona e giusta che fin dall’asilo, per poi proseguire attraverso la scuola primaria e secondaria, l’esperienza individuale delle persone sia costellata di esercitazioni, spiegazioni teoriche, lezioni dedicate ed esperienze dirette, per forgiare una serie di reazioni non sempre intuitive, né apparentemente logiche, per tentare in qualche modo di salvarsi la vita. Ecco a voi, tanto per cominciare, un esempio. Cosa fare se il tornado vi coglie mentre siete in auto, senza strutture solide per ripararsi: punto primo, lasciare immediatamente il veicolo. Punto secondo, camminando faticosamente in mezzo al vortice per trovare una depressione nel terreno, non importa quanto insignificante, e sdraiarvisi all’interno, mentre si usano le mani per proteggersi la testa dai una pletora di detriti volanti. Il vento che vi percuote la nuca e la schiena, sperando di non essere risucchiati via… Difficile immaginarsi in una simile situazione! Ma voi, in tutta sincerità, sareste disposti a comportarvi così?
Di sicuro, non lo è stato questo automobilista dal nome ignoto, il cui video amatoriale fu pubblicato da niente meno che il National Geographic nella primavera del 2005, durante il catastrofico evento passato alla storia come tornado di Rochelle–Fairdale. E può fare una certa impressione, indubbiamente, prendere atto del momento, lungo all’incirca un minuto e mezzo, in cui l’autore della sequenza si è trovato letteralmente a poche decine di metri dal volto stesso della distruzione, quell’agglomerato di correnti rotative, zolle di terra e pezzi di edifici, che nel giro di poche ore si sarebbe ingrossato fino alla categoria EF4 (“danni devastanti”) per procedere con diabolica sicurezza verso la periferia di Rochelle, Illinois,  finendo per costare 19 milioni di dollari ai suoi abitanti, e la vita ad un paio d’individui particolarmente sfortunati. Così costui, presumibilmente non nativo di queste parti, reagisce in una maniera che a suo tempo, bastò a rendere virale su Internet il video. Ovvero non fece, sostanzialmente, alcunché. Considerate voi la situazione. Il tornado può rappresentare in determinate condizioni, la repentina fine della vostra esistenza. Terribile a vedersi, mentre ruota maestosamente all’orizzonte. E i manuali dicono che la cosa migliore da fare, per tentare  di salvarsi, sia guidare il più veloce possibile esattamente a 90° dal suo corso predeterminato. Già, ma in che direzione si sta muovendo? Cambierà direzione? La voce fuori dall’inquadratura, impossibilmente calma, ammette senza alcun dubbio di non riuscire a comprendere in che direzione stia andando il vortice. Il che, come ben sanno i locali, è un pessimo segno: poiché il tornado mutano di forma e dimensioni molte volte nel corso della propria marcia. Ed è perciò possibile non riuscire a notare un avvicinamento o allontanamento diretto. Mentre gli spostamenti laterali, quelli si, risultano comparabilmente evidenti. Dunque se il fronte apocalittico appare del tutto fermo (non lo è mai realmente) c’è un 50% di possibilità che esso si stia dirigendo alla massima rapidità consentita verso di voi. Compreso questo, dunque, cosa resta da fare? Se non inserire la retromarcia come fa costui, per procedere molto, molto lentamente sotto il cavalcavia più vicino? E qui, apriti cielo in più di un senso.

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L’apocalisse in attesa sotto il permafrost canadese

“Se soltanto sapeste quanto le cose vanno male davvero…” è la citazione attribuita occasionalmente al presidente americano vittima di assassino John Fitzgerald Kennedy, sebbene nessuno su Internet sembri sapere, esattamente, quando egli avrebbe pronunciato tali parole. Forse a seguito della crisi dei missili cubani del 1962, oppure parlando ai numerosi consiglieri che aveva nominato, negli anni successivi, per tentare di risolvere il nodo della guerra in Asia, a seguito del colpo di stato ai danni del presidente sudvietnamita Ngô Đình Diệm. Ma esistono teorie del complotto, come è sempre stato, relative al fatto che i potenti del pianeta posseggano conoscenze negate ai comuni mortali, cognizioni di orribili disastri impellenti che mai vengono rilevate, al fine di prevenire il panico o ancora peggio, la ribellione di un popolo infuriato. Finché molti decenni dopo, viene rivelato con assoluta nonchalanche, ciò che stava, e tutt’ora sta per succedere, assieme ad un’ipertecnologica soluzione che all’epoca, nessuno avrebbe mai potuto concepire. Sto parlando di disastri ambientali come l’inquinamento, il riscaldamento terrestre, la progressiva contaminazione dei mari. Ma il mio discorso, quest’oggi, non è orientato unicamente al comportamento storico statunitense. Bensì a quel paese che vi confina a nord, considerato in genere un faro di responsabilità civile e ragionevolezza, dove tutti chiedono scusa e nessuno, per una ragione o per l’altra, sembra mancare del dono fondamentale dell’empatia. Ma in Canada, nei Territori desolati del Northwest, esiste una cittadina di circa 20.000 abitanti che porta il nome di Yellowknife. La quale, come una particella in bilico sul filo dell’eponimo coltello, giace su vaste caverne impossibili da dimenticare, ciascuna capiente quanto un grattacielo newyorchese e ricolma dagli anni ’60 di uno dei più terribili veleni noti all’umanità. Se questa fosse una storia intrinsecamente connessa alla corsa agli armamenti dell’epoca della guerra fredda, come si potrebbe intuitivamente pensare, ed allo sviluppo di nuove e più terribili armi nucleari, allora staremmo parlando di particelle alfa, beta e gamma, residui radioattivi in grado di dare una morte rapida e misericordiosa, oppure lenta e terribile, a seconda della dose accidentalmente subita. Ma la Miniera Gigante (Giant Mine) contiene, se possibile, qualcosa di persino più devastante. Avete mai sentito di parlare della polvere di triossido d’arsenico? Una sostanza sottile come il borotalco, che può essere altrettanto facilmente dispersa nell’aria o dissolta nell’acqua, del tutto inodore, insapore, incolore. Della quale è sufficiente assumere la dose equivalente ad un’aspirina per andare incontro ad un’immediato arresto sistemico dei propri organi vitali. Mentre dosi ancora minori possono provocare irritazione alla gola e ai polmoni, sfoghi e malattie della pelle ed a lungo termine, il cancro. Ora per comprendere l’effettivo rischio per la salute che tutto ciò rappresenta, sarà opportuno evidenziare tre fattori: primo, una quantità equivalente ad un’autobotte di dimensioni medie, sarebbe dal punto di vista della LD50 (dose letale per il 50% dei soggetti) sufficiente a sterminare l’intera popolazione mondiale. Secondo, sotto la città di Yellownife alberga una stima di 237.000 tonnellate di questa sostanza. Terzo, a meno di complessi e tutt’ora non definiti interventi, tale situazione continuerà a sussistere per altri 10.000 o 100.000 anni, dato che la tossicità dell’arsenico, a differenza della radioattività, non presenta alcun degrado progressivo per l’effetto della mezza vita di uranio, plutonio et similia.
Ma per tornare alla citazione di JFK, non è particolarmente intuitivo comprendere come si possa essere giunti ad una situazione tanto critica, soltanto in funzione della semplice avidità dell’uomo. Tutto inizia, secondo una leggenda degli anni ’30 dello scorso secolo mai effettivamente verificata, quando una giovane donna appartenente alla tribù delle Prime Nazioni dei Dede (popolazioni indigene nordamericane) di nome Mary Osso-di-Pesce rivelò a un sacerdote europeo la presenza di vene d’oro nelle terre ancestrali a occidente della baia di Yellowknife. In alcune versioni della storia, invece, ella aveva parlato con un mercante, in cambio della stufa che aveva sempre desiderato per scaldare la sua casa in inverno. Fatto sta che in quegli anni, la nascente industria mineraria delle terre selvagge canadese non tardò a reagire alla notizia, costruendo la serie d’impianti che negli anni, integrandosi l’uno con l’altro, sarebbero diventati la Giant Mine. Ora abbiamo fin qui parlato di questo terrificante accumulo di veleni, posizionandolo a partire da un’intera generazione dopo questi eventi. Potreste quindi chiedervi che cosa fosse successo, prima di allora: la risposta è che l’arsenico, un prodotto collaterale del processo di raffinazione dell’oro, veniva semplicemente liberato nell’atmosfera, lasciando che ricadesse tranquillamente sulla città e il lago di Slave, uno dei principali bacini d’acqua dolce del Canada e quindi, del mondo intero….

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La serpe robot volante dei pompieri giapponesi

Passando in rassegna le mitologie dei diversi paesi, esistono molti tipi di drago. La creatura mitologica per eccellenza, talvolta una belva crudele affamata di carne umana, altre saggia e benevola in maniera mistica, in grado d’influenzare il corso della storia con la sua semplice presenza, anche nel caso in cui si tratti di una semplice metafora per qualcosa di più tangibile ed immanente. Una caratteristica trasversale di simili creature, indipendente dalla nazionalità d’appartenenza, resta il loro alito incantato, sulla cui natura, tuttavia, Oriente ed Occidente non possono fare a meno di trovarsi in disaccordo. Basta in effetti considerare per un attimo la progenie del Fáfnir norreno, incluse la reinterpretazione tolkeniana e tutte quelle a seguire, per sentir parlare di fuoco e fiamme, lingue incandescenti, scintille vulcaniche in grado di radere al suolo intere città. Mentre per la tradizione asiatica e in particolare cinese, esemplificata dal signore dei quattro mari Sìhǎi Lóngwáng, il grande verme è una creatura che vive sott’acqua lungo il corso dei fiumi e nelle profondità oceaniche, da dove emerge occasionalmente per scatenare su di noi la furia degli elementi: il vento, le nubi e la pioggia. Il che faceva di un lui una delle forze sovrannaturali alla base dei ritmi e dei processi dell’agricoltura, oltre ad un consigliere dei regnanti e talvolta, una punizione inviata per punire i malvagi e redimere i giusti. Potrà dunque sembrarvi più che mai sensato, l’appellativo scelto da Satoshi Tadokoro e i suoi colleghi del dipartimento tecnologico dell’Università del Tohoku per la loro invenzione presentata il mese scorso alla Conferenza Internazionale di Robotica: il DragonFireFighter, nel cui aspetto stesso si riflette la forma longilinea e sinuosa di questo animale fantastico, protagonista di primo piano nelle storie folkloristiche e in molte leggende del loro stesso Giappone. Un parallelismo che si riflette chiaramente nel funzionamento dell’apparato, funzionante in effetti grazie alla forza stessa dell’acqua espulsa a forte pressione dalla comune manichetta di una squadra di vigili del fuoco, ovvero fatto muovere verso ipotetici spazi difficili da raggiungere per il principio di azione-reazione tramite l’impiego di una serie di ugelli direzionabili, posizionati a intervalli regolari lungo la sua intera estensione i quali dovrebbero ricordare, nelle parole stesse del creatore: “I figuranti della danza del drago di capodanno” un’importante nonché celebre esibizione praticata in tutto l’Estremo Oriente. Per una creazione che risulta essere, nella versione dimostrativa costruita fin’ora, di appena 3 metri, ma potrebbe facilmente raggiungere o superare i 20 nell’effettiva applicazione finale. Il che da luogo ad un video di presentazione potenzialmente interessante, che tuttavia occorre interpretare sulla base di quello che potrebbe diventare nel giro di qualche mese, piuttosto che il funzionamento corrente di quello che comunque resta nient’altro che un mero prototipo, di quello che non costituisce affatto il risultato desiderato.
Eppure, potete realmente dire che vi lasci del tutto indifferente? Spinto innanzi dall’operatore verso un piccolo fuocherello, il carrello presso cui è stato agganciato il tubo dell’acqua si avvicina a un pannello metallico con un’apertura rettangolare. Ora, dovete presumere che un tale scenario sia rappresentativo, in effetti, di un incendio presso un impianto chimico o radioattivo, come una centrale nucleare, al quale i pompieri saranno disposti a fare il possibile per non avvicinarsi. Riecheggiano le critiche degli scettici del web: “Sarebbe bastato sparare l’acqua a parabola per ottenere lo stesso risultato” Ma un getto d’acqua, per quanto possa essere preciso e potente, non potrà mai ricadere per la semplice gravità con la stessa forza di quella creata dall’effetto Bernoulli, ovvero l’aumento della velocità al diminuire della pressione, una volta fuoriuscito dall’angusto condotto flessibile che l’ha portato fino a destinazione. E c’è una cosa che tale fluido, inoltre, non potrà mai fare: girare gli angoli, giungendo alle stanze chiuse, veri punti caldi del disastro incipiente. Ecco dunque provata l’efficacia di un simile serpente/drago meccanico: orientare direttamente la propria “testa” e il conseguente getto verso l’origine delle fiamme, alla stessa maniera in cui dovrebbe idealmente fare una persona armata di estintore, ottenendo degli effetti decisamente più risolutivi nella sua mansione d’utilizzo primaria, lo spegnimento. Il che non può prescindere, per ovvie ragioni, la grande quantità d’acqua che appare chiaramente “sprecata” nella dimostrazione, tramite l’espulsione continua degli ugelli a reazione, nello scenario simulato del singolo barile col fuoco dentro. Ciò che avrebbero dovuto chiedersi i commentatori al video prima di offrire la loro opinione, resta: “Chi ha mai visto un incendio tanto localizzato?” Ovvero una volta fatto il suo ingresso nell’edificio prossimo all’incenerimento, gli stessi getti di manovra del DragonFireFighter finiranno per colpire zone in qualche maniera combustibili, se non già lambite dal lingue di fiamme. Il che risulterà essere, inevitabilmente, tutt’altro che inutile. Anzi…

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Il rospo tossico che tiene in scacco il Madagascar

La vita, dal punto di vista di un lemure, dev’essere piena di stimoli interessanti. E non sto affatto parlando di quei katta dalla coda ad anelli dei cartoni animati, che cantano You gotta move it, move it […] con in testa un cappello fatto in foglie di banano. Bensì dei veri, piccoli animali che popolano le notti arboricole della quarta isola più grande del mondo, consumando senza remore gli insetti e la frutta che costituiscono la base della sua dieta. In un paradiso, frequentato da qualche diavolo, dove l’unico pericolo naturale è l’attività carnivora del fossa (Cryptoprocta ferox) una ragionevole approssimazione di quello che potrebbe essere un incrocio tra una faina e un gatto. La cui dieta si compone, per il 50% di codesti Strepsirrini, componenti del secondo e più localizzato sottordine dei primati. Eterno avversario in una lotta equilibrata, in cui scaltrezza, agilità ed attente percezioni bastano ad assicurare una rapida fuga o l’ottima cattura, garantendo un equilibrio e selezione naturale tra le specie di uno dei poli residui dell’originaria biodiversità terrestre. Immaginate, dunque, la sorpresa di ciascuna delle due parti sin qui citate, quando a partire dal 2008 la foresta locale ha iniziato a popolarsi di un nuovo elemento, il letterale terzo incomodo che avrebbe scardinato letteralmente ogni presupposto acquisito: una creatura saltellante, stridente, marrone e bitorzoluta, appartenente alla genia dei Bufonidae, quelli che comunemente vengono detti rospi.
Tutto è iniziato, a quanto si è riusciti a ricostruire, nell’area del porto di Toamasina situato nella parte nord-occidentale dell’isola, principale svincolo dei commerci verso la parte meridionale dell’Asia e perché no, l’Australia. Le specifiche modalità non sono chiare, mentre il dipanarsi effettivo degli eventi, purtroppo, lo è in maniera fin troppo evidente. Probabilmente si è trattato di un container, secondo alcuni diretto verso gli stabilimenti dell’azienda metallurgica Ambatovy, esportatrice di nickel e cobalto nonché una delle più importanti realtà del commercio malgascio. Nel quale, accidentalmente, doveva essersi introdotta un’intera famiglia di clandestini provenienti dal Pakistan, dall’India o dal Myanmar… Non persone, purtroppo, ma qualcosa di molto più inconsapevole ed al tempo stesso (proprio per questo) infinitamente più pericoloso. Il Duttaphrynus melanostictus, anche detto rospo asiatico comune, è una creatura piuttosto in linea con ciò che ci si aspetta il più delle volte da questa famiglia di animali. Abitatore di stagni o corsi d’acqua a flusso lento, spesso nascosto sotto pietre o piante a foglia larga, cacciatore delle zone più illuminate dove tendono naturalmente a concentrarsi gli insetti. Se volessimo tuttavia identificare un paio di tratti distintivi, bastanti a farlo emergere tra i suoi simili e distanti parenti, essi sarebbero la natura particolarmente efficace del muco protettivo che lo ricopre, e una tendenza alla rapida e inarrestabile proliferazione. Una combinazione particolarmente pericolosa, specie quando si considera che il suddetto veleno, in caso di fagocitazione anche parziale del gracidante ospite indesiderato, può anche causare un rapido arresto cardiaco, per le quantità ingenti di bufotenina, un composto a base di glicolidi che può causare anche la morte negli umani. Figuratevi, quindi, in creature che pesano soltanto una frazione di noi, abituate a considerare il mondo la propria ostrica, e ciascuna nuova perla che compare innanzi un dono personale della natura nei loro confronti. La segregazione isolana, generalmente, rende le specie che abitano un luogo particolarmente vulnerabili all’introduzione di predatori esterni, nei confronti dei quali risultano irrimediabilmente indifesi. Ma nel caso del Madagascar, luogo dove esiste un ragionevole equilibrio di carnivori e prede, il rischio profilato risulta essere del tipo completamente opposto: non c’è bersaglio più facile, in effetti, per la fagocitazione a scopo alimentare, di un anfibio intento a riposarsi in prossimità dell’acqua. Il problema, semmai, è riuscire a digerirlo senza pagarne le conseguenze….

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