È nel momento della più drammatica necessità, quando ogni possibile speranza sembra andare in dissolvenza verso l’orizzonte, che l’inclinazione innata verso l’eroismo scaturisce dalle gesta di qualsiasi essere, donando un senso significativo al corollario dei minuti, ore, giorni, eccetera, che gli restano da vivere su questa Terra. Come quando Edward Henry “Butch” O’Hare, aviatore navale e primo asso americano della seconda guerra mondiale, in ordine di tempo e non solo, decollò col proprio Grumman F4F Wildcat assieme a quello di un commilitone dalla primitiva portaerei USS Lexington nel 1942, formando un’ultima linea di difesa contro nove bombardieri pesanti provenienti da una base giapponese. Soltanto per scoprirsi totalmente privo di assistenza, quando le armi del suo compagno si incepparono, costringendolo a poggiare nuovamente le sue ruote sopra il ponte del vascello. Segue nel racconto il primo di una serie di passaggi attentamente calibrati, poi un secondo e così via a seguire, che gli permisero di abbatterne tre, riuscendo a danneggiarne gli altri al punto da salvare la sua nave. Impresa in grado valergli, nell’ordine, la concessione della prestigiosa Medaglia d’Onore del Presidente, l’attribuzione del suo nome al potente cacciatorpediniere USS O’Hare varato nel ’45, e soltanto quattro anni dopo, anche nei confronti di quello che sarebbe ben presto diventato “il miglio quadrato più trafficato al mondo” con la qualifica informale di aeroporto/deposito del frutteto di Chicago.
Detto ciò, chiunque avesse visitato l’O’Hare poco prima del recente anno 2013, avrebbe assai probabilmente finito per pensare “Accidenti, questo posto deve aver visto giorni migliori”. In modo particolare nel caso di un approccio dalla direzione del torrente Willow-Higgins, i cui argini scoscesi impedivano il disboscamento sistematico della vegetazione, a meno d’impiegare costosi meccanismi, piuttosto che prodotti chimici lesìvi per l’ambiente. Il che aveva portato, negli anni, all’accumulo di un fitto strato di siepi e sterpaglie, usate come nido da procioni, anatre, gabbiani ed altre bestie dell’universo selvatico, capaci di creare non pochi grattacapi nel contesto della gestione appropriatamente conforme di un luogo di partenza ed atterraggio così fondamentale. Almeno finché nell’anno del fatale cambiamento, in un tranquillo giorno d’estate, all’organo preposto di gestione noto come CDA (Dipartimento Aereo di Chicago) non venne in mente l’idea di frapporre innanzi ad un possibile disastro futuro la figura di un improbabile, quanto insolito eroe. Che tutti noi, sotto una guisa oppure l’altra, indubbiamente conosciamo: l’essere diabolico (soltanto quando di colore nero) la cui lunga barba sembrerebbe sottintendere saggezza. Se non fosse per la buffa, spesso scoordinata espressione che campeggia sotto quel piccolo paio di corna, poco prima che il suono straziante del suo tipico richiamo si palesi a perforare i nostri timpani, come si confà al cospetto di una cara quanto prototipica capra.
Ora è certamente lungi da me voler paragonare la figura di un simpatico animale, per quanto utile e operoso, alle gesta di una delle figure maggiormente celebrate dagli americani risalenti all’era della guerra. Tuttavia è palese per chiunque abbia modo e il desiderio d’osservarlo, come l’impiego per tosare l’erba delle più importanti capre di Chicago, prese annualmente in prestito dal pastore Andrew Tokarz con la sua fattoria in Illinois, assieme ad alcune pecore e un asino di nome Jackson, come protezione contro il possibile attacco dei coyote, abbiano fatto molto per incrementare la sicurezza dei voli in partenza e in arrivo per la cosiddetta Città Ventosa. E il tutto senza mai pretendere, persino a fronte del successo conseguito, nessun tipo di coccarda o ricompensa d’altro tipo…
Spiagge rosse: l’esercito di mini-aragoste che sta invadendo la California
Per un tempo assai lungo si è pensato che la Luna, astro più grande e facilmente osservabile della volta celeste, potesse ospitare intere popolazioni di creature in qualche modo appartenenti al mondo della leggenda. Rettili o crostacei striscianti negli oscuri recessi dell’altra Faccia, con le caratteristiche di esseri più o meno intelligenti, capaci di prosperare in maniera totalmente distinta rispetto alla multiforme, brulicante società degli umani. Mostriciattoli che avrebbero un giorno, per ragioni largamente difficili da immaginare, disceso il lungo ancorché tenue collegamento costituito dal vasto spazio vuoto che ci separa, discendendo fili diafani come ragnatele, per venire a chiederci il conto dei molti secoli, o millenni di solitaria soddisfazione dei nostri bisogni. Ma la Luna non agisce soltanto in maniera diretta, possedendo in se stessa il potere d’influenzare, con la propria massa relativamente notevole, il moto ondoso delle maree. Ecco dunque il modo in cui da svariate decadi, a ogni volgere di un giorno propizio sul calendario, l’armata degli esseri d’oltremondo compare non più sulla cima di remote montagne, bensì presso la località di spiagge altamente rinomate, dove al ritirarsi della spuma oceanica questa presenza inusitata compare in tutta la sua orribile moltitudine. Più morta che viva e proprio per questo, maleodorante.
“Amico, com’è il mare oggi?” Chiede il giovane surfista al collega di ritorno da un pomeriggio di svago sotto lo sguardo attento di Nettuno: “Piacevolmente mosso ed accogliente. Ma sappi che sono tornati di nuovo i tuna crabs” Orrore. Dispiacere. Seguito da raccapriccio. Soprattutto per tutti coloro che amando ogni tipo di animale, non possono restare indifferenti dinnanzi al fascino lungo 9-10 cm di una creatura tanto sotto-dimensionata rispetto alla convenzione e proprio in funzione di ciò, capace di suscitare istintivamente il senso di perdita per molte, segmentate quanto incolpevoli vite. Stiamo parlando di un fenomeno, capace di fare la sua comparsa ancora una volta in questo periodo di giugno-luglio del 2019, già sperimentato da queste parti nel corso delle ultime due decadi (e forse anche prima) ogni qual volta la temperatura sale al di sopra di una certa soglia, spesso per il ritorno del fenomeno atmosferico noto come El Niño-Oscillazione Meridionale, che allenta almeno per mare il fatale confine percepibile tra la confederazione dei cinquanta Stati Uniti e l’assolata nazione messicana. Per cui spingendosi a settentrione della lunga striscia di terra della Baja California, enormi quantità del crostaceo composito denominato scientificamente Pleuroncodes planipes subiscono quindi le conseguenze di uno shock termico e la mancanza di cibo rispetto alle abitudini pregresse. Finendo spiaggiati, nonché morenti, a pochi metri di alcuni punti di aggregazione particolarmente cari alla popolazione locale. Vedi ad esempio la spiaggia dell’eponima Redondo Beach, cittadina ormai abituata a convivere periodicamente con il problema, facendo persino buon viso a cattivo gioco. Un po’ come gli astronomi del Mondo Antico, che in assenza di ausili ottici, dovevano supplire alle proprie manchevoli conoscenze mediante l’impiego della fantasia…
Il robot creato per far rimbalzare pietre piatte sulla superficie di un lago
Le stagioni passano ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Per un martello, qualsiasi cosa è un chiodo. E qualora l’attrezzo dovesse mancare, sarà la natura ad accorrere in aiuto, con l’alternativa valida di oggetto globulare ed oblungo, talvolta ruvido al tatto (ma non sempre). Il sasso in grado di delimitare un sentiero, ovvero la strada anche detta Via, che conduce all’ultima realizzazione di un pregevole obiettivo: dimostrare il proprio predominio sulla fisica dei corpi in movimento, intesi come cosa piatta che rimbalza, in qualità sua massima prerogativa, lungo la superficie lievemente increspata di un corso/specchio d’acqua, per molteplici e inarrestabili volte. Ma generalmente non più di dieci. Intere generazioni di fanciulli dediti al cosiddetto rimbalzello, sia in termini d’anni trascorsi dalla loro nascita che per l’età mentale soggettivamente percepita, hanno tentato di superare quel fatidico numero, accedendo alla fama del proprio limitato consorzio generazionale. Finché il globalismo dei moderni sistemi comunicativi, unito al senso della competizione contemporanea che ogni cosa pervade, non hanno aperto come una chiave la porta del perfezionamento, dimostrando che una persona sinceramente impegnata poteva ottenere molto, molto più di così. E che dire, dunque, di un ESSERE ARTIFICIALE?
“Creatore, qual’è il mio scopo?” Risuona metaforicamente la voce priva d’intonazione di una macchina, soltanto vagamente antropomorfa (beh, più che altro una scatola con testa ed arti) costruita al fine di essere trasportata presso il lago Cavanaugh nello stato settentrionale di Washington da niente meno che Mark Rober, l’eclettico ex-ingegnere della NASA famoso online, tra le molte altre cose, per aver partecipato alla progettazione del Rover Curiosity che oggi si trova su Marte, prima di passare al costume di Halloween con la coppia di iPad che proietta il “buco” attraverso la sagoma riconoscibile di zombies, fantasmi o altre creature da incubo temporaneamente resuscitate su questa Terra. Lui che si trovava qui impegnato, con il nutrito pubblico dei suoi giovani nipoti e mi sentirei anche d’ipotizzare, vista la quantità di gente, anche qualche amichetto di scuola, nel dimostrare in maniera pratica alcuni metodi del processo creativo al centro della sua carriera, particolarmente verso l’ottenimento di una configurazione finale finalizzata all’ottenimento di un record numericamente importante. Grazie a Skippa, l’essere mostrato in apertura, in realtà frutto dell’adattamento di una macchina per l’allenamento nel baseball, con il braccio alterare per non lanciare più il tipico pegno sferoidale di un tale sport, bensì un oggetto piatto riconducibile, sostanzialmente, al discobolo di Mirone: cerchietti d’argilla essiccati al sole. Per lo meno, in questa fase preliminare dell’intrigante progetto, finalizzato a dimostrare le vette sportive raggiungibili da un dispositivo creato artificialmente, quando le condizioni d’impiego risultino perfettamente prevedibili ed uguali per ciascun singolo tentativo. Una qualcosa di perfettamente riconducibile anche alla pratica umana di un simile campo d’interesse, quando si considera come nel solo ed unico campionato mondiale di stone skipping o skimming (come viene alternativamente chiamato nel mondo anglosassone) tenuto ogni anno a settembre presso l’isola scozzese di Easdale, uno degli aspetti chiave sia l’impiego di pietruzze quasi perfettamente identiche, tutte provenienti dallo stesso materiale dell’ardesia un tempo estratta da quel territorio, prima che il modificarsi del paesaggio portasse le antiche miniere a ritrovarsi completamente allagate. Poco male, considerata la nuova attività-simbolo di queste persone…
Ricostruita su Internet la misteriosa canoa dei guerrieri irochesi
Nel 1603, con la decisione dei coloni francesi di non vendere armi alla potente Lega delle Cinque Nazioni del Nuovo Mondo, creata grazie alle scelte politiche e la grande abilità diplomatica del capo irochese Hiawatha assieme al profeta degli Huron Deganawida, la diffidenza di una simile potenza nei confronti degli europei giunse al limite estremo. Fu quello il momento dunque, più o meno definito, in cui le tribù belligeranti decisero di allearsi con gli inglesi della Costa Est, dietro l’accordo implicito, mai davvero messo per iscritto, che questi ultimi gli avrebbero permesso di mantenere il controllo esclusivo sui propri territori. Trascorso un breve periodo di calma apparente, quindi, un nutrito contingente di guerrieri iniziò a costeggiare il fiume di St. Lawrence verso meridione, nella regione dei Grandi Laghi dove si trovavano i clan allineati con la Francia degli Algonchini, i Susquehannock, gli Erie e gli Abenaki. Ma prima di raggiungere i loro villaggi, dall’altro lato dell’impetuoso corso d’acqua scorsero pattugliatori a cavallo con l’uniforme imperiale, armati degli ultimi moschetti prodotti dall’altro lato del grande Mare. Nascondendosi a quel punto tra gli alberi della foresta, gli irochesi lasciarono alle truppe nemiche tutto il tempo di prepararsi, mentre nel profondo della foresta, misero in atto il loro piano. Una notte e una mattina dopo, la piccola armata organizzata del re di Francia era pronta ad impedire il guado e conseguente assalto, nell’unico punto in cui fosse possibile effettuarlo nel raggio di molte centinaia di miglia. Essi sapevano bene, grazie al resoconto degli esploratori, che il loro nemico “primitivo” era del tutto privo d’imbarcazioni o altri metodi capaci d’invertire i presupposti. Giusto mentre i comandanti continuavano a ripetersi questo, scrutando pensierosi la direzione da cui sarebbe stato costretto a provenire il nemico, si udì un grido di battaglia provenire da molto, troppo vicino. Gli indiani avevano attraversato in un altro punto, ed ora stavano attaccando da dietro! “Uomini, preparatevi a respingere la carica!” Difficilmente, tuttavia, la battaglia avrebbe potuto iniziare con presupposti peggiori…
Il sapere dei popoli nativi americani era vasto e talvolta vario, come il grande azzurro dei cieli. Essi possedevano, per quanto era dato sapere all’uomo cosiddetto bianco, essenzialmente due mezzi di trasporto nautici, concepiti per i labirinti fluviali e lacustri di questo vasto ed ancora largamente inesplorato continente: una era la canoa ricavata da un singolo, enorme tronco esattamente come un totem, estremamente pesante ed associata principalmente ai popoli della regione corrispondente all’attuale stato di New York fin su a settentrione, nella parte canadese del continente. L’altra era quella in corteccia di betulla, molto più leggera, maneggevole e soprattutto trasportabile, considerata l’ideale per spostarsi attraverso i corsi d’acqua e le asperità montuose di questi luoghi. Entrambe, tuttavia, in grado di richiedere svariati giorni per essere costruite, e comunque troppo ingombranti perché un’armata di guerriglieri in marcia potesse trascinarsele dietro per migliaia di chilometri, prima di montare l’assalto contro un contingente nemico. Come potevano aver attraversato, dunque, il fiume di St. Lawrence, gli inferociti guerrieri delle Cinque Nazioni?
La risposta, oggi facilmente disponibile a un qualsiasi esperto di quell’epoca e le relative tradizioni, viene resa per noi esplicita dall’archeologo sperimentale e divulgatore di YouTube Jas Townsends, dal riconoscibile cappello e giacca coloniale, perennemente impegnato nella ricostruzione dello stile di vita nordamericano nel XVII e XVIII secolo. Che in occasione dei suoi ultimi due episodi, collaborando con l’esperto nautico Erik Vosteen, ha scelto di approfondire la costruzione di un qualcosa che in molto pochi, oggi, hanno avuto modo di vedere coi propri occhi: la perfetta ricostruzione, fedele per metodi e tecnologie, di una canoa in corteccia d’olmo, particolarmente rara persino all’epoca citata, benché venisse occasionalmente utilizzata da tutti quei popoli che si trovavano al di sotto della latitudine a cui potevano crescere con successo le betulle. Verso l’approntamento di uno scafo pesante, compatto, difficile da rifinire e generalmente condannato a disgregarsi nel giro di una, due settimane al massimo. Benché avesse una qualità, sopra ogni altra: la capacità di essere pronto nel giro di appena 12 ore. Soltanto mezza giornata affinché un intero contingente potesse, con estrema facilità e nessun tipo di rischio, varcare il corso infuriato di un vasto fiume!