L’imminente decollo del sedere più grande al mondo

Airlander

Sarà un grande giorno, per le aspettative troppo a lungo disattese. Sarà un momento storico per l’intera storia dell’aviazione. Sarà grande, sarà magnifico, davvero emozionante. Una visione pari a quella degli extraterrestri, che in tanto cinema di genere gettarono la loro ombra sopra le piazze o i monumenti della Terra. Proviamo per quanto possibile, con gli occhi della mente, a prefigurarci il varo del possente dirigibile HAV-3, volgarmente detto Airlander 10. E ancor più volgarmente… Siamo nel Bedfordshire, tra Northampton e Cambridge, nel cuore di quel verdeggiante mondo che è la dolce campagna inglese. È una mattina dell’imminente estate del 2016, ovverosia quando il progetto più che quinquennale, almeno stando alle più realistiche previsioni, sarà finalmente giunto a compimento. Dozzine, centinaia, ma che dico, decine di curiosi, oltre alla stampa richiamata per l’occasione e gli onorati potenziali investitori della compagnia produttrice, si saranno assai probabilmente radunati, sulla cima di un colle, a poca distanza dalla vecchia base militare della RAF a Cardington, dove notoriamente soggiaceva il grande Leviatano…
E sarà un brusio continuo, di confronti e discussioni, compunte descrizioni delle alterne aspettative: “Hai sentito, si tratta dell’aeromobile più grande al mondo! Ma non il maggiore che sia stato costruito. Quel record spetta ancora all’Hindreb-Hinderburg…Ah, che sfortuna! Davvero quei tedeschi…” Farà Larry con l’inseparabile pipa, un agricoltore di Kempston; “Si, ma 91 metri? Capisci cosa significa? Una lunghezza paragonabile a quella di un campo da rugby, o in altri termini, 6 autobus a due piani. Crickey! Stavolta si tratta di un’eccellenza nazionale, un qualcosa che soltanto noi inglesi, potevamo meritarci!” Risponderà Steve, stimato panificatore della vicina comunità rurale di Clapham (non il quartiere di Londra, semplice caso di omonimia toponomastica). Mentre i rispettivi cani, un entusiastico Airedale Terrier ed un Labrador Retriever, continuano la folle corsa dietro a una palla da tennis, ritmicamente recuperata e riportata ai rispettivi padroni, con lo sguardo perennemente rivolto all’orizzonte. Finché non ebbe a palesarvisi, come da precise aspettative, l’ombra di un qualcosa di meraviglioso. Uno sferoide, assai distante, eppure si capiva: totalmente colossale. “Guarda, eccolo lì!” Il grande velivolo, a distanza pluri-chilometrica, appariva ancora come una massa indistinta. Chiaramente puntata, con un soave senso d’esultanza, proprio verso loro due, con tutti gli altri spettatori. “Steve, io, io…Non so che dire!” Con le nubi a fargli da cornice, l’impossibile presenza non poteva che apparire in proporzione, ancor più megalitica e imponente. Passarono i minuti. Lo spazio continuò a ridursi. Finché ciò che era stato un tutt’uno apparve, quasi all’improvviso, definibile da proporzioni ben precise. Il davanti del colosso: due forme cilindriche, come globi allungati, con l’apogeo disposto a culmine, nel punto focale dell’intera incomparabile struttura. Ed in mezzo, un’attraente rientranza, come uno spazio tra due alte colline che volavano nel cielo. Ma non proprio, una dolce valle. Bensì uno stretto canyon, angusto, misterioso. Come colti dal pathos dell’attimo fuggente, i due cani tacquero, sedendosi compunti ad osservare l’atmosfera. La palla giacque, ormai dimenticata. “Larry.” Fece l’altro, con la pipa bene stretta nella mano destra, lievemente scostata dalla sua bocca alzata all’angolo con smorfia carica di sottintesi: “Questa cosa. Non sembra tanto anche a te un divino…”
Lo chiamano, ormai da qualche anno, con la denominazione commerciale Airlander 10. Non è esattamente un dirigibile, né un aereo. E non è di certo un elicottero, benché generi una parte significativa della sua portanza grazie all’uso di due eliche intubate, rigorosamente rivolte verso il suolo. Il fatto che ricordi vagamente, nella sua suggestiva forma, l’essenza incomparabile del gluteus maximus (muscolo più grande e forte del corpo umano) è una pura coincidenza, dovuta a considerazioni di tipo aerodinamico e utilitaristico. Semplicemente, volava meglio così. Se lo si osserva dal retro, del resto, l’illusione svanisce, vista la presenza di ben tre tondeggiante preminenze, ovvero, una in più. Una questione accuratamente studiata e definita, poiché, contrariamente alle apparenze, questo velivolo pieno d’elio non è di un tipo che possa realmente definirsi più leggero dell’aria. Appartenendo, piuttosto, alla classe degli aeromobili ibridi, che pur contando sulla propria naturale tendenza a fluttuare, non potrebbero mai rimanere a distanza dal suolo, senza sfruttare anche l’energia di uno o più potenti motori. Una curiosa, e alquanto rara via di mezzo. Che presenta dei notevoli vantaggi operativi.

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Come salvarsi dalle sabbie mobili di Morecambe Bay

Morecambe Bay

Il 5 febbraio del 2004, in un freddo giorno d’inverno del Nord-Ovest d’Inghilterra, un gruppo di 38 migranti cinesi stavano per iniziare la propria nuova vita. Assunti illegalmente e senza alcun tipo di permesso, da un duo padre-figlio di commercianti locali per il tramite di un gangmaster, il tradizionale intermediario della loro stessa nazionalità, erano partiti di buon ora da Slyne-with-Hest, sub-contea della città di Lancaster, per inoltrarsi oltre la costa presso la località di Hest Bank. Là dove il cielo era più limpido e l’acqua distante, camminando sulla sabbia color spento, fino al centro di un deserto letteralmente privo di specifici punti di riferimento. Ciascuno di loro, generalmente caratterizzato da un’età che andava dai 20 ai 30 anni, di sesso maschile, volenteroso e in buona forma fisica, iniziò quindi ad eseguire le specifiche istruzioni ricevute dai datori di lavoro: chinarsi, inserire lo strumento di carotaggio, ricavare un buco nel terreno e poi metterci dentro la mano. Una, due, tre volte, finché da quel pertugio non tornava su, miracolosamente, una o più cockles, le particolari vongole native di questo luogo, unico in tutta l’Europa Settentrionale. Un lavoro ingrato, e come spesso capita in simili casi, mal pagato: stiamo parlando, per intenderci, di 5 sterline ogni 25 K. Bene o male, un giorno intero di lavoro. Senza casa, senza famiglia, senza possibilità. Una condizione per uscire dalla quale, si sarebbe disposti a fare qualunque cosa. Praticamente tutto, tranne perdere la vita.
Ad oggi non è totalmente chiaro, nonostante il riuscito recupero di 15 sopravvissuti, che cosa esattamente sia successo per causare il decesso per affogamento dei loro 23 compagni. Né probabilmente, ci fu una sola causa determinante: il fatto è che pianure simili, del tipo quotidianamente ricoperto dall’alta marea, sono sempre infuse di un senso di calma apparente, la stasi più totale. Niente pare disturbare la loro pura essenza, finché la forza gravitazionale della Luna, assistita dalla rotazione terrestre, non causa un lieve innalzamento del livello del vicino mare. E quello, delicatamente, inesorabilmente si propaga fino all’entroterra, ricoprendo tutto e tutti quelli che si trovano sul suo cammino. In particolare nella baia di Morecambe, che in realtà non è affatto un’insenatura costiera ma il vasto delta risultante dalla confluenza tra i fiumi Leven, Lune, Kent, Keer e Wyre, si dice che l’avvenire di questo spaventoso e reiterato fenomeno avvenga “alla rapidità di un cavallo al galoppo”. Potrebbe sembrare un’esagerazione. Forse, dopo tutto, lo è. Ma resta ad ogni modo improbabile, per chi sente una tale storia per la prima volta, il fatto che dei giovani perfettamente abili, sebbene privi di conoscenze approfondite della geografia locale, non siano riusciti in qualche modo a trarsi in salvo dal pericolo, scorgendolo sull’orizzonte da lontano. Ciò perché la vera ragione della loro dipartita, in effetti, è nascosta sotto un velo di apparente sicurezza: la superficie del suolo stesso. E trae l’origine da una sostanza assai temuta, eppure mai abbastanza, uno dei fluidi più comuni al mondo. Il puro fango. Che naturalmente, può trovarsi caratterizzato dalle forme o consistenze più diverse. Ma che nella sua versione maggiormente deleteria, finisce per assumere caratteristiche pseudoplastiche, ovvero diventare un denso fluido non-newtoniano che “si assottiglia al taglio” (espressione tecnica) perdendo la solidità, qualora sottoposto a una sollecitazione improvvisa. Come il passo di un pesante essere umano.
Ciò che succede, allora, è facilmente dimostrabile, come fatto per l’appunto dal nostro Jonny Phillips, l’inviato del National Geographic per la serie I Didn’t Know That, che nell’occasione qui mostrata decise, non senza pentirsene immediatamente, di mettere alla prova le leggende su una delle singole località più pericolose di tutte le isole britanniche. L’avventura risultante, a giudicare dallo stato d’animo dimostrato sul finire del video, sarà destinata a restargli bene impressa nella memoria.

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Teste, gambe, occhi…Nella fabbrica di bambole, molti segreti

Doll Factory

Attorno alla fine del XIX secolo, gli alchimisti della città tedesca di Sonneberg nella Turingia meridionale compiono un significativo passo avanti nel processo per giungere alla creazione del perfetto essere umano artificiale. Messi temporaneamente da parte il salnitro, l’acqua regia, il rubedo, le gonadi di serpe e l’uovo di gallina, essi sperimentano l’effetto avuto da una risorsa molto più mondana, la colla, su un’impasto di segatura e canfora, giungendo alla creazione di quella sostanza che avrebbe preso il nome di nitrocellulosa. Un’impasto malleabile a caldo, che una volta lasciato raffreddare assumeva una forma solida e flessibile, perfetta per assumere la forma in uno stampo predeterminato. Era questa, sostanzialmente, la plastica ante-litteram, uno strumento dell’industria senza pari. In breve tempo molti magnati dell’industria locale, tra cui i proprietari della nascente fabbrica Schoenau & Hoffmeister, destinata a diventare il principale produttore di esseri umani in miniatura dell’epoca immediatamente successiva, scoprono la notevole somiglianza di quella particolare superficie, consistenza e colorazione, con la fin troppo familiare pelle umana. Il resto, come ben sanno i collezionisti di simili gingilli per fanciulle d’altri tempi, è storia (dei giocattoli). Nel giro di pochi anni, le precedenti figurine antropomorfe di piccole signore realizzate in bisquit, un tipo di ceramica priva di vetrinatura per risultare più realistica, vengono integralmente sostituite dalla nuova tipologia, molto più resistente all’usura, credibile ma sopratutto; meno costosa da produrre. La bambole, per come erano state conosciute fino a quel momento, erano essenzialmente morte. Lunga vita alle bambole risorte!
La formula segreta per la loro creazione, da quel momento, circola per il mondo in lungo e in largo, fatta fluttuare sulle ali sempre redditizie dell’onnipresente spionaggio industriale. Le fabbriche di mezza Europa copiano quel particolare approccio, che in lingua inglese ha nome composition, impiegandolo per realizzare una fortuna comparabile a quella dei suoi primi scopritori commerciali.  Scoppia la guerra. Due intere generazioni, tra la prima e la seconda iterazione del più grande conflitto che abbia mai coinvolto i cinque continenti, perdono la vita nella corsa folle verso il predominio di questa o quella ideologia. Ma mentre imperversa il principio, tipicamente maschile, della forza che conduce al predominio, nelle case semi-vuote, tra tende merlettate e pinzillacchere di vario tipo, le bambine vivono la propria vita, per quanto possibile, nel regno puro della fantasia. Passata quindi la tempesta, raccolti i pezzi della civiltà dilapidata, i molti progressi tecnici compiuti per assistere le truppe al fronte trovano migliori applicazioni. E tra queste, naturalmente, c’è il polistirene, prodotto commercialmente per la prima volta dalla tedesca BASF negli anni ’30, per non parlare delle resine fenoliche, lanciate internazionalmente dall’americana Durite Plastics Inc, proprio nel mezzo di quell’epoca di cambiamenti. Nel frattempo, gli inglesi avevano il polietilene, letterale sinonimo funzionale delle Imperial Chemical Industries (ICI – 1933) mentre in Italia, la prima plastica nazionale sarebbe giunta soltanto nel ’54, grazie all’opera di ricerca sui sui polipropileni di Giulio Natta, chimico e premio Nobel. E fu chiaro fin da subito, che un tale approccio alla produzione industriale avrebbe rivoluzionato ogni cosa, dalla conservazione dei cibi ai trasporti, dall’abbigliamento alla scienza medica. Incluse, ovviamente, le (ancora) silenziose paladine del “giochiamo a fare mamma & papà”. Verso la fine degli anni ’50, la nitrocellulosa era ormai considerato un materiale sostanzialmente inferiore, sopratutto per la sua naturale tendenza a sbiadire sotto il sole, per non parlare della facilità con cui tendeva a prendere fuoco. Era un mondo totalmente nuovo, quello, in cui le bambole divennero di plastica. Come del resto, quasi ogni altra cosa.
In questo segmento a colori della British Paté, uno degli archivi video storici più vasti consultabili liberamente online, viene mostrata la realtà operativa di una fabbrica inglese di quell’epoca, sita presso Battersea, nella periferia sud di Londra. La tipica voce impostata dei commentatori coévi, assieme a una colonna sonora allegra e la bizzarra natura delle immagini mostrate, contribuiscono nel creare un senso di coinvolgimento nostalgico ma al tempo stesso appassionante. Ma se l’aveste mostrato in giro all’epoca della Schoenau & Hoffmeister, non ci sono dubbi: grandi e piccini avrebbero fatto un sobbalzo. Perché queste non sono pupattole come le altre, baby. Esse parlano, come i viventi!

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Fotografando F-16 dal portellone di un aereo in volo

Aviation Photocrew

Nel recente video rilasciato dal gruppo belga degli Aviation PhotoCrew, ce n’è un po’ di ogni: dagli agili e aggressivi jet militari da combattimento, a imponenti bombardieri, aerei da trasporto e addirittura un paio di elicotteri, perché alla fine non ci si può lasciar condizionare dalla propria passione, primaria e totalizzante, per il volo ad ala fissa. Il breve ma intenso catalogo di successi, probabilmente uno dei più spettacolari e variegati segmenti sull’aviazione disponibili al momento su YouTube, costituisce un’imprevista finestra sull’opera creativa di chi ha il merito, e l’indubbia fortuna, di poter seguire un airshow dall’alto, finendo per inquadrare in primo piano addirittura i piloti stessi delle forze aeree dei paesi coinvolti, mentre intenti a dimostrare agli spettatori a terra le capacità prestazionali dei rispettivi volatili d’acciaio. È una sorta di bird watching, se vogliamo, ma condotto qualche giorno l’anno, in circostanze estremamente spettacolari, rare e quasi altrettanto dispendiose, sia dal punto di vista del carburante che più prettamente adrenalinico, inteso come forza d’animo e mancanza di vertigini dei produttori d’eccezione. Perché naturalmente, c’è solo un modo per testimoniare a pieno l’opera di chi fa un qualche cosa d’incredibile, ovvero mettersi direttamente in discussione, cercando di seguirlo fin lassù. E collateralmente ad una tale impresa, la squadra di otto persone formata nel 2009 da Eric Coeckelberghs detto “Mr Photoflight” possiede uno strumento estremamente degno di nota, ovvero un fiammante ed affidabile Short SC.7 Skyvan, un aereo occasionalmente definito, non senza un certo grado di affetto, la “scatola di scarpe volante”. E il perché di questa nomina, certamente prosaica se non proprio dissacrante, appare immediatamente chiaro alla prima scena del racconto, vista la forma squadrata del velivolo in questione, su cui salgono con entusiasmo i membri imprescindibili del team. Il celebre bimotore del resto, progettato e costruito a Belfast, in Irlanda, dalla Short Brothers a partire dal 1963, è diventato nelle ultime decadi una sorta di piccola leggenda nel suo settore, per la capacità di aprire completamente il proprio posteriore durante le operazioni di carico/scarico, dimostrandosi in grado di trasportare molte più merci di quanto si tenderebbe a pensare. Oppure, come in questo caso, offrire un palco d’eccezione durante il corso del proprio stesso volo, da cui fare conoscenza con i suoi lontani parenti alati, i veri e propri, costosissimi e meravigliosi, aviogetti ad uso esclusivamente militare.
Sia chiaro, ad ogni modo, che l’intera sequenza non è il seguito di un singolo decollo. Benché ci vada, in effetti, assai vicino. E questo in funzione dell’occasione visitata dai PhotoCrew durante il settembre del 2014, l’evento di volo dei Belgian Air Force Days, tenutosi presso la base di Kleine Brogel in occasione dei due anniversari dei 100 anni dell’aviazione militare ed i 40 trascorsi dal primo volo dell’intramontabile F-16, ancora oggi un antiquato caposaldo all’interno delle forze aeree di una buona parte del mondo. E non a caso, a rendere onore allo storico Fighting Falcon della General Dynamics ci pensano nel corso di appena due minuti almeno tre nazioni differenti incluso naturalmente l’ospite dell’intero evento, il Belgio, con la spettacolare livrea azzurra con figure geometriche del suo aeromobile denominato GEOX (dobbiamo desumere, per logica, che non fosse una mera sponsorizzazione del marchio d’abbigliamento) per di più impreziosito dall’immagine dipinta ad aerografo di quello che sembrerebbe essere uno Spitfire della seconda guerra mondiale, a cui comunque gli altri partecipanti non sono da meno: dalle strisce tigrate nere ed oro dell’aereo turco, identificabile dal grande falco in coda, al più sobrio ma comunque elegante caccia multiruolo inviato dai vicini Paesi Bassi. Ma le meraviglie, naturalmente, non finivano lì.

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