Follia e delirio sulle sabbie ricoperte di alghe in decomposizione

Gente che gioca, bambini che saltano e ridono in mezzo ad un groviglio appiccicoso di “cadaveri” marroni. Dopo tutto la vacanza è già pagata, giusto? E chi poteva prevedere che all’arrivo, ci saremmo ritrovati al cospetto di una tale Cosa? A poche decine di metri di distanza, trattori sferraglianti marciano sopra le basse dune della spiaggia. Calpestando lietamente i siti riproduttivi sepolti delle tartarughe di mare, mentre i loro grandi attrezzi motorizzati fanno il possibile, al fine di restituire un’aria dignitosa (letteralmente: quella che s’immette nei polmoni) ad un dei luoghi oggetto del maggior interesse turistico locale [pardon!/ Volevo dire orgoglio nazionale. Mentre sulla distanza, al suono della risacca inconsapevole, i sargassi continuavano a immigrare…
Eutrofizzazione: il processo a seguito del quale, per il drastico aumento del contenuto nutritivo delle acque, si verifica una crescita anomala di alghe o mucillagine, al punto da coprire totalmente la superficie di uno specchio d’acqua o piccolo lago. Considerate adesso lo stesso fenomeno, ampliato fino ai remoti confini del vasto mare. O addirittura un’intero oceano, quello Atlantico, a causa di una serie di fattori non interamente generati (per lo meno, in maniera diretta) dall’uomo. Di certo, la prosperità di tale infiorescenza vegetale non potrà raggiungere proporzioni tali da coprire spazi e rive nell’intero spazio delle terre emerse di due opposti continenti. Ciò è semplicemente impossibile, date le leggi della biologia di scala. Ma poiché in fin dei conti quel salmastro ambiente è l’espressione di un sistema, condizionato dal tragitto del moto ondoso e dei venti, tutta la materia risultante finirà necessariamente per essere spinta, come il detersivo della lavatrice, verso un unica, specifica destinazione. Sulla cui identità, scienziati e marinai, si sono lungamente interrogati almeno fino al 2011, mentre attraversavano per le ragioni più disparate quel ritaglio umido tra gli arcipelaghi della Grandi Antille e delle Azzorre, principale sito riproduttivo per le anguille, noto in tutto il mondo con il nome di Mar dei Sargassi. Finché una mattina di quell’estate fatidica, dolorosamente, gli abitanti della zona caraibica del continente americano non ricevettero la soluzione di un simile quesito: quando nel momento del risveglio, non scoprirono come le loro spiagge avessero cambiato improvvisamente COLORE.
Marrone, non proprio marrone. Più che altro, tende all’arancione: per tonnellate ed infinite tonnellate d’alga, lungamente dipartita dalla dimensione dei viventi, trasportata sin qui dalla corrente ed in attesa di essere assorbita nuovamente dalla natura. Ove “qui” significa, nello specifico, le spiagge della Repubblica Domenicana, le Barbados, Trinidad, Tobago, parte del Belize e la penisola messicana dello Yucatan, diventata progressivamente la capitale globale di un simile gravoso problema, capace statisticamente d’inficiare l’interesse turistico di questo intero contesto geografico ancor più delle tragiche notizie risultanti dalla venuta da un uragano. Mentre ogni anno tornava a ripresentarsi in proporzioni lievemente maggiori, finché all’inizio della scorsa estate del 2018, l’Evento: per ragioni ancora largamente da determinare, gli usuali siti di approdo dell’alga morta o morente iniziarono a ricoprirsi di una quantità superiore fino a 200 volte di quella massa maleodorante, dando luogo ad un fondamentale cambiamento del rapporto tra gli abitanti locali e quel fenomeno indesiderato. E sembrava che le cose non potessero che peggiorare, ancorché il puntuale accumulo di quest’anno, iniziato come sempre a marzo e terminato finalmente a settembre, non fosse destinato a raggiungere le stesse quantità del tutto fuori scala. Eppure, anche non costituendo un disastro ambientale capace d’inficiare in modo irrecuperabile gli equilibri ecologici della regione, è chiaro che l’accumulo di sargassi risulta innegabilmente sgradevole, oltre a presentare rischi non immediatamente evidenti per la salute stessa degli umani…

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Il fuorviante richiamo di un lago pieno di azzurri veleni

In una società sommamente devota al culto delle immagini che cosa mai potrebbe avere importanza, se non il sottile strato di polvere dorata che ricopre delicatamente le occulte questioni, come neve portatrice di un’ulteriore condanna per gli inconsapevoli umani… Splendido e appariscente, come il colore di un rilassante azzurro cielo che caratterizza il magnifico mini-mare della location quasi cinematografica diventata famosa presso i lidi dell’Internet social con sede a Novosibirsk, terza città russa per popolazione, situata nel bel mezzo della non climaticamente tiepida Siberia. Ragion per cui ogni cosa ci si aspetterebbe di trovare da queste parte, tranne la schiera di fanciulle o baldi giovani capaci di pubblicare uno stuolo di fotografie variabilmente professionali, ma sempre utili a sembrare belli, atletici, interessanti, rilassati, alla moda […] presso uno scenario che sembrerebbe direttamente prelevato da una guida turistica per le isole Maldive o Seychelles. Entrambi nomi, questi, assegnati per analogia alla “Discarica di Cenere TEZ-5” ameno recesso il cui appellativo originario lascia sospettare, almeno in parte, l’orribile verità. Le prime avvisaglie ci sono state all’inizio del mese scorso, quando alcuni degli instagrammers abituali frequentatori/ici di un così attraente luogo hanno potuto verificare il progressivo disfacimento “a scaglie” della suola di gomma delle loro scarpe, per ragioni almeno apparentemente indipendenti dalla normale usura di un simile materiale. Quindi qualcuno ha riportato una forte irritazione alle gambe, soltanto per averle intinto brevemente durante una sessione fotografica a cavalcioni del suo fido fenicottero rosa gonfiabile. Mentre all’attivista ecologica Ulyana Artamonova, giunta sul posto per verificare alcuni legittimi sospetti in merito alla questione, è ben presto venuto un fastidioso sfogo sul volto, apparentemente soltanto per aver trascorso un tempo eccessivamente lungo in prossimità della stessa aria capace d’increspare le limpide, chiari e fresche acque.
A lato delle quali, se soltanto i cultori della propria stessa bellezza possedessero uno spirito d’osservazione verso l’esterno pari a quello per i chili superflui, le difformità esteriori o imperfezioni degne di essere sottoposte a chirurgia plastica, permaneva il fin troppo evidente indizio relativo all’effettiva, “insospettabile” verità: una certa quantità di grossi tubi arrugginiti, serpeggianti tra l’erba, tutti egualmente orientati nella generica direzione delle alte ciminiere della Centrale Elettrica a Carbone SGK Numero 5 (Dove l’acronimo sta per: Siberian Generating Kompany) uno dei principali luoghi responsabili per le televisioni, i frigoriferi, gli impianti di riscaldamento e le altre diavolerie tecnologiche in dotazione al milione e mezzo di anime che popolano il vasto territorio di Novosibirsk. Vero e schietto miracolo di un modo moderno di fare le cose, tutto ciò, se non fosse per la naturale presenza di un volgere degli eventi eguale e contrario, ovvero l’inevitabile produzione collaterale di grosse quantità della polvere bianca nota come ossido di calcio (o calce viva) da scaricare, senza eccessivi complimenti, nell’unico elemento capace di contenerla: l’acqua…

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L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

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Questo frutto delizioso non può uccidere nessuno. Se è maturo

Il battito irregolare della pioggia sul marciapiede del quartiere Ginza raggiungeva appena la sala principale del celebre ristorante specializzato in fugu Izumi, mentre nella cucina sul retro regnava il più assoluto silenzio. In uno spazio estremamente ben illuminato, assai distinto dall’atmosfera crepuscolare dedicata agli ospiti della serata, lo chef poneva il suo coltello di traverso sopra il pesce più temuto, e amato, del Giappone intero. Con uno sguardo lievemente accigliato per la concentrazione, mentre due dei suoi quattro apprendisti trattenevano udibilmente il fiato, iniziò quindi il preciso e ripetitivo movimento, avanti e indietro, avanti e indietro, per dividere la piccola creatura dal suo fegato, residenza della temibile neurotossina, 100 volte più letale del cianuro di potassio, in grado di uccidere con una dose di appena 25 milligrammi. “Ah, finitela! Non abbiamo avuto vittime per 30 anni” articolò con le sue labbra in una silenziosa reazione di stizza; “Non cominceremo certo stasera”.
Agli antipodi nello stesso esatto momento, il coltivatore di un frutteto dell’Honduras sale su una scala alta 4 metri, fino alle propaggini più alte di una pianta dall’aspetto alieno. Le foglie perforate in modo irregolare, come fosse rediviva da un’infestazione di bruchi; le infiorescenze a spadice del tutto simili a massaggiatori vibranti, con un’effetto complessivo che la gente è abituata ad associare a un certo tipo di piante altamente decorative spesso messe negli appartamenti. Ma per lui, pronto a guardare oltre, le spighe che risultano più interessanti hanno già perso la candida foglia avvolgente, nota come spata, indurendosi per somigliare vagamente a una pannocchia. Di un colore verde oliva, ricoperta da una serie inaspettata di scagliette, paragonabili alla pelle dell’armadillo. Per un lungo attimo, il proprietario della pianta resta immobile, tentando di capire quale sia la frutta pronta ad essere venduta. Sa bene che se commette un errore, ci saranno conseguenze. Forse non terribili quanto quelle del pesce palla, a causa di una dose letale per persona adulta che risulta essere 1.000 volte più grande. Eppure 25 grammi non sono una quantità poi tanto alta. Quando si considera che ci sono persone che mettono tutto il frutto in bocca, senza dare il tempo al suo sapore di avvisarti…
Frutto. Pegno della natura? Straordinario gusto ed esperienza: ciò che viene messo in tavola, senza nessun tipo di rammarico, due anni almeno dopo aver piantato una Monstera deliciosa, pianta epifita (rampicante su altri arbusti) che nonostante l’aspetto simile non è tecnicamente un Arum o un filodendro, bensì la rappresentante principale del suo genus d’appartenenza. Il cui nome fa riferimento alle alte dimensioni, nonché un insieme di caratteristiche che potrebbero ampiamente collocarla come arma del delitto in un fantasioso romanzo giallo. Piuttosto comune nei suoi luoghi d’origine, in bilico tra tutto il Centro America e la parte più meridionale del Messico, la cosiddetta ceriman o “costola di Adamo”, in funzione dell’aspetto traforato delle sue grosse foglie cuoriformi si è dimostrata nelle più recenti generazioni estremamente adattabile e capace di attecchire su scala internazionale, iniziando a popolare spontaneamente i giardini di Florida, Hawaii, Australia e i paesi che si affacciano sull’area occidentale del Mediterraneo. Fortuna vuole, dunque, che il suo frutto dal sapore descritto come “un caratteristico medley di banana, ananas e cocco” non abbia un aspetto particolarmente appetitoso, né tutto l’insieme risulti facile da consumare.
Altrimenti visto il suo elevato contenuto di acido ossalico, una sostanza usata con successo per sgrassare i tubi arrugginiti e presente anche (in quantità molto minori) negli spinaci, nel rabarbaro e in taluni cereali integrali, qualcuno avrebbe già finito per cadere malamente nella trappola. Con conseguenze, a dir poco, deleterie…

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