Affittasi monolocale vista mare, ancorato nel bel mezzo della Manica inglese

Già a quel punto della guerra, la situazione appariva drammaticamente chiara e chiunque avrebbe concordato su una cosa: combattere contro le forze armate tedesche costituiva per buona parte l’Europa una difficoltà insormontabile, non soltanto per tattiche e tecnologia d’avanguardia. Ma in buona parte, per non dire soprattutto, a causa della loro straordinaria organizzazione logistica, inclusiva della capacità di risolvere i problemi ancor prima che potessero presentarsi. Vedi quello, già sperimentato da svariati schieramenti tra il primo e il secondo conflitto mondiale, della carenza di piloti addestrati da mandare a combattere sopra il fronte. Così che all’ulteriore spostamento del fronte di resistenza oltre il nord della Francia e nel tratto di mare chiamato the Channel o la Manche, secondo i crismi dell’operazione Unternehmen Seelöwe (Leone Marino) formalmente iniziata a settembre del 1940 ma in realtà già in corso da metà dell’anno, il colonnello-generale Ernst Udet incaricato di supervisionare le manovre dal lato tedesco comprese subito quale fosse il passo opportuno da compiere per incrementare le proprie probabilità di vittoria: preservare, ad ogni costo, l’incolumità dei propri combattenti dei cieli. Anche in un ambiente, quello gelido del Mare del Nord, in cui precipitare a seguito di un avaria o danni riportati in battaglia finiva per costare la vita ai malcapitati per un impressionante 80/90% dei casi, contro il 50% di probabilità di sopravvivere a seguito di un atterraggio d’emergenza sulla terra ferma. Un dato preoccupante e presto riscontrato da entrambi gli schieramento, al punto che “opportune” misure di salvataggio non tardarono ad essere implementate: veloci motoscafi dalla parte degli inglesi, con il compito di pattugliare le rotte dei piloti di ritorno dal continente, e veri e propri idrovolanti tedeschi modello Heinkel He 59 con basi di partenza in Danimarca, molto più efficienti nello rispondere alle speranze dei naufraghi immediatamente prossimi all’ipotermia. Tanto che ben presto essere trovati da uno di questi velivoli galleggianti era diventata l’unica speranza anche per la maggior parte dei piloti precipitati di nazionalità inglese, anche se avrebbe comportato la cattura e detenzione fino al termine del conflitto. Eppure, nonostante le croci rosse dipinte sulle ali e la carlinga, simili aerei vennero ben presto sospettati di compiere ricognizioni irregolari, inducendo il Comando Aereo inglese a designarli come bersagli legittimi per i propri intercettori. Una scelta dolorosa e non priva di un caro prezzo, come spesso tendeva ad avvenire in guerra, che indusse almeno in parte Udet a elaborare un approccio radicalmente differente. “E se” è possibile immaginare la sua domanda provocatoria al dipartimento tecnico del Reichsluftfahrtministerium “…Fosse possibile disporre di piccole basi galleggianti fisse, già situate nei luoghi più probabili ove un pilota possa trovarsi costretto ad abbandonare il suo aereo?” Ivi riparati, dal gelo delle acque e l’inclemenza degli elementi, essi potrebbero aspettare l’arrivo dei soccorsi senza trovarsi in bilico tra la vita e la morte. Accrescendo drammaticamente le proprie probabilità di sopravvivenza. Era il concetto per lo più dimenticato, ed ormai raramente discusso, della Rettungsboje (boa di salvataggio) costruita esplicitamente a tal fine, seguendo i migliori crismi tecnologici disponibili all’epoca della sua entrata in servizio. Letteralmente una piccola stanza all’interno di un guscio di metallo, capace di ospitare nominalmente fino a quattro persone per tutto il tempo necessario. E in situazione d’emergenza, anche il doppio, indipendentemente dall’uniforme che indossassero al momento del rovinoso schianto…

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Grattacieli in bilico: abitereste al centesimo di un cumulo di cubi a Miami?

La differenza tra quando una comune azienda di sviluppo edilizio riceve l’approvazione del suo progetto, e lo stesso avviene invece alla PMG di Miami, mega-compagnia con 39 milioni di dollari di capitale e svariate centinaia di dipendenti, è che nel primo caso sorge in tempi brevi il primo accenno di un cantiere. E nel secondo, un cubo ricoperto di pannelli color mogano, col monogramma del cliente a lettere cubitali ed una grande porta a vetri, dietro cui è possibile scorgere un modellino particolarmente imponente del palazzo finale. Oggetto del desiderio e al tempo stesso una vera opera d’arte, per la maniera in cui intende imporsi nello skyline di una delle più celebri città statunitensi, non soltanto per le dimensioni assolutamente notevoli (320 metri d’altezza) ma anche la sua forma strana e inusitata, rassomigliante all’opera di un curioso bambino gigante. Essere di un’altra epoca o pianeta, che ritrovatosi tra le mani una serie di pezzi delle costruzioni, ha tentato d’impilarli al meglio della sua capacità. Il che non risultava essere abbastanza, in senso cosmico, per costruire un torrione monolitico, bensì uno sghembo susseguirsi di elementi non perfettamente allineati in senso verticale né orizzontale. Fortuna che un gruppo d’umani, guidati dallo spirito d’iniziativa e l’immaginazione, parrebbe essere intervenuto per trasformare lo strano oggetto in edificio stabile perfettamente utilizzabile per viverci all’interno, così come messo in mostra da questa raffigurazione in scala. Sotto la guida del celebre architetto uruguayano Carlos Ott, coinvolto fin dalle prime fasi ad opera del gruppo Sieger Suarez, per creare un qualcosa che potesse rivoluzionare totalmente il punto focale di ogni singola cartolina raffigurante la seconda città più grande della Florida, nonché la più apprezzata dai turisti.
Il committente della PMG in questo caso, d’altra parte, risulta essere dotato di capitali sufficienti a fare pressoché qualsiasi cosa, trattandosi di niente meno che il gruppo Hilton, nella guisa della propria azienda sottoposta Waldorf Astoria, originariamente titolare del singolo albergo più importante e celebrato della città di New York. Uno dei primi “grattacieli” con la sua altezza 191 metri raggiunta nel 1931 nonché icona di prestigio e lusso, dopo essere stato ricostruito a breve distanza per far posto nello stesso anno all’Empire State Building. Un buon punto di partenza per tentare di prendersi, finalmente, la propria rivincita con un palazzo in grado di sfidarne, sebbene non raggiungerne l’estrema imponenza. Pur risultando a conti fatti il più alto della Florida ed invero l’intera estensione degli Stati Uniti al di sotto della Grande Mela. Con un approccio che potremmo definire, senz’ombra di dubbio, fuori dalla linea concettuale maggiormente battuta o come ama scherzare su un tipico modo dire lo stesso Ott “Out of the box”, trattandosi piuttosto di NOVE scatole (boxes) effettivamente sovrapposte l’una all’altra, Di cui come comunemente avviene in questa tipologia di contesti, soltanto le prime tre corrispondenti ai piani fino al 41 risultano effettivamente dedicate all’ospitalità, mentre quelle verranno effettivamente dedicate al ruolo di residenze private, con prezzi di partenza oscillanti tra i 750.000 dollari e un milione. Proposte a conti fatti alquanto ragionevoli, considerata la collocazione strategica e l’eccezionale vista sull’oceano Atlantico all’interno della barbagliante baia di Biscayne…

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Il grande labirinto che si staglia contro i cieli di Dubai

Permane una fondamentale dissonanza nella mitologica questione di Dedalo e suo figlio Icaro, creatori involontari della propria stessa prigione. Poiché se resta vero che il minoico labirinto fosse stato frutto di un così avanzato ingegno costruttivo, mediante considerazioni relative a renderlo impervio a qualsivoglia aspirazione di fuga, come è mai possibile che proprio loro, non avessero perfettamente impresso nella mente quell’unico sentiero che alla fin dei conti, doveva pur esistere tra tali intersecantisi sentieri? Perché mai fare ricorso a quella tecnica decisamente meno familiare di costruirsi ali di cera, con il rischio che la proverbiale hubris (dannata, orrenda tracotanza!) potesse porre una modifica sui piani di volo, con le tristi conseguenze che fin troppo bene conosciamo. Tanto che se avessimo il curioso desiderio di spostare la vicenda ai giorni nostri, probabilmente tale situazione non avrebbe modo di ripetersi: poiché la coppia, è assai probabile, prenderebbe l’ascensore.
Non è facile descrivere l’effetto fuori contesto della svettante Maze Tower di Al Rostamani, dal nome del conglomerato aziendale multi-settore che ne è stato il committente verso l’inizio degli anni 2010. Poiché essa costituisce, molto probabilmente, la più chiara risultanza del bisogno di attirare l’attenzione tramite il disegno di un diverso luogo abitativo, tra i confini di un agglomerato urbano celebre nello specifico per la natura appariscente dei propri edifici. Congiunzione zigzagante alta 210 metri (per 56 piani) di elementi verticali e balconate, evidenziate nelle ore notturne da svariati chilometri di strisce al LED cangianti, capaci d’inscenare i più bizzarri e variopinti spettacoli a vantaggio degli spettatori che percorrono la sottostante Sheikh Zayed Road. Congiuntura impreziosita invece, nelle ore appartenenti all’infuocato assassino astrale del primo Aviatore, dall’aspetto sobrio e quasi scultoreo di una facciata ricoperta interamente in pregiatissimo marmo Verde Bahia importato direttamente dal Brasile, con doppia finitura contrastante opaca e lucida, capace di riflettere la luce tendendo al bianco. Un tema, questo, che continua negli spaziosi interni adibiti sia a scopo commerciale che abitativo, con ingressi separati sin dagli spazi del parcheggio sotterraneo, attraverso cui si accede ad un maestoso susseguirsi di pavimenti e pareti in pietra naturale, con pietra lavica, ardesia, granito color dell’argento, marmo bianco siberiano… Il tutto nell’esibizione di un’indolente opulenza che proprio qui, nel volto urbano degli Emirati, si è da tempo trasformata nella norma di un linguaggio straordinariamente riconoscibile e in qualche modo appropriato. Fino all’accesso sulla vetta, nascosta da un gigantesco disco circolare con innovativi sistemi di proiezione video, ad un piccolo giardino, le cui siepi perpendicolari l’una all’altra appaiono disposte col preciso scopo, tematicamente rilevante, di portare a perdersi tra i loro rami. Un piccolo labirinto (orizzontale, tradizionale) sopra quello grande (verticale, futuribile) che si richiama al particolare modo di vedere le cose di colui che su richiesta delle due compagnie creatrici, lo studio d’architetti tedesco Planquadrat e quello degli ingegneri arabi della DAR Consult, fu chiamato per donare il proprio tocco personale alla particolare realizzazione di quella insolita idea di partenza. Forse l’erede maggiormente rilevante, professionale piuttosto che genetico, di quel geniale progettista venuto a estrinsecarsi sull’isola di Creta di tanti secoli fa…

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L’abbaglio turco dei 700 castelli a schiera

È ancora possibile osservare, sulle alture che dominano il piccolo paese di Mudurnu a metà strada tra le città di Istanbul e Ankara, le rovine del castello bizantino di Modrene, dove le truppe dell’usurpatore Artabasdos furono sconfitte dall’esercito regolare di Costantino V nell’ottavo secolo d.C. Chiunque avesse l’inclinazione ad appassionarsi a una tale rovina in muratura erosa dai secoli e dalle intemperie, tuttavia, farebbe una grande fatica oggi a filtrare un altro elemento, per così dire medievaleggiante, di questo paesaggio non propriamente incontaminato. Come per il risultato di una partita a Age of Empires, o una sessione selvaggia di Photoshop, file multiple dello stesso costrutto architettonico si susseguono in parallelo alla singola strada provinciale sottostante. Ciascuna in se stessa perfetta, con la sua torre conica, gli abbaini, il balcone dalla balaustra ornata e le pareti bianche come la neve. Ma tutte assieme capaci, in qualche maniera, d’evocare il senso di un luogo surreale ed impressionante. Naturalmente come sempre avviene, è tutta una questione di punti di vista. Per cui se noi europei pensiamo allo stretto sul Bosforo della principale città turca, e le zone ad essa limitrofa, non possiamo cancellare dalla nostra mente immagini tipiche del Medio Oriente, con cupole, moschee, mezze lune e tutto ciò che ne deriva sulla mappa cittadina di un ipotetico sultano. Mentre per chi viene dalle terre degli aridi deserti d’Arabia, è inevitabile associare questi luoghi all’antica Europa, un luogo percepito in taluni ambienti come ricco di misteri e talvolta, un fascino ineffabile e remoto. Ne deriva che un territorio come questo, assai lontano dalle influenze dell’urbanistica moderna, possa essere associato idealmente, da un facoltoso industriale dell’Oman o dell’Arabia Saudita, alla Francia ed in modo particolare a uno specifico castello appartenuto, tra gli altri, alla regina Caterina de’ Medici nel XVI secolo, la cui conformazione ricorda una versione in scala superiore di ciò che qui ci ritroviamo costretti a vedere pressoché ad infinitum.
Questo sembrerebbe aver pensato, con un chiaro intento rivolto al guadagno commerciale, il personaggio diventato recentemente famoso all’estero di Mezher Yerdelen, capo della società d’investimenti immobiliare Sarot Group nonché un esponente di secondo piano del partito islamista della Felicità, entità politica fortemente radicata nel territorio pur non essendo al momento una forza di primo piano nelle elezioni nazionali. Il cui prestigio personale deve aver ricevuto una forte scossa, come del resto quello di molti suoi omologhi in altre grandi aziende, quando a seguito del crollo finanziario della lira turca concretizzatosi nei primi mesi della scorsa estate, per una serie di fattori tra cui le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, si è ritrovato a dover dichiarare banca rotta. E di sicuro non ha aiutato il fatto che i preordini per una buona metà del suo progetto fossero stati improvvisamente cancellati allo stesso tempo, per ragioni largamente ancora da chiarire. Fermando a poco più di tre quarti l’avveniristico, e per certi versi incredibile progetto del consorzio Burj al (torri di) Babas, inizialmente concepito come terreno fertile d’investimento per un certo tipo di magnate dell’industria delle risorse petrolifere ormai non più entusiasta all’idea, con costi unitari per residenza che spaziavano tra i 370.000 e 500.000 dollari americani. Ciò che si è presentato dunque, all’inizio del 2019 e sotto l’obiettivo delle telecamere finalmente puntate sulla questione (si sa, il dramma crea sempre interesse) è uno scenario di esattamente 587 piccoli castelli di circa 400 metri quadri l’uno, come una versione psichedelica della regione della Loira qui trapiantata ma lascito all’improvvisi deserti, a causa di una singola quanto devastante catastrofe sociale. Il vento soffiava tra le loro finestre vuote, come la voce di altrettanti fantasmi ululanti al calare della notte…

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